Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8881 del 13/05/2020

Cassazione civile sez. III, 13/05/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 13/05/2020), n.8881

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25509/2018 proposto da:

GIOCO SRL, in persona del suo legale rappresentante, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA MIGIURTINIA 36, presso lo studio

dell’avvocato GIANCARLO MARZO, rappresentata e difesa dall’avvocato

RINALDO ALVISI;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANICIA, 6, presso lo studio

dell’avvocato ROCCO NANNA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 760/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 03/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso notificato il 27/6/2018 avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 760/18 depositata in data 31/5/2018, la società Gio.co S.r.l. propone gravame innanzi a questa Corte affidandolo ad un unico motivo. Resiste, con controricorso notificato via pec il 28/8/2018, Unicredit S.p.A..

2. Per quanto qui d’interesse, con atto di citazione del novembre 1999, la società Gio.co S.r.l., che svolge professionalmente attività di commercio di oro e preziosi, conveniva in giudizio Banca di Roma S.p.A. (oggi Unicredit S.p.A.), per ottenere la restituzione del prezzo di Lire 14.450.000, oltre IVA e diritti d’asta, in ragione di vizi riscontrati nell’acquisto di alcuni preziosi durante un’asta organizzata, nel (OMISSIS) dello stesso anno, dall’Istituto di credito convenuto. Dopo aver denunciato i vizi mediante raccomandate inviate ad Unicredit, la società promuoveva un Accertamento Tecnico Peritale, per mezzo del quale si accertava che i preziosi acquistati avevano caratteristiche e peso diversi rispetto a quelli riportati nei lotti d’asta. Nel primo grado del giudizio, si costituiva la Banca contestando la domanda di parte attrice. Il Tribunale di Bari, con sentenza n. 991 del 2012 – ritenendo le vendite poste in essere dal Monte di credito su pegno “vendite forzate” cui si applica la disciplina prevista negli artt. 2919 c.c. e segg., e, in particolare, quella di cui all’art. 2922 c.c., che esclude per l’acquirente la possibilità di far valere la garanzia per i vizi della cosa ex art. 1490 c.c., ed esperire l’azione di rescissione per lesione ex art. 1448 c.c. – rigettava la domanda della società attrice, condannandola al pagamento delle spese di giudizio.

3. Avverso la sentenza del Tribunale proponeva appello la società Gio.co sostenendo la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione e/o omesso esame dei punti decisivi della controversia, atteso che il giudice di prime cure aveva rigettato la domanda attrice muovendo dall’erronea qualificazione dell’asta quale “vendita forzata”. Con un secondo motivo di appello, poi, censurava la sentenza per aver qualificato i vizi dei beni acquistati rilevanti ex art. 1490 c.c., e non come vendita “aliud pro alio”.

4. Con la sentenza oggi impugnata, la Corte d’Appello di Bari, dichiarava infondato sia il primo motivo, ritenendo di condividere le ragioni del giudice di prime cure in punto di applicabilità al caso di specie dell’art. 2922 c.c., che il secondo motivo, rilevando che non si vertesse in un’ipotesi di aliud pro alio. Dunque, rigettava l’appello e condannava la società alle spese di giudizio.

5. Avverso la sentenza la Gio.co ricorre per Cassazione adducendo un unico motivo. Resiste con controricorso Unicredit. La società ricorrente ha depositato memorie ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo ed unico motivo di ricorso si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione degli artt. 2919 e 2922 c.c.. La Corte d’Appello avrebbe erroneamente qualificato l’asta cui la società ricorrente aveva partecipato come “vendita forzata”, con la conseguenza di ritenere applicabili le disposizioni de quibus e non la speciale disciplina prevista dagli artt. 2794 c.c. e segg., in materia di vendita della cosa ricevuta in pegno. In particolare, la ricorrente non ritiene condivisibile l’applicazione, alla fattispecie concreta, dell’art. 2922 c.c. e, dunque, l’esclusione della garanzia per i vizi e per la mancanza di qualità della res.

