Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8835 del 18/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 18/04/2011, (ud. 23/11/2010, dep. 18/04/2011), n.8835

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16611/2007 proposto da:

C.N.P.A.F. – CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE, in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo STUDIO BDL,

rappresentata e difesa dall’avvocato CINELLI MAURIZIO giusta delega

in atti;

– ricorrente –

N.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GRECO GIOVANNI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1047/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 03/06/2006 R.G.N. 2192/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2010 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato MOBILIO GIANFRANCO per delega MAURIZIO CINELLI;

udito l’Avvocato GRECO GIOVANNI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del motivo terzo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 19/5/2006 la Corte d’Appello di Lecce – sezione Lavoro ritenne fondato l’appello proposto il 27/7/05 da N. G. avverso la decisione del giudice del lavoro del Tribunale di Lecce del 14/4/05, con la quale, in accoglimento dell’opposizione alla cartella esattoriale n. (OMISSIS) contenente l’intimazione al pagamento alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense della somma di Euro 69.249,74 a titolo di contributi e somme aggiuntive per gli anni 1987, 1988, 1989 e 2002, era stata accerta la prescrizione del credito azionato per i primi tre anni ed appurato il venir meno di ogni contestazione per il credito del 2002, e, per l’effetto, dichiarò che le somme di cui agli anni 1987, 1988 e 1989 non erano, invece, dovute per la diversa ragione che erano attinenti ad attività professionale dell’appellante non riconducibile alla professione legale.

Nell’addivenire a tale decisione la Corte territoriale spiegò che l’appellante, pur avendo eccepito la prescrizione, aveva pieno interesse a sentir pronunziare anche nel merito l’invocato accertamento dell’insussistenza del credito azionato nei suoi confronti, atteso che la statuizione sulla sola prescrizione lasciava impregiudicata la questione amministrativa della rettifica dell’iscrizione alla Cassa previdenziale della sua categoria professionale, con conseguente rischio di cancellazione delle contribuzioni relative agli anni in contestazione; inoltre, la Corte appurò che l’attività di consulenza finanziaria svolta in via prevalente dall’appellante, così come emerso dall’istruttoria svolta, doveva ritenersi estranea all’esercizio della professione forense e nemmeno poteva considerarsi ad essa assimilabile, per cui la stessa non poteva giustificare le somme pretese attraverso la cartella esattoriale opposta che, di conseguenza, non erano dovute.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Cassa Nazionale di Previdenza e assistenza Forense affidando l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso l’avv. N.G..

La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e l’omessa applicazione degli artt. 100, 112, 345 e 347 c.p.c., (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) ponendo il seguente quesito di diritto: “Se – accolta dal Tribunale l’opposizione avverso l’iscrizione a ruolo per intervenuta prescrizione dei contributi previdenziali pretesi dalla Cassa Forense, e conseguente dichiarazione di assorbimento del capo di domanda fondata sulla non imponibilità contributiva de cespiti in contestazione – possa avere ingresso, nel rispetto degli artt. 110, 112, 345 e 437 c.p.c., l’appello con il quale l’opponente, pur totalmente vittorioso, miri ad ottenere la dichiarazione di insussistenza ab origine del credito contributivo in contestazione, adducendo, come giustificazione del gravame, circostanza mai dedotta in precedenza, e cioè che la semplice declaratoria di prescrizione di detti contributi è suscettibile di pregiudicare (alla luce dell’orientamento espresso in altra sede dall’ente previdenziale) gli accrediti di anzianità contributiva relativi agli anni interessati da quella declaratoria”.

Il motivo è infondato.

Giova, anzitutto, osservare che l’opponente non era risultato totalmente vittorioso all’esito del giudizio di primo grado, atteso che era stata ritenuta fondata l’eccezione preliminare della prescrizione, per cui sussisteva il suo interesse all’impugnazione per sentir accolta la domanda diretta a far accertare l’insussistenza del debito contributivo; in secondo luogo, l’odierna ricorrente non offre elementi per ritenere che non era stata dedotta già in prime cure dall’opponente la circostanza rappresentata dal fatto che in sede amministrativa si era profilato il rischio del mancato accredito contributivo. Anzi, nel controricorso l’odierno intimato spiega che all’udienza di discussione erano stati illustrati i motivi dell’esame delle domande nel merito. In ogni caso, la circostanza amministrativa summenzionata rappresentava solo un motivo atto a giustificare la domanda di accertamento dell’insussistenza del debito contributivo che, pertanto, non poteva essere considerata come nuova. Nè il fatto che la questione connessa al rischio del mancato accredito contributivo fosse rimasta assorbita dalla decisione di accoglimento della prescrizione faceva solo per questo venir meno l’interesse a far valere la domanda principale di accertamento dell’insussistenza del debito contributivo.

