Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8777 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. un., 30/03/2021, (ud. 09/03/2021, dep. 30/03/2021), n.8777

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28323/2020 proposto da:

Z.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OSLAVIA 30,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GIZZI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CESARE MENOTTO ZAULI;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI FORLI’-CESENA, PROCURATORE

GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 219/2020 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 06/11/2020.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/03/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALBERTO CARDINO, il quale chiede il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il consiglio distrettuale di disciplina di Bologna ha applicato all’avv. Z.C. la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per mesi due, in relazione alla responsabilità per l’illecito di cui agli artt. 9 e 50 codice deontologico, già artt. 6 e 14 previgente codice, per avere egli omesso di dichiarare, nel corso di un procedimento di espropriazione presso terzi in cui difendeva se stesso, la circostanza di fatto che il terzo aveva già pagato quanto dovuto al creditore prima della notifica dell’atto di pignoramento, in tal modo ottenendo l’ordinanza di assegnazione del giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 553 c.p.c..

2. – Il ricorso dal predetto proposto innanzi al Consiglio nazionale forense è stato rigettato con sentenza Delib. 15 febbraio 2020 e depositata il 6 novembre 2020.

Il C.N.F. ha affermato che:

a) correttamente è stata respinta, nel corso del procedimento innanzi a sè, l’istanza di rinvio dell’udienza del 15 febbraio 2020, avendo il ricorrente già ottenuto il rinvio delle precedenti udienze del 12 dicembre 2019, 16 gennaio 2020 e 18 gennaio 2020, ed essendo stata specificamente indicata dallo stesso incolpato l’udienza del 15 febbraio 2020, che inammissibilmente egli aveva tentato ancora di rinviare, allegando impegni privati di natura contrattuale;

b) la non agevole lettura di questioni, motivi e sottomotivi, reiterati e ridondanti, ha condotto ad individuare ivi la proposizione di tredici motivi definiti “questioni preliminari” ed ulteriori sedici censure, per un totale di ventinove motivi; quindi, ha ritenuto che:

b1) quanto ai primi tredici motivi:

1-13) il sistema disciplinare forense, che essi sospettano di illegittimità costituzionale, Eurounitaria ed internazionale, è invece legittimo, posto che i consigli locali non sono giudici, nè il sistema in questione viola l’art. 111 Cost., con riguardo alla fase giurisdizionale; in particolare:

1) la primautè del diritto unionale e della Cedu, sostenuta dal ricorrente, non impone affatto la rimessione degli atti alla Corte di giustizia, alla Commissione UE ed al Consiglio d’Europa, in quanto la specialità dell’ordinamento forense non collide con i principi menzionati;

2) i consigli distrettuali di disciplina, lungi da doversi ritenere contrari a quei principi per non essere organi imparziali, sono legittimi proprio perchè il procedimento disciplinare è emanazione della categoria coinvolta, in grado di giudicare consapevolmente circa la violazione dei doveri deontologici, mentre detti consigli hanno natura amministrativa e non giurisdizionale;

3) nessun favor accusationis e violazione del principio di presunzione di innocenza è sostenibile, essendo compito dell’organo disciplinare acquisire prove certe della responsabilità dell’incolpato, operando al contrario in pieno, anche in sede disciplinare, la presunzione di non colpevolezza;

4) nessuna illegittimità di configura per la mancanza di un doppio grado di merito, nè il C.N.F., in contrario all’assunto, costituisce un giudice di legittimità, ma potendo esso risolvere questioni sia in fatto, sia in diritto, ivi compresa l’attività istruttoria, anche d’ufficio, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 63, comma 5, richiamato dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 36;

5) le garanzie sono assicurate, in quanto, ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, L. n. 247 del 2012 e del reg. n. 2 del 2014, al procedimento, ove non autosufficiente, si applicano disposizioni del codice di procedura penale innanzi al consiglio distrettuale di disciplina e del codice di procedura civile innanzi al C.N.F.;

6) la reiterata censura di assenza di indipendenza ed imparzialità del consiglio distrettuale di disciplina è inammissibile, posto il costante principio, enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione, che riconosce piena legittimità al procedimento disciplinare innanzi agli organi territoriali;

7) il motivo, il quale lamenta la mancata applicazione al procedimento delle disposizioni poste da trattati internazionali, è aspecifico, in quanto del tutto generico e pretestuoso;