2. Il motivo è infondato, nei limiti di seguito esposti.

Infatti, pur dovendosi rigettare il motivo di ricorso è necessario correggere in diritto la motivazione della sentenza impugnata. Ciò in quanto la disciplina cui far riferimento nella vendita di beni oggetto di pegno, disposta dal creditore in forma di asta, non può essere individuata in quella relativa alla vendita forzata di cui agli artt. 2919 c.c. e segg., ove all’art. 2922 c.c., è espressamente prevista l’esclusione della garanzia per i vizi della cosa forzatamente venduta. Tanto premesso, non può accogliersi il motivo di doglianza, in quanto costituisce forma di “autonomia negoziale”, meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., il regolamento che disciplina l’asta in questione, con il quale viene esclusa – anche solo per via implicita – la garanzia per vizi della cosa, laddove essa sia limitata al vizio redibitorio e alla mancanza di qualità della cosa (rispettivamente, ex artt. 1490 e 1497 c.c.), e non anche all’ipotesi di vendita aliud pro alio.

3. Deve rilevarsi che nella normativa dedicata alla vendita del bene sottoposto a pegno – sia quella codicistica di cui agli artt. 2796 e 2797 c.c., che quella settoriale di cui al R.D. n. 1279 del 1939, relativa all’ordinamento dei Monti di credito su pegno – non si rinviene alcun richiamo alla vendita forzata, essendo espressamente prevista, di contro, una vendita all’incanto mediante speciale procedura non assistita dalle medesime garanzie. Ed invero, l’art. 2796 c.c., statuisce che “il creditore per il conseguimento di quanto gli è dovuto può far vendere la cosa ricevuta in pegno secondo le forme stabilite dall’articolo seguente”, ossia dall’art. 2797 c.c., oppure, può chiedere al giudice l’assegnazione del bene fino alla concorrenza del debito ex art. 2798 c.c.. Dunque, la disciplina applicabile a questa speciale forma di vendita è, anzitutto, quella desumibile dall’art. 2797 c.c., che, nella specie, offre al creditore tre forme per soddisfare le proprie ragioni di credito garantite da pegno, vale a dire: la vendita al pubblico incanto; la vendita a prezzo corrente; o, anche “forme diverse” convenute dalle parti. Proprio la previsione di una terza via, ossia di una terza possibile forma, per così dire “atipica” – rinvenibile nell’ultimo comma della disposizione in parola, secondo cui “Per la vendita della cosa data in pegno le parti possono convenire forme diverse” – rende evidente che il legislatore non ha inteso costringere la vendita de qua nelle maglie della disciplina dell’esecuzione forzata quanto, piuttosto, ha previsto una speciale procedura di “esecuzione privata” che, quale forma di autotutela esecutiva a carattere negoziale non è assimilabile – soprattutto in assenza di un espresso rinvio – all’esecuzione forzata di cui agli artt. 2910 c.c. e segg. e, dunque, non è soggetta alla specifica disciplina della vendita forzata ex artt. 2919 c.c. e segg..

4. A tale assunto, peraltro, si perviene anche per il tramite dell’art. 2911 c.c., che, assieme all’art. 2910 c.c., apre il capo dedicato alla “esecuzione forzata”, sancendo che “il creditore che ha pegno sui beni del debitore non può pignorare altri beni del debitore medesimo, se non sottopone ad esecuzione anche i beni gravati dal pegno”. Ciò implica che la legge tiene ben distinta l’esecuzione forzata ex artt. 2910 c.c. e segg., dall’esecuzione cd. “privata” di cui all’art. 2795 c.c.. Infatti, il creditore potrà espropriare in “forma forzata” altri beni del debitore solo se scelga, anche per il bene gravato da pegno, tale forma di esecuzione.

5. Ovviamente, anche se avente natura di “esecuzione privata”, si tratta pur sempre di una modalità “coattiva” di escussione, tant’è che la materiale azione di vendita dovrà essere preceduta dall’intimazione a pagare il debito e gli accessori, con il chiaro avvertimento che, in mancanza di un tempestivo adempimento di quanto richiesto, si procederà alla vendita della res. A quel punto, decorsi cinque giorni dalla notificazione dell’intimazione (o un termine più breve se convenzionalmente stabilito dalle parti), purchè – ovviamente il debitore non abbia già adempiuto o non sia stata proposta opposizione nel termine concesso, il creditore potrà procedere alla vendita (cfr. art. 2797 c.c.).

6. Quanto al rito applicabile, questa Corte da tempo ritiene che il procedimento ivi disciplinato costituisca una “procedura esecutiva speciale”, per la quale non è richiesta la formazione di un titolo esecutivo (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 11893 del 24/11/1998; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 2372 del 6/3/1987). In relazione, invece, alla pubblicità della vendita della cosa costituita in pegno per pubblico incanto, la giurisprudenza ha ritenuto che essa debba essere assistita da una forma idonea di pubblicità e, quanto meno, da quella prevista dall’art. 83 disp. att. c.c., comma 2 (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6894 dell’11/8/1987).

