Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8841 del 30/04/2015


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 8841 Anno 2015
Presidente: SALVAGO SALVATORE
Relatore: MERCOLINO GUIDO

SENTENZA

pubblico

sul ricorso proposto da
IMMOBILIARE PUCCINI S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t. Giorgio Passeri, elettivamente domiciliata in Roma, alla via dei Monti Parioli n. 48,
presso l’avv. prof. RENATO MARINI, dal quale è rappresentata e difesa in virtù
di procura speciale a margine del ricorso –

0404

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RICORRENTE

contro
A.T.E.R. – AZIENDA TERRITORIALE PER L’EDILIZIA RESIDENZIALE
PUBBLICA DEL COMPRENSORIO DI CIVITAVECCHIA (già I.A.C.P. – Istituto Autonomo Case Popolari di Civitavecchia), in persona del direttore generale
p.t., elettivamente domiciliata in Roma. al largo Messico n. 7, presso l’avv. prof.
GIAMPAOLO MARIA COGO, dal quale, unitamente all’avv. FRANCESCO
MALIANDI del foro di Civitavecchia, è rappresentata e difesa in virtù di procura

1 9-0

w5

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Data pubblicazione: 30/04/2015

speciale in calce al controricorso
CONTRORICORRENTE

avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 787/06, pubblicata il 13

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 gennaio
2015 dal Consigliere dott. Guido Mercolino;
uditi i difensori delle parti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Lucio CAPASSO, il quale ha concluso per il rigetto del primo motivo di ricorso e per l’accoglimento del secondo e del terzo motivo, restando assorbiti gli
altri motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. — L’Immobiliare Puccini S.r.l. convenne in giudizio l’I.A.C.P. – Istituto
Autonomo per le Case Popolari di Civitavecchia per sentirlo condannare al pagamento della rata di saldo del corrispettivo dovuto per la realizzazione di due fabbricati, dei relativi impianti e delle opere di urbanizzazione primaria, nonché al risarcimento dei danni, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Premesso che i lavori le erano stati affidati con contratto di appalto del 12
giugno 1974, espose che, nonostante l’avvenuta ultimazione delle opere, l’Istituto
non aveva provveduto alla redazione della contabilità finale ed al collaudo, allo
svincolo delle cauzioni e delle polizze fideiussorie ed al pagamento della rata di
saldo, comprensiva della revisione dei prezzi.
1.1. — Con sentenza del 26 agosto 2002, il Tribunale di Civitavecchia accolse la domanda, condannando l’Iacp al pagamento della somma di Euro 11.711,16
a titolo di rata di saldo, di Euro 1.910.890,52 a titolo di risarcimento del danno de-

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febbraio 2006.

rivante dall’inadempimento, e di Euro 3.409,52 a titolo di risarcimento del danno
per il ritardo nello svincolo delle cauzioni.
2. — L’impugnazione proposta dall’Iacp è stata parzialmente accolta dalla

gravame incidentale proposto dall’Immobiliare, condannando l’Istituto al pagamento della somma di Euro 10.528,53, oltre interessi al tasso di cui all’art. 36 del
d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 con decorrenza dal 28 marzo 1979, a titolo di saldo
del corrispettivo, e della somma di Euro 17.713,14, oltre interessi legali sulla
somma di Euro 3.409,52 rivalutata di anno in anno secondo gl’indici Istat con decorrenza dal 28 marzo 1979, a titolo di risarcimento del danno per il ritardo nello
svincolo delle cauzioni, con detrazione della somma di Euro 48.295,40, già pagata
dall’Istituto il 24 giugno 2003.
Premesso che il corrispettivo previsto dal contratto d’appalto ammontava a
Lire 457.938.650, sulle quali l’appaltatrice aveva percepito anticipazioni ed acconti per complessive Lire 455.546.879, la Corte ha rilevato che, sulla base dei conteggi presentati dalle parti e della documentazione contabile prodotta, il c.t.u. aveva determinato il debito residuo in Lire 9.811.470 a titolo di corrispettivo e Lire
10.574.624 a titolo di saldo del compenso revisionale; l’unica differenza rispetto ai
conteggi dell’Istituto era rappresentata dal maggior corrispettivo dovuto per lavori
non previsti dal progetto né ordinati per iscritto dal committente o dal direttore dei
lavori, ma imposti direttamente dalla legge, e quindi da eseguirsi necessariamente
ai fini della realizzazione dell’opera a regola d’arte, e dalla revisione dei prezzi
calcolata sul relativo importo. Al riguardo, la Corte ha escluso che l’utilizzazione
della documentazione contabile prodotta dall’Istituto comportasse l’esonero dell’attrice dalla prova posta a suo carico, osservando che i documenti esaminati dal

