Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8853 del 05/04/2017


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Cassazione civile, sez. II, 05/04/2017, (ud. 23/02/2017, dep.05/04/2017),  n. 8853

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1465-2013 proposto da:

AMMINISTRAZIONE BENI USO CIVICO MONTEPESCALI, (OMISSIS),

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI VILLA SEVERINI 54, presso

lo studio dell’avvocato GIOVANNI CONTESTABILE, rappresentata e

difesa dagli avvocati MARCO NIUSOTTO, ROBERTO CARTEI giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ETRURIA CORK DI C. RAG A. & C SRL, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA APPENNINI 46, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIO GIAMPAOLO, rappresentata e difesa

dall’avvocato SERGIO FREDIANI giusta procura notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 10/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Giovanni Contestabile per la ricorrente e l’Avvocato

Andrea Bodanai per delega dell’Avvocato Frediani per la

controrcorrente;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Etruria Cork di C. Rag. A. & C. S.r.l. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Grosseto la Amministrazione Separata dei Beni di Uso Civico di Montepescali (d’ora in avanti ASBUC) a titolo di indennizzo ex art. 1671 c.c. conseguente al recesso della convenuta dal contratto di appalto intercorso tra le parti, ed avente ad oggetto lavori di miglioramento di una sughereta, indennizzo quantificato in Euro 47.341.92, al netto dell’acconto già ricevuto.

Si costitutiva la convenuta che in via riconvenzionale si doleva della conclusione da parte dell’attrice di un contratto di subappalto non autorizzato, chiedendo pertanto la risoluzione del contratto per il grave inadempimento della controparte, con la restituzione dell’acconto versato.

Il Tribunale con la sentenza n. 531/2006 rigettava entrambe le domande, ritenendo che legittimamente la committente aveva receduto dal contratto avvalendosi della facoltà di cui all’art. 1671 c.c., ma che non poteva trovare accoglimento la domanda riconvenzionale, attesa la non gravità dell’inadempimento perpetrato dalla controparte.

Quanto all’indennizzo dovuto alla società appaltatrice, riteneva di poterlo quantificare in via equitativa, e facendo applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, riteneva che l’acconto versato era in grado di compensare quanto dovuto a titolo di indennizzo.

A seguito di appello principale della Etruria Cork, e di appello incidentale della ASBUC, la Corte d’Appello di Firenze con la sentenza n. 1 del 10/1/2012, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannava 1’ASBUC al pagamento della somma di Euro 20.830,45, oltre IVA e rivalutazione monetaria, rigettando l’appello incidentale, e compensando le spese di entrambi i gradi per la metà, ponendo la residua parte, come liquidata in dispositivo, a carico dell’appellata.

Nell’esaminare prioritariamente l’appello incidentale della ASBUC, ed esclusa la possibilità di applicare la normativa in materia di subappalto prevista per le P.A., rilevava che, sebbene non fosse emersa la prova di alcun consenso della committente alla conclusione del subappalto da parte dell’appellante principale, tuttavia l’inadempimento scaturente dalla violazione della previsione di cui all’art. 1656 c.c. non assurgeva al livello di gravità da legittimare la richiesta pronunzia di risoluzione.

Infatti, emergeva che lo stesso subappaltatore aveva le capacità per far fronte agli impegni scaturenti dal contratto di appalto, come comprovato dal fatto che a quest’ultimo, dopo il recesso, la committente aveva poi affidato il completamento dei lavori.

Quanto all’appello principale, concernente la determinazione dell’indennità dovuta dalla committente per il caso di recesso ex art. 1671 c.c., la Corte d’appello riteneva che non fosse condivisibile la decisione del Tribunale di operare una quantificazione integralmente equitativa ex art. 1226 c.c.

Ed, invero se non erano state dimostrate le spese sostenute, risultava eseguita parte dell’opus commesso, relativamente alla quale poteva riconoscersi il compenso sulla base dei prezzi contrattuali pattuiti, sicchè, tenuto conto del corrispettivo fissato in Lire 4.000.000 ad ettaro, e tenuto conto degli ettari già lavorati (14,50) e dell’acconto ricevuto (pari a Lire 20.833.333 al netto dell’IVA), residuava un credito dell’appaltatrice pari a Lire 27.500.025, oltre IVA.

In merito invece al mancato guadagno, secondo i giudici di appello non poteva recepirsi il calcolo matematico suggerito dall’appellante principale, sicchè poteva farsi ricorso al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c., ed in misura corrispondente ad una percentuale del 20 dell’importo totale che l’impresa avrebbe ricavato ove avesse potuto completare l’opera, per una somma pari quindi a Lire 12.833.342 oltre IVA.

L’indennizzo totale ammontava quindi ad Euro 20.830,45, oltre IVA e rivalutazione monetaria dalla domanda al saldo.

