Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8886 del 29/03/2019

Cassazione civile sez. I, 29/03/2019, (ud. 30/01/2019, dep. 29/03/2019), n.8886

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14587/2017 proposto da:

S.H., elettivamente domiciliato in Roma, Via Rodi n. 45,

presso lo studio dell’avvocato Attisano Marcella, rappresentato e

difeso dall’avvocato Geraci Antonio, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Ufficio Territoriale del Governo di Palermo;

– intimato –

avverso l’ordinanza del GIUDICE DI PACE di PALERMO, depositata il

30/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/01/2019 dal Cons. Dott. DI MARZIO MAURO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – S.H. propone ricorso per tre mezzi, nei confronti dell’ufficio territoriale del governo di Palermo, contro l’ordinanza del 30 marzo 2017 con cui il Giudice di pace di Palermo ha respinto il suo ricorso contro il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Palermo il 17 febbraio 2017.

2. – L’amministrazione intimata non spiega difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 4 del protocollo n. 4 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento al carattere collettivo dell’espulsione, attuata sulla base di una mera formula di stile, censurando l’ordinanza impugnata sul rilievo che il giudice di pace avrebbe omesso di motivare in proposito.

Il secondo motivo denuncia violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 1, censurando l’ordinanza impugnata per aver ritenuto non integrata la violazione del principio di non refoulemant, quantunque “il ricorrente” avesse “documentato e provato sia di essere un cittadino kossovaro di origine rom sia le gravissime vessazioni e discriminazioni cui sarebbe andata incontro in caso di un suo rimpatrio forzato”.

Il terzo motivo denuncia violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 13, comma 2 bis, della direttiva 2008/115/CE e dell’art. 8 CEDU, nonchè ex art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla situazione familiare, censurando l’ordinanza impugnata per avere il giudice di pace erroneamente ritenuto che il citato art. 13, comma 2 bis, fosse applicabile soltanto in favore dei cittadini stranieri in possesso di un titolo di soggiorno legittimante l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, sia per aver omesso di considerare che “la Sig.ra S.H. è coniugata con cittadino dell’ex Jugoslavia regolarmente residente titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari nonchè madre di un minore”.

2. – Il ricorso è fondato nei limiti che seguono.

2.1. – E’ inammissibile il primo motivo.

Sotto la rubrica: “Divieto di espulsioni collettive di stranieri”, l’art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali stabilisce che: “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”. Ora, espulsione collettive sono quelle determinate dall’appartenenza del soggetto ad una collettività, nei cui riguardi l’espulsione è disposta, e per ciò solo attuate, indipendentemente dalla considerazione della situazione individuale del soggetto medesimo.

Ne discende “che il fatto che vari stranieri siano oggetto di decisioni simili non permette, di per sè, di concludere per l’esistenza di una espulsione collettiva quando ciascun interessato ha potuto esporre individualmente dinanzi alle autorità competenti gli argomenti che si opponevano alla sua espulsione (K. G. c. Repubblica Federale di Germania…; Andric…; Sultani” (CEDU 23 febbraio 2012, Ricorso n. 27765/09, p. 184).

Questa Corte ha così già avuto modo di affermare, in situazione ampiamente sovrapponibile, che non costituisce espulsione collettiva di stranieri, vietata dall’art. 4 del IV Protocollo addizionale alla Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, l’adozione contestuale di distinti provvedimenti espulsivi nei confronti di una pluralità di soggetti mediante adozione di un modello uniforme, cagionata dalla unicità dell’ipotesi contestata (nella specie quella afferente alla violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 2, lett. b)) allorchè si proceda all’esame della posizione di ciascun espellendo previa sua corretta identificazione (Cass. 10 dicembre 2004, n. 23134; Cass. 5 agosto 2005, n. 16571).

Che, poi, il carattere collettivo dell’espulsione potesse essere desunto dall’impiego di “un’identica mera formula di stile”, è affermazione totalmente priva di senso, giacchè, come correttamente osservato dal Giudice di pace, nel decreto di espulsione era chiaramente esposta la specifica situazione di fatto assunta a presupposto dell’espulsione stessa, essendo l’interessata priva di permesso di soggiorno.

Nel caso di specie, dunque, l’inammissibilità discende:

-) per un verso dalla circostanza che la parte ricorrente, svolgendo considerazioni di ordine generale sulle espulsioni collettive, si è in buona sostanza disinteressata della motivazione addotta dal giudice di merito, il quale ha viceversa osservato che, debitamente generalizzata, “la ricorrente è risultata sprovvista di permesso di soggiorno”, così evidenziando sia pur implicitamente, ma ineluttabilmente, che S.H. è stata espulsa non già per la sua appartenenza ad una collettività, ma, all’esito di una valutazione individuale, perchè illegalmente soggiornante sul territorio dello Stato;

-) per altro verso, avuto riguardo ai precedenti di questa Corte, in motivo di ricorso è inammissibile in applicazione dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

2.2. – E’ inammissibile il secondo motivo.