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Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 13 febbraio 2006 ha rigettato il

c.t.u. erano in possesso soltanto dell’Iacp, il quale, d’altronde, pur essendo tenuto a
fornire la prova della non colpevolezza dell’inadempimento, non aveva allegato né
dedotto alcuna circostanza a propria giustificazione. Ha ritenuto invece infondate

pere aggiuntive che, non essendo imposte da disposizioni di legge e non essendo
state ordinate per iscritto dal direttore dei lavori, non potevano essere remunerate,
in virtù del divieto posto dall’art. 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
Tanto premesso, la Corte ha escluso che il ritardo nel pagamento delle somme dovute giustificasse il riconoscimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224
cod. civ., anziché degl’interessi al tasso previsto dall’art. 36 del d.P.R. n. 1063 cit.,
rilevando che il committente aveva tempestivamente pagato un importo pari ad
oltre il 90% del credito complessivamente maturato dall’appaltatrice, mentre l’importo residuo era costituito da crediti litigiosi, la cui sussistenza era stata giustamente contestata dall’Istituto, con la conseguenza che, nonostante la grave illegittimità sotto il profilo amministrativo, la sua condotta inadempiente non poteva ritenersi connotata da dolo o colpa gravissima. Ha invece ritenuto che il ritardo nello svincolo delle polizze fideiussorie e cauzionali legittimasse la rivalutazione del
relativo importo, trattandosi di obbligazione contrattuale non pecuniaria, ed ha
pertanto liquidato la somma dovuta a tale titolo sulla base degl’indici di variazione
dei prezzi accertati dall’Istat, con decorrenza dalla data in cui avrebbe dovuto essere effettuato il collaudo; ha affermato inoltre che su tale importo spettava all’appaltatrice anche il risarcimento del danno derivante dall’impossibilità di reinvestire il capitale in impieghi fruttiferi, da liquidarsi equitativamente in misura pari agl’interessi legali sulla somma rivalutata anno per anno.
La Corte ha ritenuto poi inammissibile, in quanto nuova, la domanda di resti-

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le ulteriori pretese dell’Immobiliare, in quanto collegate all’esecuzione di altre o-

tuzione della ritenuta CER, prevista dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865, rilevando
che essa era stata proposta soltanto in comparsa conclusionale, ed escludendo che
fosse desumibile dalla domanda di pagamento della rata di saldo avanzata con l’at-

del pagamento della rata di saldo, avrebbe dovuto costituire oggetto di una domanda di ripetizione dell’indebito, mai proposta. Ha escluso che l’Istituto avesse
accettato il contraddittorio al riguardo, rilevando anzi che nella memoria di replica
esso aveva specificamente eccepito l’inammissibilità della domanda, ed ha dichiarato inammissibile, in quanto proposta soltanto con l’atto di appello, anche la domanda di pagamento degl’interessi anatocistici.
3. — Avverso la predetta sentenza l’Immobiliare Puccini ha proposto ricorso
per cassazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con memoria. Ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria, l’A.T.E.R. – Azienda
Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica del Comprensorio di Civitavecchia (già Iacp).