Ancorchè ai fini di completezza della motivazione, la sentenza riteneva di dover evidenziare l’erroneità dell’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno operata dal Tribunale, che aveva ritenuto che l’indennizzo fosse del tutto corrispondente alle somme ricevute dalla Etruria Cork a titolo di acconto.

A tal fine osservava che erroneamente la decisione gravata aveva considerato la violazione del divieto di subappalto, assunto come fatto illecito, come generatore sia del guadagno che del danno, in contrasto con la regola secondo cui il vantaggio ed il danno da compensare devono avere la medesima genesi, essendo piuttosto palese che l’acconto aveva il suo fondamento nella disciplina del contratto, e che costituiva un antecedente rispetto al dedotto inadempimento costituito dalla violazione del divieto di subappalto.

L’ASBUC impugna tale decisione sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

La ricorrente ha altresì depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo sollevata dalla controricorrente per l’assenza della delibera di autorizzazione alla proposizione del presente ricorso.

A tal fine, e premessa l’applicabilità alla fattispecie del principio di diritto già espresso da questa Corte nella sentenza n. 15938/2016, a mente della quale alle amministrazioni separate “ex lege n. 1766 del 1927 sono applicabili, anche in virtù del richiamo al R.D. n. 332 del 1928, art. 64 le disposizioni della legge comunale e provinciale, sicchè, nei giudizi instaurati successivamente all’entrata in vigore del TUEL, è ammissibile il ricorso per cassazione proposto dal Presidente dell’Ente anche in assenza di delibera autorizzativa del relativo Comitato atteso che, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, la rappresentanza processuale spetta istituzionalmente al Sindaco in mancanza di espressa disposizione statutaria che richieda l’autorizzazione della Giunta, dovendo, in tale evenienza, la parte interessata provare, con idonea documentazione, la carenza di autorizzazione, vale osservare che ai sensi dell’art. 372 c.p.c. la ricorrente ha depositato copia della delibera del Comitato dell’ASBUC dell’8/11/2012 con la quale è stata autorizzata la proposizione del presente ricorso.

2. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1656, 1671 e 1226 c.c.

Si rileva che la società intimata aveva violato la previsione di cui all’art. 1656 c.c. affidando, senza autorizzazione, i lavori commissionati in subappalto, sicchè il recesso costituiva una reazione al riscontrato inadempimento.

Correttamente il giudice di primo grado aveva escluso il diritto dell’appaltatrice a somme eccedenti l’acconto ricevuto, facendo applicazione del principio per il quale la determinazione dell’indennizzo deve tenere conto anche delle pregresse inadempienze dell’appaltatore.

La soluzione alla quale è pervenuta la Corte distrettuale ha di fatto lasciato privo di conseguenze l’inadempimento della controparte, sebbene il recesso fosse stato cagionato proprio dalla violazione del divieto di subappalto.

Nella seconda parte del motivo si contesta poi la correttezza della sentenza nella parte in cui ha escluso l’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, trascurando che era stata proprio la conclusione, non consentita, del subappalto a favorire un profitto esorbitante da parte dell’appaltatore (che a fronte di un corrispettivo pari a 4 milioni di lire per ettaro, avrebbe conseguito un profitto di 3 milioni di Lire per ettaro, senza sostenere altri costi e/o spese).

Tali considerazioni che mirano ad evidenziare la corretta applicazione del detto principio, così come operata dal giudice di primo grado, sono poi riprese nel secondo motivo, con il quale si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1656, 1671 e 1226 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Si assume che la sentenza avrebbe fatto applicazione di un criterio di determinazione dell’indennizzo, quanto al mancato guadagno, del tutto erroneo in relazione alla previsione di cui all’art. 1226 c.c.

La conclusione del subappalto aveva, infatti, esonerato la controricorrente da ogni impegno a livello economico ed organizzativo, avendo affidato l’intera attività oggetto del contratto al subappaltatore. Ne derivava che alcun detrimento patrimoniale aveva subito in conseguenza del recesso, in quanto non aveva in alcun modo dovuto provvedere ad organizzare i propri mezzi per far fronte agli impegni derivanti dal contratto, risultando quindi iniquo riconoscere un mancato guadagno in un’ipotesi in cui l’impresa appaltatrice si era affidata integralmente al subappaltatore.