2. Col secondo motivo la ricorrente denunzia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), facendo rilevare che nel ricorso di primo grado non è dato cogliere alcun collegamento testuale, nè diretto, nè indiretto, tra la richiesta di declaratoria di nullità del ruolo e quella di accertamento della inesistenza ab origine dell’obbligo contributivo.

Al riguardo non può non evidenziarsi il dato di fondo preliminare rappresentato dalla mancata sintesi giuridica delle ragioni dedotte col motivo stesso, sintesi che avrebbe dovuto essere omologa alla formulazione del quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c., a pena di inammissibilità, posto che, contrariamente a quanto sostenuto attraverso tale motivo di doglianza, nella sentenza impugnata è contenuto l’espresso riferimento alla richiesta di declaratoria di nullità assoluta del ruolo, per cui non è dato comprendere quale sarebbe l’omissione o l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione che la renderebbero alternativamente inidonea a giustificare la decisione impugnata.

Invero, come si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 4556 del 25/2/09), l’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione”. Pertanto, il suddetto motivo di censura è inammissibile.

3. Col terzo motivo la ricorrente deduce la violazione, nonchè la falsa ed errata applicazione della L n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, unitamente all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In particolare la difesa della Cassa Nazionale Forense pone il seguente quesito di diritto: “Se il giudizio in ordine alla imponibilità, ai sensi della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, dei singoli cespiti di reddito e di volumi d’affari prodotti dall’avvocato, vada condotto verificando l’esistenza o meno di una connessione fra il contenuto concreto dell’attività svolta (da cui il singolo cespite di reddito e volume d’affari deriva) e le conoscenze professionali e il bagaglio culturale tipici della professione; e se debba ritenersi imponibile tutto il reddito ricavato dall’impiego delle conoscenze professionali e del bagaglio culturale dell’avvocato, anche per quanto riguarda attività stragiudiziale di consulenza alle aziende, ivi comprese la consulenza e l’assistenza in procedimenti amministrativi finalizzati all’ottenimento di finanziamenti o attività di docenza e produzione di scritti, retribuite a fronte del materiale di rilascio, da parte del professionista, di fatture per competenze professionali”.

In sostanza, la ricorrente contesta alla Corte d’appello di aver aprioristicamente ed erroneamente escluso ogni ipotesi di collegamento tra le attività di consulenza finanziaria svolta dall’avv. N. e la sua professione di legale, facendo malgoverno delle norme di cui alla L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, e finendo, così, per consentire all’appellante di avvalorare la sua tesi di non imponibilità dei redditi e dei volumi d’affari prodotti nel periodo in contestazione. Il motivo coglie nel segno e va, perciò, accolto.