7. Più in generale, la dottrina ritiene che le forme e le modalità della vendita del bene oggetto di pegno possano essere desunte dall’art. 1515 c.c., riferito alla vendita coattiva, dettato in tema di esecuzione coattiva per inadempimento del compratore, ritenuto pertanto applicabile analogicamente alla fattispecie. Si rammenta, peraltro, che questa Corte ha avuto modo di statuire che: “Sulla cosa mobile data in pegno od oggetto di privilegio speciale assimilato, quod effectum, al pegno (come quello, di cui all’art. 2756 c.c.), è costituito, per accordo delle parti o ex lege, un vincolo di destinazione al soddisfacimento del credito garantito che, in caso di inadempimento del debitore, si realizza con il soddisfacimento coatto attraverso due procedimenti espropriativi alternativi, a scelta del creditore, rappresentati rispettivamente dalla esecuzione espropriativa mobiliare giudiziale, secondo le regole sue proprie, escluso il pignoramento, e dall’esecuzione espropriativa privata, promossa dal creditore secondo le regole previste dall’art. 2797 c.c.. In quest’ultimo caso, qualora la cosa mobile non abbia un prezzo di mercato e debba pertanto procedersi alla vendita al pubblico incanto la gara deve essere preceduta a pena di nullità da una forma di idonea pubblicità, corrispondente, quanto meno, a quelle previste dall’art. 83 disp. att. c.c., comma 2, per la vendita di cui all’art. 1515 c.c., ove è previsto, con criterio di carattere generale, che “la vendita all’incanto deve essere annunziata con le forme di una pubblicità commerciale adeguata alla natura ed al valore delle cose poste in vendita”, senza che di conseguenza possa ritenersi equipollente la notificazione, al solo debitore, a mezzo di ufficiale giudiziario, di un “atto di preavviso di vendita di beni mobili”” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 6894 dell’11/8/1987).

8. E’, dunque, evidente che le due forme di esecuzione – forzata e “privata” siano tenute distinte dalla giurisprudenza e che, peraltro, tale distinguo risulta in linea con un’impostazione dottrinale che esclude la diretta applicabilità della normativa dell’esecuzione forzata alla fattispecie in esame, proprio sulla base dell’inquadramento della vendita del pegno tra le forme di autotutela esecutiva, in quanto nasce e si evolve a seguito della sola iniziativa del creditore garantito da pegno, anche se sprovvisto di titolo esecutivo; con controllo giudiziale solo eventuale.

9. In aggiunta, la diretta applicabilità delle norme relative alla vendita forzata è da escludersi, soprattutto perchè trattasi di disciplina speciale che, dunque, non può legittimamente regolare il caso di specie, in mancanza di un espresso rinvio normativo. Anzi, la stessa disciplina speciale in tema di esecuzione forzata prevede che il creditore che ha il pegno sui beni del debitore non può pignorare altri beni del debitore medesimo, se non sottopone ad esecuzione anche i beni gravati da pegno, ex art. 2911 c.c.. Ciò implica che, per il creditore assistito da pegno, l’esecuzione forzata è imposta solo se esercitata in tale forma contro altri beni del medesimo debitore e, ciò, al fine di non rendere più gravosa la posizione difensiva del debitore esecutato. Proprio tale disposto, dunque, conferma la diversa natura del procedimento di soddisfacimento del credito assistito da pegno, disciplinato negli artt. 2796 e 2797 c.c. e nelle norme settoriali di riferimento (R.D. 25 maggio 1939, n. 1279, attuazione della L. 10 maggio 1938, n. 745, sull’ordinamento dei monti di credito su pegno), che lo pongono nel novero delle forme di autotutela privata e, dunque, al di fuori di un rapporto processuale esecutivo vero e proprio.

10. Nello stesso senso si è posta la Corte costituzionale, nelle sentenze n. 702 del 23/6/1988 e n. 408 del 31/7/2000, laddove ha affermato che “il Monte di Pietà che, nell’esercizio della sua attività istituzionale di prestito su pegno, riceve in buona fede cose mobili altrui a titolo di garanzia reale, acquista diritto di pegno e, con esso le facoltà previste dagli artt. 2794 e 2796 c.c.”, senza alcun richiamo alla normativa in materia di esecuzione forzata. Tali norme, si è detto “non violano il diritto di proprietà, bensì disciplinano un modo di acquisto del diritto di pegno, il quale per sua natura si costituisce come limite della proprietà”. Pertanto, l’applicazione della disciplina dell’espropriazione forzata non trova una ragione valida in un contesto in cui il creditore stesso, vendendo la cosa costituita in pegno, esercita un diritto insito nella res che è venuto a possedere per mano del debitore titolare del bene, che gli ha conferito l’esclusiva disponibilità della cosa ex art. 2786 c.c..

