Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8815 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. III, 30/03/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 30/03/2021), n.8815

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28507-2019 proposto da:

B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO N 24, presso

lo studio dell’avvocato CLAUDIO MIGLIO, rappresentato e difeso

dall’avvocato DANILO LOMBARDI, per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE FIRENZE;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1001/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 26/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

B.M., cittadino della (OMISSIS), il 7 ottobre 2019 ha depositato ricorso per la cassazione della sentenza n. 1001/2019 della Corte d’appello di Firenze, pubblicata e comunicata in data 26 aprile 2019.

Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Il ricorrente ha narrato la propria vicenda nei seguenti termini: orfano di padre, ha vissuto con la madre, il fratello e i figli della prima moglie del padre, fino a che non è scappato per sottrarsi ai maltrattamenti di questi ultimi (più grandi di lui), lasciando il proprio paese ((OMISSIS)) per spostarsi prima in Gambia, in cerca di lavoro, e poi in Senegal, in Mali, in Burkina Faso, in Niger e in Libia, giungendo in Italia nel 2014.

In primo grado è emerso anche che il M. soffrisse di forti dolori alla pancia e che dovesse eseguire una ecografia all’addome e alcune analisi in laboratorio, come prescritto dal medico.

Il Tribunale escludeva il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, in quanto riteneva le vicende riferite limitate a problematiche familiari; in primo grado è stata esclusa anche la protezione umanitaria per la mancanza di “condizioni di particolare vulnerabilità”, stante che il ricorrente, seppure integrato in Italia, conserverebbe il principale radicamento nel paese di origine, ove risiede la sua famiglia. Quanto alla situazione di salute del ricorrente, anch’essa allegata ai fini riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, non è stata ritenuta sufficiente, avendo il tribunale escluso la presenza di patologie gravi o non curabili nel paese di origine.

Il ricorrente ha proposto appello limitatamente al diniego della protezione umanitaria, segnatamente insistendo su due punti: il suo livello di integrazione in Italia D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, nonchè la sua condizione di salute precaria.

La Corte d’appello di Firenze, ricostruito il lungo e penoso itinerario che l’ha portato in Italia, e dato anche atto delle molteplici tappe del suo percorso di integrazione compiuto in Italia, ha ritenuto che non debba riconoscersi al M. la protezione umanitaria: sull’assunto che l’avvenuta integrazione dello straniero in Italia non possa integrare, sic et simpliciter, una condizione di vulnerabilità.

Il Giudice d’appello aggiunge poi, che l’integrazione non è essere riconducibile all’alveo della vulnerabilità, requisito della protezione umanitaria: la vulnerabilità disciplinata prima delle modifiche normative introdotte nel 2018 è invero, ontologicamente, ricollegata alla situazione originaria dello straniero, sussistente al momento dell’arrivo dello straniero in Italia; diversa è l’integrazione, che è un fenomeno che può intervenire solo dopo l’arrivo e la permanenza in Italia.

Diritto

RITENUTO

che:

il ricorrente, con un unico motivo, lamenta che nella sentenza impugnata risultino violati il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, l’art. 10 Cost., comma 3, l’art. 6, par. 4 della Direttiva comunitaria 115/2008, l’art. 8 della CEDU. Sarebbe invero errata l’interpretazione data alle norme dalla Corte d’appello di Firenze, per cui la situazione di vulnerabilità dello straniero, da valutare ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, debba sussistere “ab origine”, sin dal momento d’ingresso in Italia del richiedente asilo.

Al contrario, secondo il ricorrente, l’integrazione – che è fatto successivo – ben può determinare la vulnerabilità del soggetto istante, dal momento che la vulnerabilità deve essere “attuale e riferibile al momento in cui l’istruttoria viene svolta da parte del Giudicante” (così a pag. 6 del ricorso).

L’integrazione sociale sarebbe, seppure non in via esclusiva, un parametro della vulnerabilità, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di legittimità.

Pertanto, il giudice del merito non deve omettere di analizzare e valutare la condizione in Italia dello straniero, nell’ottica di verificare se con il rimpatrio venga compromessa la possibilità per lo stesso di soddisfare gli standard minimi per un’esistenza dignitosa In argomento, il ricorrente dichiara di aver puntualmente dedotto e documentato, negli atti di causa, come la (OMISSIS) sia uno dei paesi più poveri dell’Africa Occidentale, povera di risorse e infrastrutture sufficienti per creare un ambiente di sicurezza stabile. Ciò viene ribadito nel ricorso, con riferimento al rapporto del Dipartimento di Stato degli USA. Nel paese d’origine si verificherebbero inoltre gravi violazioni dei diritti umani (anche ciò, si afferma, è stato documentato in atti).

La Corte d’appello avrebbe dunque errato nel non valutare, ai fini della richiesta di protezione umanitaria, la situazione in cui andrebbe a trovarsi il ricorrente in caso di rimpatrio.

Il motivo è fondato e va accolto, con cassazione della sentenza impugnata.

Il Giudice territoriale, dall’affermazione contenuta in Cass. n. 4890 del 2019, secondo la quale non si può far esclusivo riferimento, per la concessione della protezione umanitaria, al percorso di integrazione compiuto nel paese di arrivo, ha fatto discendere l’infondatezza dell’appello.