3. Il primo motivo è infondato.

In linea di principio deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte per il quale (cfr. Cass. n. 9645/2011) nel contratto di appalto, il recesso unilaterale del committente previsto dall’art. 1671 c.c. costituisce esercizio di un diritto potestativo e, come tale, non esige che ricorra una giusta causa; ne consegue che la domanda giudiziale con la quale l’appaltatore chieda l’accertamento di tale recesso si fonda su presupposti diversi da quelli posti a base dell’azione con cui il medesimo deduca l’inadempimento del committente, giacchè quest’ultima domanda implica un’indagine comparativa delle condotte tenute dalle parti al fine di verificare la colpevolezza e la gravità del comportamento denunciato (conf. Cass. n. 11642/2003, per la quale il recesso può essere giustificato anche dalla sfiducia verso l’appaltatore per fatti d’inadempimento, e, poichè il contratto si scioglie esclusivamente per effetto dell’unilaterale iniziativa del recedente, non è in tal caso necessaria alcuna indagine sull’importanza dell’inadempimento, viceversa dovuta quando il committente richiede anche il risarcimento del danno per l’inadempimento già verificatosi al momento del recesso).

Nel caso di specie, l’ASBUC, ancorchè abbia inteso avvalersi del diritto di recesso ex art. 1671 c.c., ha altresì dedotto il preteso grave inadempimento scaturente dalla condotta dell’appaltatrice e consistita nel non autorizzato affidamento dei lavori in subappalto, instando quindi in via riconvenzionale sia per la risoluzione che per il ristoro dei danni.

Tuttavia, a fronte della domanda riconvenzionale, i giudici di merito in entrambi i gradi hanno concordemente ritenuto che la violazione della prescrizione di cui all’art. 1656 da parte della Etruria Cork non avesse il carattere della gravità tale da legittimare la pronuncia di risoluzione. Con accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, e con motivazioni argomentate e connotate da intrinseca coerenza, la sentenza gravata, richiamandosi a quanto già affermato dal Tribunale, ha riscontrato che non risultava dimostrato quale intesse era stato leso per effetto dell’affidamento dei lavori in subappalto, valorizzando in particolare la circostanza che, sebbene la norma sia posta a presidio del carattere fiduciario che connota anche il contratto di appalto, le capacità del subappaltatore, e la sua idoneità ad espletare l’incarico affidatogli, erano state apprezzate da parte della stessa committente, che, successivamente al recesso, aveva reputato opportuno affidare i medesimi lavori allo stesso soggetto individuato dall’appaltatrice come subappaltatore.

Trattasi di considerazioni che, oltre a legittimare il rigetto della domanda di risoluzione, sulla scorta dell’insindacabile valutazione in punto di gravità dell’inadempimento, danno altresì contezza, quanto meno in maniera implicita, della insussistenza anche di un danno risarcibile quale conseguenza dell’inadempimento ascritto alla società intimata, in quanto il riscontro delle capacità tecniche ed organizzative necessarie all’espletamento dell’incarico in capo al F. (il subappaltatore), la carenza di allegazioni circa specifici pregiudizi derivanti dalla esecuzione delle opere da parte del terzo, inducono a ritenere che la violazione delle regole poste in materia di contratto di appalto, ed in particolare di quella concernente il divieto di subappalto, non ha determinato alcun pregiudizio meritevole di ristoro in termini economici, sicchè non può trovare spazio la censura mossa in ricorso per la quale il riconoscimento dell’indennizzo in favore della società lascerebbe priva di conseguenze la sua inadempienza, posto che a monte deve escludersi che quest’ultima abbia prodotto delle conseguenze negative per la committente.

Ne consegue altresì che, una volta esclusa sia la possibilità di addivenire alla risoluzione per inadempimento, sia quella di riconoscere l’insorgere di un danno quale conseguenza dell’inadempimento della appaltatrice, correttamente la sentenza gravata ha provveduto a determinare quale fosse l’indennizzo spettante ex art. 1671 c.c. alla Etruria Cork, posto che il potere di far cessare gli effetti del contratto presupponeva unicamente il ricorso da parte della committente a quanto previsto da tale norma.

Inoltre l’esclusione dell’idoneità risolutoria della condotta inadempiente della società, impedisce altresì di poter affermare, come invece sostenuto dalla ricorrente, che il recesso abbia avuto causa in tale condotta, dovendo reputarsi che invece l’esercizio del diritto di cui all’art. 1671 c.c. sia ascrivibile ad un’autonoma determinazione della committente, che la espone tuttavia alle conseguenze indennitarie previste dal legislatore (cfr. Cass. n. 2608/1983, per la legittimità del ricorso all’art. 1226 c.c., per la determinazione del mancato guadagno ai fini dell’applicazione dell’art. 1671 c.c.).

Del pari prive di fondamento appaiono poi le critiche volte alla sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la possibilità di invocare la compensatio lucri cum damno.

Correttamente i giudici di merito hanno evidenziato come il presupposto fondante l’istituto invocato dalla ricorrente sia la riconducibilità del lucro e del danno, da porre tra loro in compensazione, ad un medesimo fattore causale, situazione questa che evidentemente non ricorreva nel caso di specie.