8) la doglianza di non potere l’incolpato, in base al regolamento del consiglio distrettuale di disciplina di Bologna, esaminare i fascicoli di altri incolpati è inammissibile, mentre l’art. 21 codice deontologico prevede la determinazione della sanzione in forza di una valutazione del caso concreto e di tutte le circostanze, non potendo sussistere nessun automatismo sanzionatorio;

9) la denunciata illegittimità del procedimento disciplinare forense, il quale non prevederebbe sanzioni in caso di esposti infondati, non ha pregio, atteso che l’art. 14, comma 1, reg. cnf n. 2 del 2014 prevede l’archiviazione degli esposti manifestamente infondati previa comunicazione all’incolpato, appunto per permettergli eventuali azioni risarcitorie, mentre la presunta carenza procedimentale non eliderebbe, per sè, l’illecito disciplinare commesso;

10) non ha pregio il motivo che pretende di ritenere incompatibili anche avvocati di un foro diverso da quello dell’incolpato, come ampiamente argomentato con riguardo alle numerose istanze di ricusazione avanzate dal suddetto;

11) nessuna norma, contrariamente all’assunto, esclude la possibilità di intraprendere azioni risarcitorie contro i singoli componenti dei collegi disciplinari;

12) l’assenza di un sistema obbligatorio di responsabilità civile dei medesimi non rileva in nessun modo, con riguardo alla presunta lesione del diritto di difesa;

13) il motivo, che richiama vagamente la violazione di tutti i diritti fondamentali, è del tutto aspecifico;

b2) quanto alle ulteriori sedici doglianze:

14) correttamente il consiglio distrettuale di disciplina di Bologna ha disatteso l’istanza di rimessione ex art. 45 c.p.p., non essendo l’istituto applicabile al procedimento amministrativo innanzi a detto consiglio;

15) le istanze di ricusazione presentate innanzi al consiglio distrettuale di Bologna sono state giustamente reputate inammissibili, onde il motivo proposto innanzi al C.N.F. è manifestamente infondato: invero, le quattro istanze di ricusazione, proposte dal ricorrente nei confronti del consiglio distrettuale di disciplina di Bologna, nonchè le ulteriori avanzate in tre udienze nei mesi di novembre e dicembre 2017, hanno avuto sufficiente risposta nelle declaratorie di inammissibilità ivi assunte, essendo state proposte genericamente nei confronti dell’intero collegio;

16) l’allegata mancata concessione dell’ulteriore rinvio, come pure l’omessa fonoregistrazione dell’udienza innanzi al consiglio distrettuale di disciplina di Bologna e la mancata verbalizzazione delle esternazioni del relatore circa le dichiarazioni della teste (collega delegata dal ricorrente per la partecipazione alle udienze) non sono elementi tali da poter in nessun modo incidere sulla responsabilità dell’incolpato, ampiamente provata;

17) infondata è la censura sul difetto di rappresentanza in capo al dipendente dell’ASL di Ravenna, che diede origine al procedimento disciplinare, dal momento che l’esposto fu sottoscritto dal direttore dell’azienda, ed essendo l’azione disciplinare comunque officiosa;

18) la condanna è stata esattamente correlata al capo di incolpazione, mentre l’errata menzione di norme non sussiste, nessuna nullità essendo in ogni caso prospettabile quando l’incolpato, come nella specie, sia stato reso edotto del fatto addebitato e posto nella condizione di difendersi;

19) il motivo, con il quale l’incolpato insisteva sulla circostanza che il fascicolo di studio, consegnato alla sostituta per l’udienza, contenesse anche la risposta della ASL Romagna da produrre in giudizio, non prodotta per esclusivo errore della collega, non è stato ritenuto formulato quale idoneo motivo specifico di impugnazione;

20) il motivo, con il quale l’incolpato insisteva sulla circostanza alternativa, secondo cui la sostituta per l’udienza avrebbe mostrato al g.e. la risposta della ASL Romagna, senza che, però, ciò fosse verbalizzato, prospetta fatti diversi e non verosimili, che non emergono dagli atti del processo esecutivo, dalle testimonianze e dai documenti in atti;

21) la tesi della responsabilità esclusiva della sostituta non ha trovato conferma probatoria, al contrario essendosi questa attenuta alle precise istruzioni ricevute; in ogni caso, l’art. 7 codice deontologico rende disciplinarmente responsabile il dominus anche per il fatto dei collaboratori e sostituti;