Nel caso di specie – giacchè il richiedente asilo ha proposto la domanda di riconoscimento prima della entrata in vigore (5 ottobre 2018) del decreto sicurezza, n. 113 del 2018, che ha modificato tra l’altro la disciplina della protezione umanitaria – sarà ancora applicabile la disciplina concernente la protezione umanitaria precedente al decreto, convertito con L. n. 132 n. del 2018 (come chiarito da S.U. n. 24959 del 2019). La disciplina precedente alle modifiche introdotte nel 2018 – che consente il riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie senza limitarla ad ipotesi tipizzate – è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che, ai fini del riconoscimento di tale forma di protezione minore, occorre che il giudice operi una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062 – 02; Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01). Ne consegue che la sola circostanza che il richiedente si sia integrato nella realtà italiana non giustifica, allo stato, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (e tuttavia, la questione sarà oggetto di rimeditazione da parte delle Sezioni Unite, alle quali è stata rimessa come questione di massima di particolare importanza, da Cass. ord. n. 28316 del 2020).

Dal sopra enunciato arresto attuale della giurisprudenza di legittimità sul punto, la corte d’appello di Firenze trae però una conseguenza, che costituisce affermazione ricorrente nei suoi procedimenti, inserita con diverso grado di decisività, e che si pone in violazione di legge in questo caso in quanto non è un mero inciso privo di rilevanza ma la induce a rigettare la domanda di protezione umanitaria senza sostanzialmente esaminarne la fondatezza, in violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Essa afferma, sulla scorta dei principi sopra richiamati, e dando atto di innovare il proprio orientamento precedente in materia che “la protezione umanitaria non può essere riconosciuta sic et simpliciter solo in conseguenza dell’avvenuta integrazione dello straniero nel nostro paese, la quale, per definizione, non può essere altro che un percorso cominciato ed eventualmente anche interamente compiuto solo dopo l’arrivo in Italia dello straniero e, pertanto, non può avere nulla a che vedere con la situazione di vulnerabilità ab origine, l’unica che appunto può e deve essere presa in considerazione ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6”.

Ma, se è vero che, come detto – allo stato attuale del diritto vivente – la sola integrazione non è sufficiente ex se a fondare il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria, nondimeno essa deve essere comunque considerata, poichè il giudizio di verifica della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria si fonda sulla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva raggiunta nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva nella quale sarebbe catapultato contro la sua volontà il ricorrente qualora dovesse rientrare nel paese di origine a seguito del rimpatrio, al fine di verificare se tale rientro non valga a determinare una non tollerabile compressione della possibilità di esercizio dei diritti umani del richiedente, al di sotto della soglia della dignità umana.

Il giudice non può, pertanto, tralasciare di considerare l’integrazione solo perchè essa non è una causa “originaria” di vulnerabilità. Il ragionamento infatti per cui la vulnerabilità potrebbe discendere solamente da situazioni in cui lo straniero versa “ab origine”, sin dal momento del suo arrivo in Italia, contrasta con la giurisprudenza consolidata che ha – tra le altre – da sempre riconosciuto che la vulnerabilità potrebbe essere ricollegata allo stato di salute del richiedente (che, naturalmente, ben può variare nel tempo di permanenza in Italia, quindi differendo dalla condizione “originaria”) e che in ogni caso la sua configurabilità o meno debba essere accertata all’esito di un giudizio comparativo.

Nel caso di specie, sulla scorta di tale errata affermazione, la sentenza impugnata ha totalmente omesso di compiere un’analisi della condizione di vulnerabilità del richiedente, della sua condizione personale, dei molteplici indici di un suo percorso di integrazione, in definitiva di compiere la comparazione tra la sua situazione attuale con quella in cui egli si troverebbe in caso di rimpatrio.

La Corte d’appello di Firenze, invero, dopo aver ripercorso la disciplina della protezione umanitaria alla luce delle intervenute modifiche e dell’orientamento del giudice di legittimità, ha mancato di analizzare la situazione socio-politica della (OMISSIS) sotto il profilo del rispetto in essa dei diritti umani (v. da ultimo sul punto Cass. n. 262 del 2021, laddove afferma che ai fini della valutazione della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, il giudice deve valutare la sussistenza di ragioni di vulnerabilità e l’eventuale violazione dei diritti fondamentali al di sopra della soglia ineliminabile della dignità umana, acquisendo informazioni aggiornate, attendibili e pertinenti in relazione al rispetto dei diritti fondamentali nel paese di eventuale rimpatrio, in mancanza delle quali è configurabile la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6), ed anche di accertare quali siano stati i passi salienti dell’integrazione del ricorrente in Italia, e se essi possano ritenersi significativi o meno, ovvero di compiere entrambe le indagini sottese all’accertamento della sussistenza o meno di una situazione di vulnerabilità che deve compiersi all’interno del giudizio di comparazione, onde poter poi compiutamente motivare in ordine all’eventuale situazione cui incorrerebbe il Sig. M. in caso di rimpatrio.

La decisione deve pertanto essere cassata e rinviata alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio, al fine del corretto svolgimento della riferita operazione valutativa nel rispetto dei principi di diritto sopra indicati.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

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