L’applicazione del principio de quo così come operata dal giudice di primo grado presuppone l’individuazione di una medesima genesi causale, tra quanto ricevuto dalla società a titolo di acconto ed il lucro che la società avrebbe tratto per effetto del compenso di appena un milione di Lire concordato con il subappaltatore, per dei lavori che erano invece remunerati dalla committente in base al contratto principale nella somma di quattro milioni di lire ad ettaro.

Al riguardo non possono che condividersi le osservazioni del giudice di appello il quale ha evidenziato che il dedotto fatto illecito (conclusione del subappalto) non si poneva in alcun rapporto di causalità rispetto a quanto in precedenza percepito dall’appaltatrice a titolo di acconto, trattandosi di una vicenda ” ininfluente ed antecedente rispetto al dedotto inadempimento, rimarcandosi altresì il carattere autonomo che riveste il rapporto derivato rispetto all’appalto principale”.

Trattasi di affermazione che trova il conforto della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 16917/2011, a mente della quale il subappaltatore risponde della relativa esecuzione nei confronti del solo appaltatore e, correlativamente, solo verso quest’ultimo, e non anche nei confronti del committente, attesa l’autonomia dei rapporti contrattuali), essendo il principio dell’autonomia ribadito proprio ai fini dell’applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno. In tal senso si veda Cass. n. 4978/1983 secondo cui la compensatio lucri cum damno postula che il vantaggio ed il pregiudizio patrimoniale derivino da un unico rapporto, da un’unica situazione, da un unico fatto illecito, sicchè, in ipotesi di inadempimento da parte del subappaltatore alle obbligazioni assunte nei confronti dell’appaltatore, il vantaggio derivato a quest’ultimo (sotto forma di corrispettivo dell’appalto) dalla esecuzione della propria prestazione nel rapporto con l’appaltante non è detraibile dal pregiudizio da lui subito in conseguenza di detto inadempimento, ove risulti la piena autonomia del contratto di subappalto rispetto a quello di appalto, avente diversi oggetto e soggetti.

Inoltre, una volta ribadita la correttezza della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che l’inadempimento dell’appaltatrice avesse i caratteri della gravità tali da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione, e non essendosi altresì individuato quale specifico pregiudizio sia scaturito dalla conclusione del subappalto, si risolve in una petizione di principio affermare, come appunto avviene in ricorso, che il vantaggio per la società, consistente nell’avere conseguito un guadagno di tre milioni di lire ad ettaro (tenuto conto della differenza tra quanto pattuito con la committente e quanto invece dovuto al subappaltatore) andrebbe compensato con il pregiudizio derivante dal recesso unilaterale della committente.

Anche in tal caso non si riviene la unicità del fattore genetico tra lucro e danno, ma soprattutto si assume che lo stesso guadagno, nei termini sopra indicati, sia conseguenza dell’inadempimento dell’obbligo di non ricorrere al subappalto senza previa autorizzazione.

L’affermazione de qua sembra chiaramente presupporre che il corrispettivo pattuito con la committente dovesse corrispondere ai costi necessari per eseguire l’incarico, ma ancor di più che il guadagno che la società appaltatrice avrebbe potuto trarre dalla personale esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto, sarebbe stato necessariamente inferiore rispetto a quello derivante dal ricorso al subappalto, mancando tuttavia qualsiasi riprova circa il fatto che i margini di guadagno della Etruria Cork si sarebbero necessariamente (ed in quale misura) ridotti in caso di mancata conclusione del subappalto.

Il motivo deve pertanto essere rigettato.

4. Quanto invece al secondo motivo di ricorso l’infondatezza si manifesta alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato che (cfr. Cass. n. 9132/2012) in ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1671 c.c., grava sull’appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell’appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (conf. Cass. n. 77/2003, la quale ribadisce che grava sul committente che recede e che eccepisca in giudizio la compensatio lucri cum damno, provare il lucrum dell’appaltatore che abbia potuto eseguire altri lavori solo perchè liberato dall’impegno ed il suo ammontare, detraibile dal pregiudizio subito; Cass. n. 1189/1966).

Ancorchè il giudice di appello abbia erroneamente attribuito all’impresa appaltatrice l’onere di provare la mancanza dell’aliunde perceptum, incombendo invece alla committente dimostrare il proficuo impiego dei mezzi dell’impresa appaltatrice liberata dall’esecuzione della prestazione in seguito al recesso della committente, si rileva che la sentenza ha tenuto conto in via equitativa delle possibilità di poter conseguire altrove dei guadagni, essendo però onere della ricorrente quello di dimostrare che tale impiego vi fosse stato effettivamente ed avesse permesso di utilizzare in maniera integrale l’organizzazione di uomini e di mezzi che altrimenti sarebbe stata impiegata per l’esecuzione del contratto per cui è causa.

5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e le spese seguono la soccombenza, come liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Surema di Cassazione, il 23 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2017

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