22) irrilevante che il g.e. non adottò nessun provvedimento contro l’istante per violazione dei doveri di verità e correttezza processuale, posto che il procedimento disciplinare è autonomo, restando responsabile l’avvocato che ometta di riferire al giudice un fatto storico che ha l’obbligo di riferire;

23) l’argomento secondo cui sarebbe stata proprio la ASL Romagna a non essere chiara sui fatti di causa, quanto all’appello comunque proposto pur dopo il pagamento della somma liquidata a suo carico, non è pertinente, perchè resta dovere dell’avv. Z. di non omettere l’esistenza della dichiarazione negativa del terzo, al cui esito ogni ulteriore valutazione sarebbe stata possibile;

24) nè la citata presunta condotta della ASL, nè le interpretazioni dell’art. 617 c.p.c., sono elementi rilevanti per il thema decidendum;

25) l’assenza della ASL all’udienza innanzi al g.e. per far valere la sua posizione non vale ad elidere la responsabilità dell’istante per avere celato al giudice la dichiarazione di terzo, dal medesimo ricevuta;

26-27-28) la sanzione comminata della sospensione per mesi due non è esorbitante, essendo stata stabilita sulla base di una istruttoria del tutto completa, atteso che il giudice del procedimento deontologico ha un ampio potere di valutare la conferenza e la rilevanza delle prove, secondo il suo libero convincimento: e, quando il collegio sia giunto all’accertamento completo dei fatti rilevanti, non determina nullità del provvedimento la mancata audizione di testimonianze ininfluenti; nella specie, vi è stato ampio esame di testimonianze e documenti, con procedimento inferenziale corretto, nè il giudice della deontologia ha l’obbligo di confutare esplicitamente tutte le tesi ed emergenze istruttorie disattese; ha aggiunto che l’illecito è a pena tipizzata edittale, ossia la sospensione da uno a tre anni dalla professione, ai sensi dell’art. 50 codice deontologico attuale: onde, piuttosto, il consiglio distrettuale ha applicato una sanzione attenuata a fattispecie in cui, al contrario, non vi erano ragioni di una riduzione;

29) come sopra, la condotta imputata dal ricorrente alla ASL in nessun caso varrebbe a mutare la sua posizione sul piano disciplinare.

Il C.N.F. ha, quindi, concluso:

– ritenendo pienamente provato che l’incolpato, all’udienza del 19 febbraio 2014, nel procedimento di espropriazione presso terzi innanzi al Tribunale di Ravenna, promosso quale creditore in proprio, omise di dichiarare al giudice dell’esecuzione di avere ricevuto la dichiarazione negativa del terzo ASL della Romagna e che, quale conseguenza di ciò, il giudice fissò un’udienza successiva, senza estinguere il procedimento; inoltre, a tale udienza del 18 giugno 2014 l’incolpato, nonostante l’assenza della ASL per un errore circa la data di udienza, omise ancora di produrre la dichiarazione negativa del terzo, inducendo così il giudice in errore ed ottenendo l’ordinanza di assegnazione del credito;

– rilevando che la violazione del dovere di correttezza fu contestata, nell’ambito del richiamo in incolpazione degli artt. 9 e 50 codice deontologico attuale;

– ravvisando la volontarietà del comportamento ascritto, nè potendo rilevare addirittura una eventuale buona fede dell’incolpato;

– considerando corretta la sanzione comminata, prevista sulla base del fatto complessivo e prevedendo l’art. 50 del codice la sospensione da uno a tre anni, tanto che, piuttosto, essa si palesa troppo lieve, in mancanza di ogni indicazione delle ragioni della riduzione operata dal consiglio distrettuale.

3. – Avverso questa sentenza è proposto ricorso per cassazione, sulla base di quindici motivi. Con il medesimo ricorso, il ricorrente ha sollecitato la sospensione della esecutorietà della sentenza impugnata.

La trattazione del ricorso è stata fissata per la pubblica udienza del 9 marzo 2021 ed è avvenuta in Camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione.