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. — Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della legge regionale del Lazio 3 settembre 2002, n.
30 e degli artt. 75, 81 e 110 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha omesso di rilevare l’inammissibilità dell’appello, in quanto proposto da un soggetto non legittimato. Premesso infatti che, all’epoca della proposizione dell’impugnazione, era già entrata in vigore la legge regionale n. 30 del
2002, la quale aveva previsto la soppressione degli Iacp ed il trasferimento delle
relative competenze alle ATER, afferma che, nonostante l’impropria utilizzazione
del termine «trasformazione» da parte del legislatore, la predetta vicenda aveva

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to di citazione, in quanto la predetta ritenuta, pur dovendo essere restituita all’atto

comportato l’estinzione degli istituti, rispetto ai quali le aziende costituivano distinti soggetti giuridici, aventi natura di enti pubblici economici, strumentali della
Regione e dotati di personalità giuridica ed autonomia imprenditoriale, patrimo-

2.1. — Il motivo è inammissibile.
La questione proposta dalla ricorrente, pur essendo rilevabile d’ufficio, implica un’indagine di fatto in ordine all’avvenuta estinzione dell’Iacp in data anteriore
alla proposizione dell’appello, e non può quindi trovare ingresso in questa sede,
non risultando trattata nella sentenza impugnata, e non essendo stato precisato in
quale atto del precedente grado di giudizio sia stata sollevata (cfr. Cass., Sez. VI,
17 giugno 2014, n. 13762; Cass., Sez. III, 30 dicembre 2011, n. 60246). Nell’ambito della legge regionale n. 30 del 2002, recante l’ordinamento degli enti regionali
operanti in materia di edilizia residenziale pubblica, il subingresso delle neocostituite aziende territoriali per l’edilizia residenziale pubblica ai soppressi istituti autonomi per le case popolari era infatti disciplinato dalla disposizione transitoria
dettata dall’art. 17, quarto comma, la quale, nel prevedere la successione delle
ATERP nella titolarità dei beni e dei rapporti giuridici già facenti capo agli Iacp
esistenti nei rispettivi ambiti territoriali, ne subordinava l’operatività alla cessazione dalle funzioni degli organi amministrativi degl’istituti ed alla contestuale costituzione dei consigli di amministrazione e dei collegi dei revisori delle aziende, cui
doveva provvedersi, per le Aziende di Roma e Civitavecchia, a seguito della ricognizione del personale, dei beni patrimoniali e di tutti i rapporti attivi e passivi
dell’Iacp di Roma, da effettuarsi entro trenta giorni dall’entrata in vigore della medesima legge, nonché della formulazione di una proposta di ripartizione e della
successiva adozione di un’apposita delibera da parte della Giunta regionale. L’ac-

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niale, finanziaria e contabile.

certamento del difetto di legittimazione dell’Iacp postula pertanto la verifica della
avvenuta adozione della predetta delibera in data anteriore alla notificazione dello
atto di appello, che non può aver luogo in questa fase, trattandosi di un provvedi-

curia, e la cui produzione è inammissibile nel giudizio di legittimità, non vertendosi in una delle ipotesi previste dall’art. 372 cod. proc. civ., in quanto la carenza
di legittimazione all’impugnazione comporta una nullità che non inficia direttamente la sentenza d’appello come provvedimento, ma si riflette solo indirettamente sulla stessa, traducendosi in un vizio del procedimento (cfr. Cass., Sez. lav., 8
maggio 2006, n. 10347; 22 marzo 2001, n. 4163; Cass., Sez. III, 20 novembre
2002,n. 16331).
2. — Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 35 e 36 del d.P.R. n. 1063 del 1962, degli artt. 1218 e 1224
cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo
che, nell’escludere la risarcibilità del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 cod.
civ., nonostante il prolungato ritardo nel pagamento del corrispettivo residuo, la
sentenza impugnata ha confuso la gravità dell’inadempimento con quella della
colpa: una volta accertata l’inadempienza del committente, la Corte di merito non
avrebbe infatti dovuto valutare la gravità della stessa, ma avrebbe dovuto indagare
sulle relative cause, per verificare se essa fosse dovuta a colpevole negligenza dell’ente. Nella predetta valutazione, la sentenza impugnata avrebbe dovuto tener
conto dell’importo del saldo dovuto, tutt’altro che irrisorio, e della condotta tenuta
dall’Istituto, improntata al più totale spregio delle leggi vigenti, nonché della disastrosa gestione dell’appalto, caratterizzata dall’omessa tenuta dei libri contabili,

