Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 884 del 17/01/2011

Cassazione civile sez. VI, 17/01/2011, (ud. 28/10/2010, dep. 17/01/2011), n.884

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

R.B. e B.S., rappresentati e difesi, in

forza di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv. Acquarono

Maria Basso, Alberto Bellotti e Gabriele Pafundi, elettivamente

domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, via Giulio Cesare,

n. 14, scala A int. 4;

– ricorrenti –

contro

RA.Na., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Airenti Franco, per

legge domiciliato presso la Cancelleria civile della Corte di

cassazione, piazza Cavour;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Genova n.

887 in data 14 settembre 2009.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28 ottobre 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

sentiti l’Avv. Gabriele Pafundi e l’Avv. Maria Pia Airenti,

quest’ultima per delega dell’Avv. Franco Airenti;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso: “aderisco

alla relazione”.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Che il consigliere designato ha depositato, in data 1 luglio 2010, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ.: ” Ra.Na. – premesso di essere proprietario di un piccolo locale ripostiglio sito al piano terra in adiacenza al fabbricato in condominio di (OMISSIS), in cui si trovava la caldaia dell’impianto centrale di riscaldamento dell’ala destra del palazzo – affermava che R.B. e B.S., condomini di detto fabbricato, di propria iniziativa e senza suo benestare, avevano otturato la preesistente canna fumaria eliminando il camino e immettendo nella stessa le tubazioni del loro impianto di riscaldamento; che, altrettanto abusivamente, avevano posto in opera uno sfiatatoio sulla porta di tale costruzione e avevano costruito sul tetto un nuovo comignolo dal quale fuoriuscivano fumi nocivi che, dalle soprastanti finestre, penetravano nell’alloggio di esso Ra.. Tanto premesso, citava in giudizio il R. e il B. per sentirli condannare al ripristino della canna fumaria e del camino in questione, nonchè all’eliminazione del fumaiolo e dello sfiatatoio da loro posto in opera nel fabbricato di sua proprietà.

I convenuti si costituivano in giudizio, resistendo alla domanda.

La causa veniva istruita con l’espletamento di una c.t.u. e con la produzione di documenti.

Il Tribunale di Imperia, con sentenza n. 197 depositata il 30 giugno 2001, condannava i convenuti a rimuovere sette tubi, descritti in motivazione, che collegano il ripostiglio dell’attore con gli alloggi dei convenuti, il comignolo posto sul tetto di copertura ed il tubo posto sopra la porta d’ingresso dello stesso locale.

La Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 887 depositata il 14 settembre 2009, ha rigettato il gravame del R. e del B..

Questi ultimi hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, sulla base di due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

Con il primo motivo (violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in relazione all’art. 948 cod. civ. e art. 2697 cod. civ.; violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, per omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su fatti decisivi per il giudizio) ci si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto l’azione proposta di natura personale: essendo stata contestata la proprietà del bene, l’azione si era trasformata in revindica, sicchè l’attore avrebbe dovuto provare la proprietà del locale, posseduto dai convenuti. La Corte d’appello immotivatamente non avrebbe preso in considerazione tutta la documentazione allegata alle perizie del consulente di parte geom. D., da cui risulterebbe che il Ra. non era divenuto proprietario (quanto meno non proprietario esclusivo) del locale caldaia.

Il motivo è privo di fondamento.

La Corte d’appello ha rilevato che l’attore si è limitato a richiedere la rimozione della situazione lesiva posta in essere da terzi a danno della sua proprietà. La qualificazione della natura personale dell’azione proposta appare corretta.

Questa Corte ha infatti già affermato che la domanda diretta ad ottenere la rimozione di una situazione lesiva del diritto di proprietà, non accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto reale, assume la veste dell’azione di reintegrazione in forma specifica di natura personale (Cass., Sez. 2^, 18 luglio 1991, n. 7984).

In tal caso, la prova della proprietà può essere fornita dall’attore con qualunque mezzo, incluse le presunzioni, mentre al convenuto che deduca l’esistenza del diritto di compiere l’attività lamentata come lesiva, spetta di offrire la relativa dimostrazione (Cass., Sez. 2^, 28 novembre 1988, n. 6412).