Il Procuratore generale ha presentato requisitoria per iscritto, chiedendo che il ricorso venga rigettato.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi del ricorso vanno come di seguito riassunti:

1) nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 158 c.p.c., essendo pervenuta la vocatio in ius dall’avv. Andrea Mascherin, mentre la sentenza, pubblicata il 6 novembre 2020 e comunicata il 7 novembre 2020, è stata emessa da un collegio comprendente quattro consiglieri, come il suddetto dichiarati ineleggibili dal Tribunale di Roma, dapprima con ordinanza cautelare del 13 marzo 2020 e poi con ordinanza definitoria del 25 settembre 2020, ad effetti retroattivi;

2) nullità della sentenza e di tutti gli atti, ai sensi dell’art. 159 c.p.c., essendo stato il decreto di citazione a giudizio emesso dall’avv. Andrea Mascherin;

3) nullità del procedimento, in quanto egli aveva chiesto, senza ottenerli, la copia dei verbali delle udienze del 12 dicembre 2029, 16 gennaio 2020, 18 gennaio 2020 – tutte rinviate per proprio impedimento – e dell’udienza di discussione del 15 febbraio 2020, con indicazione dei consiglieri che avevano partecipato alla seduta, onde egli ne ignora l’identità;

4) violazione o falsa applicazione degli artt. 158 e 161 c.p.c., essendo stata la decisione assunta con il concorso di quattro consiglieri dichiarati ineleggibili;

5) nullità del procedimento, in quanto egli aveva chiesto la fonoregistrazione del procedimento innanzi al consiglio distrettuale, senza ottenerla;

6) nullità della sentenza “per altre ragioni”, essendo egli stato incolpato di un illecito deontologico inesistente, laddove è stata mandata esente da censure la sua sostituta di udienza, avv. Alexia Gugliotta, che con la sua inettitudine e le sue false dichiarazioni ha creato il problema in questione;

7) “nullità del procedimento avanti al CDD per non aver ammesso le verbalizzazioni. L’avv. Z.C. chiese anche che fosse appellata la PG. Gli fu rifiutato”;

8) errata sussunzione della vicenda negli artt. 50 e 14 c.d.f., rispettivamente vigente e pregresso, in quanto la ricostruzione in fatto, operata dalla sentenza impugnata, diverge dalla realtà e non corrisponde ai fatti reali, non avendo egli affatto reso una dichiarazione menzognera, e dovendo, semmai, rimarcarsi che ad errare fu solo il giudice dell’esecuzione, il quale, dopo aver letto la dichiarazione dell’ASL, non ne trasse le dovute conseguenze;

9) errata applicazione della norma sopravvenuta dell’art. 50 codice deontologico attuale in luogo di quella di cui all’art. 14 codice previgente, dove non vi era una tipizzazione delle sanzioni, mentre la L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5, richiede l’applicazione della norma più favorevole;

10) violazione dell’art. 6 codice deontologico precedente, in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione impugnata, non sussisteva una violazione del dovere di correttezza ed avendo il C.N.F. ritenuto validamente contestata anche tale violazione; inoltre, il C.N.F. non ha considerato la scorrettezza della ASL, che nella sua dichiarazione di terzo aveva omesso di precisare l’avvenuto appello alla sentenza, onde semmai avrebbe dovuto essere sanzionato il funzionario della medesima;

11) “violazione di norme UE; primautè del diritto Europeo”, come chiarito specialmente da Corte Cost. n. 169 del 2006, n. 284 del 2007, nn. 348 e 349 del 2007, n. 102 del 2008n. 28 del 2010, n. 227 del 2010, n. 298 del 2011, n. 306 del 2011, ed altre: infatti, i giudici del CDD non sono tali, mancando ogni loro imparzialità ed indipendenza;

12) violazione dell’art. 45 c.p.p. e L. n. 247 del 2012, art. 59, lett. n), per avere la sentenza impugnata ritenuto inapplicabile l’istituto della rimessione, necessaria per la particolare situazione ambientale del CDD felsineo;

13) “sul legittimo impedimento dell’avv. Z.C.”, in quanto egli aveva diritto al rinvio dell’udienza del 15 febbraio 2020;

14) “non aver consentito l’audizione dell’avv.ssa Al. Gu.”; il motivo lamenta, nel suo corpo, anche la mancata escussione del soggetto autore, per la ASL, dell’esposto disciplinare, non sottoposto al controesame;

15) “per aver ritenuto attendibile l’avv.ssa Al. Gu. unica responsabile”: questa collaborava con lo studio Z., ma dopo anni si era deciso di separarsi, ed ella aveva omesso di produrre la dichiarazione della ASL innanzi al g.e., secondo il mandato invece ricevuto.