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mento la cui natura amministrativa esclude l’operatività del principio jura novit

dalla mancata regolarizzazione del conto finale e dall’omissione del collaudo e
dello svincolo delle cauzioni; la stessa Corte di merito ha d’altronde sottolineato la
grave illegittimità, sotto il profilo amministrativo, della condotta tenuta dall’Iacp,

nea a giustificare l’inadempimento.
3. — Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1218
e ss. cod. civ., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che, nell’escludere la
gravità dell’inadempimento, in considerazione dell’esiguità della somma ancora
dovuta, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della rilevanza del predetto
importo, in relazione alle modeste dimensioni dell’impresa ed ai prezzi correnti
all’epoca dell’ultimazione delle opere.
4. — I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad
oggetto la medesima questione, sono infondati.
Nell’affermare che la condotta tenuta dall’Iacp non comportava l’inoperatività
della disciplina speciale dettata dagli artt. 35 e 36 del d.P.R. n. 1063 del 1962, la
sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il carattere derogatorio delle predette disposizioni, volte a limitare la responsabilità contrattuale dell’Amministrazione, ne
impone un’interpretazione restrittiva (conformemente al principio generale secondo cui in uno stato di diritto gli enti pubblici, al pari delle altre persone giuridiche,
non possono esimersi dal rispondere dei danni arrecati ai privati dal loro comportamento doloso o gravemente colposo), con la conseguenza che deve escludersene
l’applicabilità a qualsiasi ipotesi d’inadempimento, e segnatamente a quelle in cui
il ritardo nel pagamento non sia dovuto alle caratteristiche proprie dell’organizza-

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rilevando che quest’ultimo non aveva allegato né provato alcuna circostanza ido-

zione amministrativa, o comunque alla complessità dei procedimenti attraverso i
quali si svolge la sua attività, ma riveli una grave mancanza di considerazione per
gl’interessi della controparte o addirittura l’intento di sottrarsi alle proprie obbliga-

bre 1985, n. 5232; 19 novembre 1973, n. 3089).
Non può condividersi, al riguardo, l’affermazione della ricorrente, secondo
cui l’onere di fornire la prova della non imputabilità dell’inadempimento incombeva nella specie all’Istituto, che non l’ha assolto: la mancata prova della riconducibilità dell’inadempimento ad una causa non imputabile all’Amministratore comporta infatti l’applicabilità del regime speciale previsto dagli artt. 35 e 36 del
d.P.R. n. 1063 del 1962, per la cui esclusione è invece necessario l’accertamento
della condotta dolosa o gravemente colposa della debitrice, la cui prova è posta a
carico del creditore, non operando, a tal fine, la presunzione di colpa prevista dalla
disciplina ordinaria delle obbligazioni (cfr. Cass., Sez. I, 24 ottobre 1985, n. 5232;
19 novembre 1973, n. 3089).
Ai fini della valutazione della predetta condotta, non merita censura la scelta
compiuta dalla Corte di merito, la quale non si è limitata a prendere in considerazione le gravi irregolarità commesse dall’Iacp nella gestione della fase esecutiva
dell’appalto, ma ha esteso il proprio apprezzamento ai profili oggettivi del rapporto, soffermandosi sull’ammontare del corrispettivo complessivamente pattuito e
dell’importo rimasto insoluto, e ponendo in risalto l’accertata fondatezza delle contestazioni sollevate dall’Istituto in ordine alle maggiori pretese fatte valere dall’appaltatrice: l’accertamento della gravità della colpa non può infatti prescindere dalla
determinazione del grado di consapevolezza delle parti in ordine alla natura delle
obbligazioni rimaste inadempiute ed alla loro incidenza sul rapporto contrattuale,