11. In più, deve anche escludersi che la qualificazione di “vendita forzata” della cosa oggetto di pegno possa desumersi in ragione dell’applicabilità – R.D. n. 1279 del 1939, ex art. 51 – delle fattispecie criminose volte a punire la turbativa o l’astensione dagli incanti ex artt. 353 e 354 c.p., previste dal legislatore penale al fine di tutelare l’ordinato svolgimento delle aste, anche se gestite da privati, a garanzia della pubblica sicurezza. L’esplicito rinvio alle norme penalistiche rende, piuttosto, evidente che il legislatore, quando ha voluto estendere, alla materia de qua, una tutela di tipo penale, l’ha fatto mediante esplicito rinvio, in conformità all’art. 14 preleggi, che, appunto, impone un divieto di applicazione analogica diretto non solo alle “leggi penali” (cosicchè la disposizione escluderebbe l’applicazione in subiecta materia degli artt. 353 e 354 c.p., se il legislatore non avesse espressamente richiamato le suddette norme), ma anche a “quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi”, tra cui si pongono le disposizioni ex artt. 2919 c.c. e segg., per quanto sopra già detto. Difatti, nè dalle norme codicistiche, nè dalla specifica disciplina prevista per i Monti di credito su pegno dal R.D. del ‘39, si rinviene alcun richiamo alla procedura speciale della vendita forzata.

12. Tanto premesso, nel caso di specie, è lo stesso regolamento d’asta accettato dai partecipanti ad avere efficacia dirimente. Esso, infatti, disciplina il diritto della parte a visionare gli oggetti esposti prima della vendita all’asta, nonchè il tempo oltre il quale qualsiasi via di reclamo postumo non è più formulabile. In particolare, il regolamento de quo, all’art. 17, espressamente prevede “con la partecipazione all’asta il concorrente ammette implicitamente d’aver esaminato le cose poste in vendita e di averle accettate tali e quali esse sono. Qualsiasi reclamo deve essere rivolto al funzionario incaricato di dirigere l’asta. Non sono quindi ammessi reclami postumi sulla quantità, qualità o condizione degli oggetti aggiudicati”. E’ evidente, dunque, che il regolamento preveda una implicita deroga o, piuttosto, una limitazione temporale, convenzionalmente pattuita, della garanzia per i vizi della cosa, quale estrinsecazione del potere di autonomia negoziale garantita dal nostro ordinamento all’art. 1322 c.c., nei limiti di cui al suo comma 2.

13. Sul tema, questa Corte ha statuito che “Anche per i contratti cosiddetti commutativi le parti, nel loro potere di autonomia negoziale, possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze, che incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed assumere, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratori previsti nell’ordinaria disciplina del contratto (artt. 1467 e 1664 c.c.). Sicchè, l’assunzione del suddetto rischio supplementare può formare oggetto di una espressa pattuizione, ma può anche risultare per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni. (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 17485 del 12/10/2012: nella specie, la S.C., affermando l’enunciato principio, ha assunto che la peculiare pattuizione, connotante di parziale aleatorietà il contratto di vendita “inter partes”, portava ad escludere l’applicabilità dell’art. 1497 c.c., non potendo dirsi promesse tra le parti, ma solo prefigurate come possibile rischio futuro, determinate qualità della cosa venduta, e cioè, segnatamente, la resa ottimale dell’impianto; in senso conforme, Cass., Sez. 1 -, Ordinanza n. 12453 del 21/5/2018; Sez. 1, Sentenza n. 948 del 26/1/1993; Sez. 2, Sentenza n. 10, del 4/1/1993). Con la conseguenza che, anche nel caso di specie, l’accettazione del regolamento d’asta – giusta la previsione dell’art. 17 dello stesso – pur connotante una parziale aleatorietà del contratto inter partes, porta ad escludere, nella fattispecie concreta, l’applicabilità stessa degli artt. 1490 e 1497 c.c..