A ciò, il ricorrente aggiunge una richiesta di “rimessione alla Corte costituzionale ed alla Corte di giustizia” con riguardo all’intero sistema della giustizia disciplinare, che violerebbe l’art. VI disp. trans. Cost., perchè sono vietate le c.d. giurisdizioni domestiche, il consiglio distrettuale di Bologna non è un organo giurisdizionale, ma amministrativo ed impedendo il regolamento di questo il “controesame” dell’accusatore.

2. – Il motivo undicesimo, assieme all’istanza di rimessione della causa per questioni di pregiudizialità comunitaria o di costituzionalità, va trattato innanzi agli altri per la sua priorità logica, ed è manifestamente infondato.

Al riguardo, giova richiamare le pronunce del giudice delle leggi, le quali hanno statuito in via generale sulle giurisdizioni professionali, riconoscendo natura giurisdizionale a quelle, come il C.N.F., anteriori alla Costituzione repubblicana, per il corretto esercizio della funzione di giurisdizione affidata al suddetto organo in materia deontologica, con riguardo ai parametri della indipendenza del giudice e della imparzialità dei giudizi (Corte Cost. 23 dicembre 1986, n. 284; e già n. 128 del 1974; n. 73 del 1970; n. 114 del 1970).

Del pari, queste Sezioni unite hanno ritenuto la devoluzione al consiglio nazionale forense, quale organo di giurisdizione speciale, delle controversie in materia di sanzioni disciplinari manifestamente non in contrasto con gli artt. 25,102,103,104 e 113 Cost., trattandosi di giurisdizione speciale ad essa preesistente, la cui sopravvivenza è prevista dalla sesta disposizione transitoria della carta fondamentale. Invero, si è rilevata la manifesta infondatezza, con riferimento all’art. 108 Cost., della questione di legittimità costituzionale delle norme che regolano il funzionamento del Consiglio nazionale forense, quale organo giurisdizionale specie in materia disciplinare: osservandosi, al riguardo, come le norme che lo regolano (R.D. 22 gennaio 1934, n. 382 ed R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, artt. 59 e segg.), laddove disciplinano la nomina dei componenti del consiglio nazionale forense e il procedimento che davanti al medesimo si svolge in materia disciplinare nei confronti dei professionisti iscritti al relativo ordine, assicurano, per il metodo elettivo della prima e per le sufficienti garanzie difensive proprie del secondo, il corretto esercizio della funzione di giurisdizione al suddetto organo in tale materia.

Infatti, il Consiglio nazionale forense, allorchè pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale, istituito con D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 382 e legittimamente operante, giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; le norme che lo concernono, nel disciplinare la nomina dei componenti dello stesso ed il procedimento che innanzi ad esso si svolge, assicurano, per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M., il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa e all’indipendenza del giudice, che consiste nella autonoma potestà decisionale non condizionata da interferenze, dirette o indirette, di qualsiasi provenienza: ne consegue che la disciplina della funzione giurisdizionale del C.N.F., quale giudice terzo, è coperta dall’art. 108 Cost., comma 2 e dall’art. 111 Cost., comma 2 (cfr.: Cass., sez. un., 10 luglio 2017, n. 16993, in motiv.; Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 12064; Cass., sez. un., 16 gennaio 2014, n. 775; Cass., sez. un., 5 dicembre 2013, n. 27268; Cass., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11833; Cass., sez. un., 13 luglio 2010, n. 16349; Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6213; Cass., sez. un., 22 luglio 2002, n. 10688; Cass., sez. un., 7 febbraio 2002, n. 1732; Cass., sez. un., 10 gennaio 1992, n. 185; Cass. 26 marzo 1981, n. 1750).

Si è aggiunto, condivisibilmente, che sul requisito dell’indipendenza neppure influisce la circostanza che i componenti del Consiglio nazionale forense appartengano all’ordine di professionisti nei confronti dei quali il detto organo deve esercitare le sue funzioni, poichè il tratto caratteristico della c.d. giurisdizione professionale è dato proprio dalla vasta partecipazione – anche indiretta tramite il sistema elettivo, garanzia di per se stesso della democraticità del sistema e costituzionalmente legittimo (cfr. art. 106 Cost., comma 2) – dei medesimi soggetti appartenenti alla categoria interessata, partecipazione che è giustificata dalla specifica idoneità dei singoli componenti il collegio a pronunziarsi nella materia disciplinare, attinente alle regole di deontologia professionale che l’Ordine ha ritenuto di dare a se stesso ed ai propri appartenenti (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 12064).