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zioni (cfr. Cass., Sez. I, 16 gennaio 2004, n. 532; 2 marzo 1988, n. 2203; 24 otto-

nonchè all’effettiva sussistenza dei predetti obblighi ed alla conseguente censurabilità del rifiuto di ottemperarvi. E’ in quest’ottica che la sentenza impugnata ha
evidenziato l’esiguità della somma riconosciuta alla ricorrente, a fronte di quella

l’oggettiva consistenza dei dubbi emersi in ordine agli ulteriori compensi richiesti,
in tal modo lasciando chiaramente intendere, con motivazione immune da vizi logici, che il ritardo nel pagamento non era riconducibile all’accertata inosservanza
degli obblighi inerenti alla gestione amministrativa del rapporto.
Nel contestare il predetto apprezzamento, la ricorrente non è in grado di indicare le lacune argomentative e le carenze logiche del ragionamento seguito dalla
sentenza impugnata, ma si limita ad insistere sulle irregolarità accertate e sulla rilevanza dell’importo rimasto insoluto, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione dei vizi di violazione di legge e difetto di motivazione, una rivisitazione del giudizio di merito, non consentita a questa Corte,
alla quale non spetta il riesame della vicenda processuale, ma solo il controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal
giudice di merito, cui competono, in via esclusiva, l’individuazione delle fonti del
proprio convincimento ed il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, tra le complessive risultanze processuali, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 4 novembre 2013, n. 24679; Cass., Sez. V, 16 dicembre 2011,
n. 27197; Cass., Sez. lav., 19 marzo 2009, n. 6694).
4. — Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1223,1224 e 1225 cod. civ., nonché l’omessa o insufficiente
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che

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richiesta in primo grado e degl’importi già corrisposti dal committente, nonché

la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine al motivo di appello
con cui era stata censurata la liquidazione del danno compiuta dal Giudice di primo grado. Premesso che a tal fine doveva tenersi conto non solo del lucro cessan-

ma anche della perdita derivante dalla necessità di fare ricorso al credito bancario,
rileva che la Corte di merito ha negato il riconoscimento di entrambi i pregiudizi
sulla somma dovuta a titolo di saldo del corrispettivo, mentre su quella dovuta per
lo svincolo delle cauzioni si è limitata a riconoscere soltanto il lucro cessante.
4.1. — Il motivo è infondato.
Nella parte riflettente il mancato riconoscimento del maggior danno per il ritardo nel pagamento del residuo importo dovuto a titolo di corrispettivo, le censure proposte dall’appellante sono state correttamente ritenute assorbite dall’accertata
insussistenza del dolo o della colpa grave dell’Istituto, che, imponendo di fare riferimento al regime speciale previsto dal d.P.R. n. 1063 del 1962, comportava l’applicabilità del terzo comma dell’art. 35, ai sensi del quale gl’interessi da ritardo
previsti da tale disposizione e da quella successiva devono ritenersi comprensivi
del risarcimento del danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ.
Quanto invece al danno cagionato dal ritardo nello svincolo delle polizze fideiussorie, la Corte di merito ne ha ravvisato presuntivamente l’esistenza sulla base dell’impossibilità d’investire la somma dovuta in impieghi fruttiferi e lo ha liquidato equitativamente in misura pari agl’interessi legali sul relativo importo, rivalutato anno per anno, facendo riferimento alla presumibile produttività del denaro nel periodo in questione. Premesso che è rimasta incensurata la qualificazione dell’obbligazione tardivamente adempiuta come debito di valore, le predette
modalità di liquidazione risultano conformi all’orientamento consolidato di questa