14. Guardando la fattispecie sotto il profilo del sacrificio imposto a una parte a vantaggio dell’altra, che non potrebbe determinare un eccessivo squilibrio del sinallagma contrattuale, l’esclusione convenzionale della garanzia per vizi redibitori e per mancanza di qualità della res, che costituisce elemento di “atipicità” introdotto nello schema tipico del contratto di compravendita, in questo caso è rispondente al giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., comma 2.

15. Come chiarito anche da ultimo dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio di meritevolezza deve essere direttamente ancorato alla causa del contratto e, specificamente, occorre verificare che il contratto non si ponga in contrasto con la “complessità dell’ordinamento giuridico, da assumersi attraverso lo spettro delle norme costituzionali, in sinergia con quelle sovranazionali (nel loro porsi come vincolo cogente: art. 117 Cost., comma 1) e, segnatamente delle Carte dei diritti, le quali norme non imprimono all’autonomia privata una specifica ed estraniante funzionalizzazione, bensì ne favoriscono l’esercizio, ma non già in conflitto con la dignità della persona e l’utilità sociale (artt. 2 e 41 Cost.), operando, dunque, in una prospettiva promozionale e di tutela” (Cass., Sez. U., Sentenza n. 22437 del 24/9/2018; in senso conforme, Cass., Sez. U., Sentenza n. 4222 del 17/2/2017; Sez. 1, Sentenza n. 22950 del 10/11/2015; Sez. 3, Sentenza n. 7557 dell’1/4/2011).

16. Deve svolgersi, dunque, una verifica che transita attraverso la portata che assume la cd. “causa concreta” del contratto, ossia quella che ne rappresenta lo scopo pratico, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso negozio è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato (Cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10490 dell’8 maggio 2006; in senso conforme Cass., Sez. 3 -, Ordinanza n. 10612 del 4/5/2018; Sez. 3, Sentenza n. 23941 del 12/11/2009). Seguendo l’insegnamento del Supremo Consesso, dunque, il giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., passa attraverso la verifica della causa concreta del contratto, che spazia dalla indagine sulla sua stessa sussistenza (intesa come adeguatezza rispetto agli interessi coinvolti) a quella della sua liceità (intesa come lesione di interessi delle parti tutelati dall’ordinamento).

17. Nel caso de quo, la limitazione della garanzia per vizi della res non si pone in contrasto nè con interessi generali della comunità garantiti dall’ordinamento nel suo complesso, nè con il fine perseguito dalle parti con la partecipazione all’asta. Difatti, non vengono in rilievo situazioni di “asimmetria” del potere contrattuale delle parti, la cui presenza orienta il legislatore e l’interprete ad introdurre meccanismi correttivi del disequilibrio originario o sopravvenuto tra le parti: correttivi che assumono la fisionomia delle discipline di settore (come in materia di contratti dei consumatori, o d’impresa asimmetrici), o apprestati dall’ordinaria disciplina del contratto di diritto comune (come gli artt. 1467 e 1664 c.c.) o, in ultimo, conducenti ad un giudizio di immeritevolezza ex art. 1322 c.c., comma 2. Nella fattispecie concreta, difatti, le parti – lungi dall’operare in un quadro di debolezza contrattuale – hanno agito come pares, posto che la società che ha partecipato all’asta svolge attività di commercio di oro e preziosi a livello professionale e ha potuto prendere visione dei lotti in vendita. Deve infatti condividersi l’assunto secondo cui, nei contratti tra eguali, prevale l’autonomia contrattuale, e che, entro certi limiti, “le parti sono i migliori giudici dei loro interessi” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 22567 del 4/11/2015). Dunque, in alcuni casi, ove manca la figura del contraente più debole, l’equilibrio economico-giuridico tra le prestazioni può legittimamente subire alterazioni di natura negoziale, in quanto “in tema di contratti di scambio, lo squilibrio economico originario delle prestazioni delle parti non può comportare la nullità del contratto per mancanza di causa, perchè nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive. (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 22567 del 4/11/2015: nella specie, la S.C. ha cassato la decisione impugnata per avere ritenuto la nullità di un contratto di cessione di quote sociali in ragione dell’eccessiva sproporzione esistente tra il valore effettivo delle quote ed il prezzo di cessione; Sez. 2, Sentenza n. 9640 del 19/4/2013; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6492 del 27/07/1987).