Infine, è stato già precisato come non esista una norma comunitaria, dalla quale dedurre l’abrogazione dei consigli professionali (Cass., sez. un., 7 febbraio 2002, n. 1732).

Tali conclusioni, si noti, pur quando attenevano al sistema di cui alla precedente legge professionale, sono state assunte all’esito dell’esame di censure similari, concernenti l’essere il C.N.F. quale giurisdizione speciale privo di investitura costituzionale, la presunta mancanza di indipendenza dei membri perchè elettivi ed il preteso contrasto con la legislazione comunitaria.

Il preteso difetto di terzietà, dunque non sussiste: in contrario non valendo richiamare, come invece opina il ricorrente, nè le sentenze del giudice delle leggi che hanno affermato il primato del diritto comunitario – primato che non viene affatto in discussione nè la decisione della Corte Europea diritti dell’uomo 28 aprile 2009, Savino c. Gov. Italia (ric. 17214/05, 20329/05, 42113/04), in cui si verteva sull’istituto dell’autodichia della camera dei deputati e dove la Cedu ha ritenuto legittima la giurisdizione domestica della camera dei deputati in relazione alle controversie di lavoro con i propri dipendenti, con riguardo alla precostituzione per legge, riscontrando invece l’assenza d’imparzialità c.d. oggettiva della sezione giurisdizionale dell’ufficio di presidenza, organo di appello nel contenzioso parlamentare, in quanto essa, per la sua composizione, comportava una commistione negli stessi soggetti tra funzioni amministrative e giurisdizionali.

Non così nel giudizio disciplinare innanzi al C.N.F., dove non si verifica nessuna violazione dell’art. 111 Cost., sotto il profilo del difetto di terzietà, in quanto le norme che disciplinano la nomina dei componenti del C.N.F. ed il procedimento di disciplina dei professionisti iscritti al relativo ordine offrono sufficienti garanzie con riguardo all’indipendenza del giudice ed alla imparzialità dei giudizi, nè rilevando la circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative: invero, come evidenziato dalla Corte costituzionale (cfr. Corte Cost. 23 dicembre 1986, n. 284, cit.), non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (cfr. già Cass., sez. un., 16 gennaio 2014, n. 775; Cass., sez. un., 3 maggio 2005 n. 9097).

Quanto ai consigli locali dell’ordine degli avvocati, essi, come da tempo chiarito, esercitano funzioni amministrative e non giurisdizionali, anche quando operano in materia disciplinare, donde il richiamo agli artt. 24,102 e 111 Cost., non è pertinente per i consigli degli ordini territoriali, divenendo la questione di legittimità costituzionale sollevata al riguardo manifestamente inammissibile, per la non pertinenza dei parametri invocati, posto che la natura amministrativa del procedimento non consente l’applicazione delle disposizioni in materia d’incompatibilità proprie dei giudizi che si svolgono dinanzi agli organi della giustizia ordinaria o amministrativa (e pluribus, Cass., sez. un., 27 ottobre 2020, n. 23593; Cass., sez. un., 5 ottobre 2007, n. 20843; Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 138; Cass., sez. un., 3 maggio 2005, n. 9097; Cass., sez. un., 23 marzo 2005, n. 6213; Cass., sez. un., 1 aprile 2004, n. 6406; Cass., sez. un., 22 luglio 2002, n. 10688).