Orbene, ai fini di un ordinato iter motivazionale della presente decisione è opportuno riprodurre il dato testuale dell’art. 11, sul contributo integrativo, di cui alla L. n. 576 del 1980: “A PARTIRE DAL PRIMO GENNAIO DEL SECONDO ANNO SUCCESSIVO ALL’ENTRATA IN VIGORE DELLA PRESENTE LEGGE, TUTTI GLI ISCRITTI AGLI ALBI DI AVVOCATO E DI PROCURATORE NONCHE’ I PRATICANTI PROCURATORI ISCRITTI ALLA CASSA DEVONO APPLICARE UNA MAGGIORAZIONE PERCENTUALE SU TUTTI I CORRISPETTIVI RIENTRANTI NEL VOLUME ANNUALE D’AFFARI AI FINI DELL’IVA E VERSARNE ALLA CASSA L’AMMONTARE INDIPENDENTEMENTE DALL’EFFETTIVO PAGAMENTO CHE NE ABBIA ESEGUITO IL DEBITORE. LA MAGGIORAZIONE E’ RIPETIBILE NEI CONFRONTI DI QUEST’ULTIMO. LE ASSOCIAZIONI O SOCIETA’ DI PROFESSIONISTI DEVONO APPLICARE LA MAGGIORAZIONE PER LA QUOTA DI COMPETENZA DI OGNI ASSOCIATO ISCRITTO AGLI ALBI DI AVVOCATO E PROCURATORE. L’AMMONTARE COMPLESSIVO ANNUO DELLE MAGGIORAZIONI OBBLIGATORIE DOVUTE ALLA CASSA DAL SINGOLO PROFESSIONISTA E’ CALCOLATO SU UNA PERCENTUALE DEL VOLUME D’AFFARI DELLA ASSOCIAZIONE O SOCIETA’ PARI ALLA PERCENTUALE DEGLI UTILI SPETTANTE AL PROFESSIONISTA STESSO. GLI ISCRITTI ALLA CASSA SONO ANNUALMENTE TENUTI A VERSARE,PER IL TITOLO DI CUI AL PRIMO COMMA,UN IMPORTO MINIMO RISULTANTE DALLA APPLICAZIONE DELLA PERCENTUALE AD UN VOLUME D’AFFARI PARI A QUINDICI VOLTE IL CONTRIBUTO MINIMO DI CUI ALL’ART. 10, COMMA 2,DOVUTO PER L’ANNO STESSO. SALVO QUANTO DISPOSTO DALL’ART. 13, COMMA 1, LA MAGGIORAZIONE PERCENTUALE,IN SEDE DI PRIMA APPLICAZIONE DELLA PRESENTE LEGGE, E’ STABILITA NELLA MISURA DEL 2 PER CENTO”.

Come è dato vedere la norma richiama costantemente, ai fini dell’assoggettamento delle varie somme e percentuali all’imposizione contributiva e fiscale, il concetto di “volume d’affari”, così come nel primo comma fa esplicito riferimento a tutti i corrispettivi rientranti nel volume d’affari. Bisogna, però, considerare che nella fattispecie si versa in ipotesi di redditi promiscui, essendo pacifico che l’opponente alla cartella esattoriale, pur rivestendo la qualifica di legale, svolgeva nel contempo attività di consulenza finanziaria.

Ebbene, in casi del genere l’imponibile, ai fini contributivi che interessano, non può che essere verificato alla stregua del parametro della connessione fra l’attività (da cui il reddito deriva) e le conoscenze professionali (v. in tal senso Cass. Sez. lav. N. 20670 del 25/10/2004).

Ai fini di tale connessione, è stato affermato che dal volume di affari devono essere escluse “quelle altre attività che, pur non essendo incompatibili, non hanno nulla in comune con l’esercizio della professione” (Corte cost. 12 novembre 1991 n. 402, in relazione a controversia riguardante la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense). La rilevanza di questa connessione discende dal fatto che nell’attuale contesto sociale la professione tende ad espandersi a molteplici campi di assistenza contigui per ragioni di affinità e ciò vale non solo per la professione forense (per la quale l’osservazione è stata formulata da Corte cost. cit.), ma anche per altre professioni, mentre il limite della connessione – e, pertanto, del parametro di assoggettabilità all’imposizione contributiva – è l’estraneità dell’attività stessa alla professione. Inoltre, nella fattispecie un preciso riscontro a tali principi lo si ricava anche dalla semplice circostanza che gli introiti in contestazione erano riportati dal professionista nella dichiarazione IRPEF nel quadro “E” del Modello fiscale “740” con codice di attività proprio degli studi professionali.

D’altra parte, questa Corte ha già avuto modo in passato di affrontare il problema oggi discusso (Cass., sez. lav., 26-03-1999, n. 2910) pervenendo alla statuizione che “l’avvocato che, unitamente all’attività forense, svolga quella inerente all’esercizio di un’agenzia di pratiche ipotecarie e catastali, deve tenere conto anche dei redditi derivanti da tale ultima attività per determinare la maggiorazione dovuta alla cassa nazionale di previdenza e assistenza per avvocati e procuratori ai sensi della L. n. 576 del 1980, art. 11, come modificato alla L. n. 175 del 1983, art. 2, giacchè non trattasi di redditi derivanti da un’attività del tutto estranea alla professione forense, bensì funzionale ad essa, essendo addirittura compresa nelle tariffe professionali per i diritti di procuratore spettanti nei giudizi di esecuzione, a nulla rilevando che essa possa essere svolta anche da chi non sia in possesso del titolo abilitante all’esercizio della professione forense”.