18. In definitiva, l’esclusione della garanzia de qua risulta rispondere al giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., comma 2, in quanto i lotti posti in vendita risultano essere stati messi nella disponibilità dei potenziali acquirenti prima della vendita e nel regolamento era esclusa la possibilità di fare valere eventuali vizi redibitori. Di contro, lo stesso non potrebbe dirsi laddove il regolamento d’asta comportasse anche l’esclusione della garanzia nelle ipotesi di vendita aliud pro alio. Questa giurisprudenza, infatti, in materia di vendita forzata, ha avuto modo di precisare che, “L’esclusione della garanzia per i vizi della cosa, sancita dall’art. 2922 c.c., per la vendita forzata compiuta nell’ambito dei procedimenti esecutivi – applicabile anche a quella disposta in sede di liquidazione dell’attivo fallimentare – riguarda le fattispecie prefigurate dagli artt. da 1490 a 1497 c.c. (vizi e mancanza di qualità della cosa), ma non l’ipotesi di consegna di “aliud pro alio”, configurabile, invece, se il bene aggiudicato appartenga ad un genere affatto diverso da quello indicato nell’ordinanza di vendita, ovvero manchi delle particolari qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico sociale, oppure quando ne sia del tutto compromessa la destinazione all’uso, ivi considerato, che abbia costituito elemento dominante per l’offerta di acquisto.

19. Nel caso di vendita di aliud pro alio, infatti, la res manca delle qualità necessarie per assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale, oppure, è comunque inidonea all’uso che ha costituito l’elemento dominante per l’offerta d’acquisto. Pertanto, anche nel caso di vendita ex art. 2797, una sua deroga in via pattizia avrebbe l’effetto di escludere la stessa ragione pratica dell’affare perseguita dalle parti e, dunque, ipso facto determinerebbe la nullità del contratto per mancanza di causa. Tale speciale disciplina si giustifica, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in ragione delle peculiarità della vendita forzata che, partecipando alla natura pubblicistica del procedimento, realizza congiuntamente l’interesse pubblico, connesso ad ogni processo giurisdizionale, e quello privato, dei creditori concorrenti e dell’aggiudicatario, sicchè il loro contemperamento, in sede di regolamentazione degli effetti di tale atto, è frutto di una legittima scelta del legislatore” (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14165 del 12/7/2016; Sez. 1, Sentenza n. 21249 del 14/10/2010; Sez. 1, Sentenza n. 4085 del 25/2/2005).

20. Deve analogalmente dirsi, pertanto, che l’autonomia contrattuale, visto il disposto dell’art. 1322 c.c., comma 2, anche nel caso di vendita di res sottoposta a pegno, non può spingersi sino ad escludere la garanzia sulla res in caso di vendita di aliud pro alio.

21. Tanto premesso, in relazione al caso in esame deve affermarsi il seguente principio: “In caso di vendita all’asta di bene oggetto di pegno non si applica la normativa prevista per la vendita forzata e, in particolare, il disposto di cui all’art. 2922 c.c., che nega alla parte acquirente di far valere i vizi della cosa venduta, solo in quanto le cose ricevute in pegno non sono negoziabili liberamente dal creditore garantito, comunque tenuto al rispetto delle leggi speciali inerenti alle forme particolari di costituzione di pegno e agli istituti autorizzati a fare prestiti sopra pegni, ex art. 2785 c.c.; deve considerarsi lecita, e meritevole di tutela, ex art. 1322 c.c., la previsione regolamentare e convenzionale di escludere, anche in via implicita, il diritto del partecipante all’asta di far valere i vizi redibitori e la mancanza di qualità della cosa venduta ex artt. 1490 e 1497 c.c., ricavabile in via implicita anche tramite il regolamento che la disciplina, fatta salva l’eccezione di vendita di aliud pro alio”.

22. La motivazione della sentenza, pertanto, deve essere corretta nei suddetti termini, non potendosi condividere l’argomento che trae spunto dall’applicazione analogica delle norme sull’esecuzione forzata, e non dall’interpretazione delle convenzioni e dei regolamenti predisposti in materia; mentre va confermata nella parte dispositiva relativa al rigetto dell’appello, tenuto conto del fatto che la Corte di merito ha ritenuto, con giudizio di fatto del tutto insindacabile – non reso oggetto di specifico motivo di censura – che la fattispecie non riguarda un’ipotesi di vendita di aliud pro alio, ma solo di mancanza di qualità promesse.

23. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato per i motivi sopra espressi, compensando le spese di lite tra le parti, stante la novità della questione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese tra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2020

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