Con la riforma professionale forense del 2012, il potere disciplinare è stato devoluto ai consigli distrettuali di disciplina, composti da membri eletti su base capitaria e democratica (art. 50 l.p.f.) e costituiti presso il consiglio dell’ordine degli avvocati (art. 1 reg. disc.). Il consiglio distrettuale, insediato col sistema elettorale introdotto dal regolamento 31 gennaio 2014, n. 1, agisce in piena indipendenza di giudizio e autonomia organizzativa e operativa (art. 2 reg. disc.), così costituendo un organo avente compiti suoi propri; esso è attivato dal Coa, che riceve un esposto, una denuncia o una notifica di rilievo disciplinare (art. 11 reg. disc.). Si è, quindi, concluso che l’organo distrettuale di disciplina ha una funzione sicuramente amministrativa, ma di natura giustiziale, anche se non giurisdizionale, caratterizzata da elementi di terzietà valorizzati sia dal peculiare sistema elettorale, sia dalle specifiche garanzie d’incompatibilità, astensione e ricusazione (art. 3 reg. elett.; artt. 6-9 reg. disc.). Dunque, a marcare la diversità dell’attuale assetto disciplinare e processuale è proprio l’alterità organica tra il consiglio di disciplina distrettuale, detentore del potere disciplinare, e il Coa, portatore dell’interesse collettivo dell’ordine locale: laddove, nella previgente l.p.f., il Coa sommava i due ruoli con i relativi riflessi processuali (Cass., sez. un., 10 luglio 2017, n. 16993). La terzietà ed imparzialità caratterizza anche i consigli distrettuali di disciplina, nonostante la loro natura amministrativa (cfr. Cass., sez. un., n. 24896 del 2020,n. 34476 del 2019, n. 16993 del 2017).

3. – I motivi primo, secondo e quarto possono essere trattati congiuntamente, per la loro intima connessione.

La sentenza impugnata è stata decisa il 15 febbraio 2020 e depositata il 6 novembre 2020, laddove il Tribunale di Roma, dapprima con provvedimento cautelare del 13 marzo 2020 e poi con ordinanza del 25 settembre 2020, ha dichiarato ineleggibili quattro fra i componenti il collegio del C.N.F. che ha pronunciato la sentenza stessa.

Sostiene il ricorrente che, avendo tale declaratoria effetti retroattivi, ne deriverebbe la nullità della sentenza disciplinare.

L’assunto non è fondato.

3.1. – La L. n. 247 del 2012, art. 34, comma 1, disciplina il limite dei mandati per i componenti del Consiglio nazionale forense.

Ai sensi della L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, comma 3 (disposizioni sull’elezione dei componenti dei consigli degli ordini circondariali forensi) e del D.L. 14 dicembre 2018, n. 135, art. 11-quinquies (disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione), nel testo introdotto in sede di conversione dalla L. 13 febbraio 2019, n. 12, l’ineleggibilità dell’avvocato al consiglio dell’ordine ne comporta la decadenza, con effetto ex tunc (cfr. Cass., sez. un., 24 novembre 2011, n. 24812; nonchè, in tema di contenzioso elettorale relativo agli albi professionali degli ingegneri, Cass. 4 settembre 2019, n. 22090, e Cass. 27 agosto 2019, n. 21720, non massimata; in tema consiglio nazionale dell’ordine degli architetti, Cass. 12 aprile 2019, n. 10347).

La ratio dell’istituto del limite all’accesso alla carica elettiva, con il divieto del terzo mandato consecutivo, posto dalla L. 12 luglio 2017, n. 113, art. 3, comma 3, secondo periodo – ma estensibile alla previsione di ineleggibilità relativa alla elezione dei componenti del Consiglio nazionale forense, attesa la portata generale del principio nell’ambito degli ordinamenti professionali – è funzionale a favorire “il fisiologico ricambio all’interno dell’organo, immettendo “forze fresche” nel meccanismo rappresentativo”: in sintesi, il giudice delle leggi ha identificato il fondamento del divieto di terzo mandato consecutivo, in bilanciamento col valore dell’elettorato attivo e passivo, nell'”obiettivo antagonista del ricambio e dell’avvicendamento” (Corte Cost. 10 luglio 2019, n. 173).

La natura giurisdizionale del procedimento disciplinare davanti al consiglio nazionale forense (cfr. Cass., sez. un., 24 gennaio 2019, n. 2084; Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 12064; Cass. 29 settembre 2015, n. 19246) induce, pertanto, ad indagare intorno alle situazioni in tale prospettiva assimilabili, in particolare quanto ad organi giurisdizionali di natura elettiva, allorchè un componente decada o cessi per qualsiasi causa dall’incarico dopo l’assunzione della decisione.

