Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8816 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. III, 30/03/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 30/03/2021), n.8816

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28513-2019 proposto da:

L.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO N 24, presso lo

studio dell’avvocato CLAUDIO MIGLIO, rappresentato e difeso

dall’avvocato DANILO LOMBARDI, per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO

DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE FIRENZE;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1642/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 08/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

L.S., cittadino del (OMISSIS), ha depositato ricorso in data 7 ottobre 2019 avverso la sentenza n. 1642 del 2019 della Corte d’appello di Firenze, pubblicata e comunicata in data 8 luglio 2019.

Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

La domanda del ricorrente, di riconoscimento dello status di rifugiato e in subordine di riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria ed umanitaria, è stata respinta dalla Commissione territoriale, ed anche in sede giurisdizionale, prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello di Firenze con il provvedimento qui impugnato.

Il Giudice di primo grado riteneva inverosimile il narrato del ricorrente ed affermava che in ogni caso mancassero i requisiti per l’applicazione della protezione sussidiaria. Rigettava anche la domanda volta al riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, ritenendo che l’attività lavorativa e di volontariato svolta dal ricorrente in Italia non fosse sufficiente a dimostrarne l’integrazione.

Il ricorrente impugnava la decisione di primo grado, deducendo – con riguardo al mancato riconoscimento della protezione umanitaria – la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (previsione di casi speciali di permesso di soggiorno per motivi umanitari, di recente modificata con L. n. 132 del 2018). La Corte d’appello di Firenze ha ritenuto che le modifiche intervenute con L. n. 132 del 2018 non si applichino alle domande d’asilo proposte prima della entrata in vigore della modifica legislativa. Ha aggiunto che non si possa tuttavia riconoscere la protezione umanitaria esclusivamente in base alla dedotta integrazione sociale in Italia del richiedente, richiamando Cass. n. 4890 del 19 febbraio 2019, e ricavandone che l’integrazione non dovrebbe essere ricondotta nell’alveo delle “situazioni di vulnerabilità”, rilevanti ai fini della protezione umanitaria. E ciò perchè la vulnerabilità sarebbe ontologicamente ricollegata alla situazione originaria dello straniero, sussistente al momento del suo arrivo in Italia, mentre l’integrazione sarebbe un fenomeno che può intervenire solo dopo l’arrivo e la permanenza in Italia.

Diritto

RITENUTO

che:

Il ricorrente, con il primo ed unico motivo di censura, deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, segnalando una non corretta lettura, da parte della sentenza impugnata, della giurisprudenza di legittimità da essa stessa richiamata: nella sentenza n. 4890 del 2019 invero, il Giudice supremo avrebbe inteso affermare che, comunque, le condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria devono essere attuali nel momento in cui il Giudice compie l’istruttoria: così, l’integrazione in Italia, pur non essendo riconducibile ad una situazione di vulnerabilità dello straniero ab origine, è un parametro con cui la decisione deve confrontarsi.

Segnala che la Corte d’appello, escludendo a priori il riconoscimento della protezione in esame, senza valutare l’integrazione del ricorrente in Italia, avrebbe ingiustamente compresso i diritti inviolabili della persona alla vita privata e familiari, tutelati dall’art. 2 Cost. e art. 8 C.e.d.u. Come segnalato dal ricorrente con l’atto d’appello, invero, in caso di rimpatrio questi perderebbe le condizioni minime per condurre un’esistenza dignitosa.

Il ricorso è inammissibile.

Esso non rispetta il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che, considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione atta a garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. 11653 del 2006). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003).

Nel caso di specie, la sola lettura del ricorso se non integrata dalla lettura della sentenza non consente una seppur sommaria ricostruzione e neppure una adeguata comprensione della fattispecie sottoposta all’esame della Corte: la sommaria esposizione dei fatti di causa manca totalmente nella parte del ricorso ad essa dedicata, essi non sono riportati neppure all’interno del motivo e ciò non consente minimamente di accedere alla vicenda personale del Lamin, ovvero non dà modo alla Corte di ricostruire i fatti nella misura in cui essi siano indispensabili per comprendere le domande a suo tempo introdotte, l’oggetto e l’esito del giudizio e le questioni che ne residuano.

Nel caso in esame, solo leggendo la sentenza si comprende chi abbia detto di essere il sig. L. e quale sia la vicenda personale che ha narrato – e che peraltro è stata ritenuta inattendibile dalla corte d’appello.

Stante l’inammissibilità del ricorso, che preclude la possibilità di esaminare i motivi in esso dedotti, la soluzione adottata dalla sentenza impugnata è destinata a rimanere ferma.

Tuttavia, ne va corretta la motivazione, facendo uso dei poteri di cui all’art. 384 c.p.c., laddove si afferma che tutta l’attività svolta dal migrante in Italia, dopo che è comparso dinanzi alla Commissione, sia irrilevante e non possa essere presa in considerazione ai fini del giudizio comparativo sotteso alla domanda di riconoscimento della protezione umanitaria. Al contrario, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria va compiuto all’attualità, tenendo in conto sia la situazione, soggettiva e oggettiva, relativa alla tutela dei diritti umani nel paese di origine del ricorrente e di conseguenza la situazione in cui andrebbe a reinserirsi ove rimpatriato, sia il suo percorso di integrazione in Italia, in cui deve essere ricompresa tutta l’attività svolta e documentata fino alla decisione.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, in difetto di attività processuale da parte dell’intimato in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo successivo al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater e comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

 

 

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