Si è, altresì, precisato (Cass., sez. lav., 15-12-2000, n. 15816) che “l’attività di consulenza ed assistenza legale, svolta dall’iscritto all’albo degli avvocati, sia pure in materia fiscale e tributaria, è qualificabile come attività professionale di avvocato, ai sensi dell’ordinamento della professione di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, e quindi i relativi redditi e volumi di affari sono soggetti a contribuzione a favore della cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11”.

Nè va sottaciuto che il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con L. n. 36 del 1934, che regola la professione di avvocato, prevede come propria della professione, accanto alla principale attività giudiziale di patrocinio, quella in materia stragiudiziale, art. 57, e per essa la determinazione degli onorari e delle indennità in relazione all’entità dell’affare. I decreti ministeriali, che fissano e aggiornano le tariffe forensi, indicano i pareri e l’attività di consulenza e assistenza come attività stragiudiziali dell’avvocato libero professionista. La pertinenza di tali attività alla professione di avvocato risulta confermata dal terzo comma dell’art. 3 del citato R.D.L. che recita “(l’esercizio della professione di avvocato) è infine incompatibile con ogni altro impiego retribuito anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale che non abbia carattere scientifico o letterario”. L’estensione del divieto per l’avvocato di esercitare la professione come lavoratore dipendente, oltre che al patrocinio, anche alle attività di consulenza e assistenza, presuppone che queste attività stragiudiziali siano state ritenute proprie dell’esercizio della professione di avvocato. D’altronde, l’opera intellettuale presenta i caratteri della professionalità, ai fini della applicazione della tariffa relativa per la determinazione del compenso, quando concorrono l’elemento soggettivo dell’iscrizione del prestatore in un albo professionale e quello oggettivo della natura tecnica ed assolutamente esclusiva dell’attività del professionista o, quanto meno, del collegamento della relativa attività non tecnica con prestazione di ordine tecnico (Cass. 22 febbraio 1988, n. 1851).

In definitiva, non può porsi in dubbio che il reddito professionale netto ai fini IRPEF ed il volume di affari ai fini IVA, ai quali sono collegati il contributo soggettivo e quello integrativo dalla L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, (e successive modificazioni), debbano essere il frutto dell’attività professionale dell’avvocato o di attività ad essa intrinsecamente connessa.

Pertanto, va enunciato il seguente principio di diritto: “L’attività di consulenza finanziaria deve reputarsi connessa a quella della professione di avvocato, ai sensi dell’ordinamento di detta professione di cui al R.D. 27 novembre 1933, convertito nella L. 22 gennaio 1936, n. 34, sicchè i relativi redditi e volumi d’affari vanno assoggettati a contribuzione ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11, e successive modifiche”.

4. Con l’ultimo motivo la ricorrente denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata prospettando le seguenti considerazioni: la Corte d’appello non diede atto del fatto che i redditi erano stati dichiarati in sede fiscale col codice di attività proprio degli studi professionali (Quadro “E” del Modello “740”); non fu dato atto della circostanza che le fatture prodotte erano state assoggettate a contributo integrativo e fu escluso il loro collegamento all’attività forense; si sopravvalutò, infine, l’importanza della prova testimoniale a fronte della rilevata circostanza che era mancata la cura della fase contenziosa da parte del professionista.

Il motivo è inammissibile: invero, la ricorrente si limita a segnalare quelle che a suo giudizio costituiscono delle omissioni o delle insufficienze dell’iter motivazionale della decisione senza procedere, però, alla sintesi finale in punto di diritto delle ragioni dedotte col motivo stesso, momento di sintesi che avrebbe dovuto essere omologo alla formulazione del quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis c.p.c., a pena di inammissibilità, per cui non consente a questo Collegio di comprendere in qual modo le lamentate violazioni possano aver inciso sulla “ratio decidendi” della sentenza d’appello.

Ne consegue che il primo motivo va rigettato, mentre vanno dichiarati inammissibili il secondo ed il quarto motivo.

Va, invece, accolto il terzo motivo e in relazione allo stesso la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bari che giudicherà il caso in concreto tenendo conto dell’enunciato principio di diritto sulla esistenza di una connessione, ai fini impositivi contributivi, tra attività di legale e di consulente finanziario, provvedendo anche alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili il secondo ed il quarto motivo e accoglie il terzo motivo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Bari anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2011

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