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te determinato dal mancato reinvestimento della somma tardivamente corrisposta,

Corte, secondo cui, in caso d’inadempimento di obbligazioni diverse da quelle aventi ad oggetto una somma di denaro, al creditore è dovuto, oltre al valore del
bene perduto, espresso in termini monetari che tengano conto delle variazioni dei

sato dalla temporanea indisponibilità del predetto importo, ravvisabile nel mancato conseguimento dell’utilitas che il creditore avrebbe tratto dalla somma se tempestivamente versata; tale pregiudizio può essere accertato in via presuntiva, come
nella specie, in base all’utile che il creditore avrebbe tratto dal reimpiego della
somma dovuta in investimenti fruttiferi, e può essere liquidato in via equitativa
mediante il riconoscimento degl’interessi compensativi, da calcolarsi al tasso legale sull’equivalente monetario del bene alla data di insorgenza del credito, ovvero
ad un tasso inferiore a quello legale medio nel periodo di tempo da considerare
sull’importo liquidato all’attualità, o ancora al tasso legale sull’importo originario,
progressivamente rivalutato anno per anno (cfr. Cass., Sez. III, 9 ottobre 2012, n.
17155; 23 marzo 2010, n. 6951; Cass., Sez. II, 18 febbraio 2010, n. 3931). In alternativa, considerato che l’impossibilità di disporre dell’equivalente pecuniario
del bene perduto per destinarlo alle proprie necessità può indurre il creditore a
procurarselo mediante il ricorso al credito, il danno in questione può essere liquidato anche con riferimento all’esborso che egli abbia dovuto sostenere a tal fine,
sempre però che sia stata fornita la prova delle condizioni che il creditore ha dovuto accettare, nella specie neppure indicate; resta comunque escluso che, come
pretenderebbe il ricorrente, il creditore possa cumulare il ristoro del predetto sacrificio con il profitto astrattamente ritraibile dall’investimento della somma dovuta,
sussistendo un’evidente incompatibilità logica tra il riconoscimento dei frutti di
una somma che già si possiede e quello dei costi necessari per procurarsela.

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prezzi intervenute fino al momento della decisione, anche il ristoro del danno cau-

5. — Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte
in cui l’ha condannata al pagamento delle spese processuali, in considerazione del-

applicazione del criterio della soccombenza avrebbe imposto di porre le predette
spese a carico dell’Istituto, avuto riguardo all’accoglimento delle domande proposte da essa ricorrente e della conseguente condanna dell’appellato, il cui inadempimento era stato riconosciuto in entrambi i gradi di giudizio.
5.1. — Il motivo è infondato.
La condanna del ricorrente al pagamento delle spese del gravame risulta infatti congruamente motivata con riferimento all’intervenuto accoglimento del ricorso principale, che ha comportato una considerevole riduzione della somma riconosciutagli dalla sentenza di primo grado, ed al rigetto dell’appello incidentale,
volto a riproporre le ulteriori pretese già disattese nella precedente fase. Tale decisione, traducendosi nella totale soccombenza dell’appellato, risulta pienamente
conforme al dettato dell’art. 91 cod. proc. civ., anche in considerazione della sostanziale conferma del regime delle spese adottato in prime cure, che la Corte di
merito ha ritenuto di non liquidare nuovamente, nonostante la riforma della sentenza impugnata.
6. — Il ricorso va pertanto rigettato.
L’esito complessivo della lite e la complessità delle questioni trattate giustificano peraltro la dichiarazione dell’integrale compensazione tra le parti delle spese
del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e dichiara interamente compensate tra le parti le spese

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l’intervenuto accoglimento dell’appello principale. Afferma infatti che una corretta

processuali.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2015, nella camera di consiglio della

Prima Sezione Civile

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