La ricorrente ha invocato il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, il quale, sotto la rubrica: “Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili”, stabilisce che: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.

In generale, questa Corte ha avuto modo di affermare che, in materia di protezione internazionale dello straniero, l’istituto del divieto di espulsione o di respingimento previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, impone al giudice di pace, in sede di opposizione alla misura espulsiva, di esaminare e pronunciarsi sul concreto pericolo, prospettato dall’opponente, di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel paese di origine, in quanto la norma di protezione introduce una misura umanitaria a carattere negativo, che conferisce al beneficiario il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale, qualora tale condizione venga positivamente accertata dal giudice (Cass. 17 febbraio 2011, n. 3898).

Orbene, l’inammissibilità, in questo caso, discende anzitutto dalla circostanza che, alla lettura del ricorso, non è neppure dato comprendere – al di là della generica affermazione secondo cui la ricorrente avrebbe provato, non si sa come, “di essere un cittadino kossovaro di origine rom” – quale sia la provenienza di S.H., e dove esattamente ella dovrebbe far ritorno, così da rendere verificabile la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della norma invocata.

Dopodichè, il motivo è inammissibile perchè aspecifico anche sotto un ulteriore aspetto. Ha difatti affermato il Giudice di pace che la ricorrente non aveva “dedotto a fondamento dell’opposizione una specifica situazione soggettiva che, in rapporto alle caratteristiche oggettive del suo paese, sia tale da far ritenere l’esistenza di un grave pericolo per l’incolumità della sua persona”, ossia “un pericolo attuale di persecuzione specificamente rivolta alla ricorrente”.

A fronte di ciò, il ricorso tace del tutto sull’esistenza di un individualizzato pericolo riferibile ad essa S.H., richiamando invece, incomprensibilmente, un rapporto Amnesty International concernente trattamenti inumani e degradanti nonchè discriminatori attuati dalla missione delle Nazioni Unite in Serbia nella zona di (OMISSIS), con la quale non si sa neppure, dalla lettura del ricorso, se la ricorrente abbia o meno qualcosa a che vedere.

2.3. – Va invece accolto il terzo motivo.

Il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 art. 13, comma 2-bis, stabilisce che: “Nell’adottare il provvedimento di espulsione ai sensi del comma 2, lett. a) e b), nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’art. 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonchè dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine”.

Questa Corte dà della norma una lettura ampia ed elastica, con l’affermazione del principio secondo cui, in tema di espulsione del cittadino straniero, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 2 bis, secondo il quale è necessario tener conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della natura e dell’effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno, nonchè dell’esistenza di legami con il paese d’origine, si applica -con valutazione caso per caso, in coerenza con la direttiva comunitaria 2008/115/CE – anche al cittadino straniero che abbia legami familiari nel nostro Paese, ancorchè non nella posizione di richiedente formalmente il ricongiungimento familiare, in linea con la nozione di diritto all’unità familiare delineata dalla giurisprudenza della Corte EDU con riferimento all’art. 8 CEDU e fatta propria dalla sentenza n. 202 del 2013 della Corte Cost., senza distinguere tra vita privata e familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall’art. 8 cit., che non prevede gradazioni o gerarchie (Cass. 2 ottobre 2018, n. 23957). Ed osserva altresì la Corte costituzionale, nella citata decisione, che: “In particolare, la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazioni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perchè sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari”.

Nel caso di specie il Giudice di pace si è genericamente limitato ad affermare non essere stato provato “che il coniuge della ricorrente sia in possesso di permesso di soggiorno”, ma ha omesso di effettuare lo scrutinio imposto dal citato art. 2 bis, non sottoponendo a specifica valutazione la documentazione posta a sostegno dell’affermazione della ricorrente di essere coniugata con cittadino dell’ex jugoslavia titolare di valido permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il provvedimento impugnato va dunque cassato, con rinvio a un diverso magistrato dell’ufficio del Giudice di Pace di Palermo, il quale, nel procedere a nuovo esame della causa, si atterrà a quanto sopra indicato, avendo cura anche di provvedere sulle spese di questo grado di giudizio di legittimità.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i primi due motivi ed accoglie il terzo, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese ad un diverso magistrato dell’ufficio del Giudice di Pace di Palermo.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2019

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