Contrariamente a quanto sostegno i ricorrenti, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti. Infatti, per un verso, la controversia va decisa con e-sclusivo riferimento alla pretesa dedotta; per l’altro, una conclusione di segno opposto condurrebbe alla inammissibile conseguenza di ritenere la semplice contestazione del convenuto strumento processuale idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, con stravolgimento della difesa predisposta in relazione alla diversa azione proposta, una prova ben più onerosa – la probatio diabolica della revindica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta (Cass., Sez. 2^, 26 febbraio 2007, n. 4416; Cass., Sez. 2^, 27 gennaio 2009, n. 1929).

La Corte d’appello ha ritenuto raggiunta la prova della proprietà dei locali in contestazione in capo al Ra.. Ha affermato la Corte territoriale che il Ra. risulta aver prodotto l’atto di permuta con cui in data 16 gennaio 1987 acquistava da V. G. la proprietà di un magazzino e gabinetto con ripostiglio esterni, e risulta aver prodotto una planimetria allegata a tale atto in cui sono raffigurati un ripostiglio e locale caldaia (oggetto di domanda di sanatoria edilizia), la cui individuazione consente di ritenere da lui fornita la prova della titolarità del suo diritto sui locali per cui è causa.

La conclusione della Corte d’appello si fonda su una motivazione logica, esauriente ed esente da vizi logici e giuridici.

I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale non abbia spiegato le ragioni per cui non ha preso in considerazione le perizie e la documentazione catastale fornita dal loro consulente tecnico, che – si assume – dimostrerebbero che con l’atto del 16 gennaio 1987 sarebbero stati permutati dal V. al Ra. tutti i locali, tranne il locale caldaia.

La censura non coglie nel segno, posto che i ricorrenti omettono di indicare quali canoni di ermeneutica, derivanti dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., avrebbe violato la Corte di Genova nel ricostruire l’oggetto del contratto di pennuta.

La complessiva censura del vizio di motivazione, pertanto, finisce con il risolversi nella sollecitazione ad un riesame della documentazione e delle risultanze probatorie, onde pervenire ad una lettura di esse diversa da quella fornita dal giudice del merito.

Con il secondo motivo si denuncia “violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in relazione all’art. 1117 cod. civ., n. 2, e all’art. 1102 cod. civ.; violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5″.

Il motivo è inammissibile.

La questione della proprietà comune, ai sensi dell’art. 1117 cod. civ., n. 2, dei locali per il riscaldamento centrale è dedotta per la prima volta in cassazione, laddove nel giudizio di merito si è discusso se il R. ed il B. fossero o meno gli unici ed esclusivi proprietari per intervenuta usucapione dei locali in contestazione.

Del pari è questione nuova la deduzione relativa alla possibilità per i condomini di trarre dal bene comune il miglior godimento possibile, purchè non sia impedito agli altri di farne parimenti uso.

In conclusione, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ., per esservi rigettato” Letta la memoria dei ricorrenti.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra;

che le critiche ad essa mosse con la memoria depositata in prossimità della camera di consiglio non colgono nel segno;

che va ribadita la correttezza della qualificazione dell’azione operata dalla Corte d’appello, posto che la domanda rivolta a ottenere la rimozione della situazione lesiva del diritto di proprietà, non accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto di proprietà, esorbita dai limiti della negatoria servitutis e può assumere, come nella specie, la veste di azione personale, se intesa al ristabilimento di un’attività esercitata sulla base del diritto di proprietà: in questo caso l’azione è basata sul diritto di credito sorto con la lesione del diritto reale ed ha per oggetto il risarcimento del relativo danno, anche in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. (Cass., Sez. 2^, 24 marzo 1979, n. 1744);

che, d’altra parte, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, per altro, la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, una prova ben più onerosa – la probatio diabolica della rivendica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta;

che, per il resto, occorre ribadire che il giudice di appello ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del proprio convincimento;

che alle dette valutazioni i ricorrenti contrappongono le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione;

che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato;

che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al rimborso delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che liquida in complessivi Euro 2.700, di cui Euro 2.500 per onorari, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione SEsta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2011

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