Si deve sin d’ora rilevare che, attesa la funzione giurisdizionale svolta dal C.N.F., una volta dichiarati ineleggibili tutti od alcuni dei componenti che abbiano partecipato alla decisione, questa, ove già pubblicata, resta a regolare la vicenda; mentre allorchè la decisione sia stata assunta dal collegio, ma non ancora depositata, il presidente ed il segretario mantengono il potere-dovere di provvedere alle debite sottoscrizioni, ai fini della pubblicazione della decisione resa. Ciò, in virtù del principio di conservazione degli atti, in particolare giurisdizionali.

3.2. – Ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 44, sull’ordinamento della professione di avvocato, “Le deliberazioni del Consiglio nazionale e quelle dei Consigli dell’ordine locali sottoscritte dal presidente o dal segretario, sono pubblicate mediante deposito dell’originale negli uffici di segreteria”.

Con riferimento alle deliberazioni in materia disciplinare, il R.D. 37 del 1934, art. 51, dispone, quanto al consiglio distrettuale, che “La decisione è redatta dal relatore e deve contenere la esposizione dei fatti, i motivi sui quali si fonda, il dispositivo, l’indicazione del giorno, del mese e dell’anno in cui è pronunziata e la sottoscrizione del presidente e del segretario. Essa è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici di segreteria”.

Del pari, il R.D. n. 37 del 1934, art. 64, richiede che le decisioni del Consiglio nazionale forense, redatte dal relatore, siano munite della “sottoscrizione del presidente e del segretario” e siano “pubblicate mediante deposito dell’originale nella segreteria del Consiglio”.

Tali norme hanno carattere di specialità rispetto alla disposizione dell’art. 132 c.p.c., comma 3, in quanto appunto le deliberazioni del C.N.F. sono sottoscritte dal presidente e segretario, e non anche dal relatore; nè ciò determina un contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost. (Cass., sez. un., 1 agosto 2012 n. 13797; Cass., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11833, in motivazione).

Dunque, le decisioni dei Consigli degli ordini degli avvocati e procuratori debbono essere sottoscritte dal presidente e dal segretario che hanno partecipato alla seduta, la cui data risulta nel corpo della decisione, onde resta irrilevante, ad esempio, lo stesso cambiamento della composizione del consiglio, al momento della pubblicazione della decisione (Cass., sez. un., n. 4192 del 1978).

Tanto è indispensabile la sottoscrizione, con successivo deposito per la pubblicazione, dei medesimi componenti decidenti, che si è già ritenuto (Cass., sez. un., 7 novembre 2016, n. 22516) come, in tema di provvedimenti disciplinari a carico degli avvocati, la decisione sottoscritta, in qualità di presidente e segretario del consiglio dell’ordine, da persone diverse, benchè componenti del collegio, da quelle ricoprenti tali cariche alla data della sua deliberazione risultante dal corpo della stessa, è nulla.

Per il giudice disciplinare forense, queste Sezioni unite hanno già ritenuto come, ai fini della regolare costituzione del giudice, assuma rilevanza il momento della deliberazione della decisione: onde la designazione di un membro del Consiglio nazionale forense non è stata reputata travolta dall’annullamento di elezioni ordinistiche territoriali, in quanto il carattere retroattivo degli effetti derivanti dal predetto annullamento trova un limite nel generale principio di conservazione degli atti. Ai fini della regolare costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., dunque, “è il momento della pronuncia della sentenza quello nel quale il membro deve essere legittimamente preposto all’organo giudicante perchè questo possa adottare una decisione giuridicamente esistente”, ossia “nei collegi giudicanti, tale momento va identificato con il momento della deliberazione della decisione” (Cass., sez. un., 26 settembre 2017, n. 22358).

Di recente, anche per il caso analogo al presente – in cui la sentenza del C.N.F. è stata deliberata prima, ma depositata dopo il provvedimento di caducazione delle elezioni – queste Sezioni unite (Cass., sez. un., 4 marzo 2021, n. 6002) hanno affermato il principio del dovere di sottoscrizione della sentenza, salvo impedimento assoluto del giudicante. In tale occasione è stato, invero, ribadito il principio secondo cui il momento della pronuncia della sentenza, nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all’ufficio per potere adottare un provvedimento giuridicamente valido, va identificato con quello della deliberazione della decisione collegiale, laddove le successive fasi dell’iter formativo dell’atto, e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia. Ne consegue che anche un giudice che ha cessato di essere titolare dell’organo deliberante può redigere la motivazione della sentenza e sottoscriverla.

Al riguardo, valga il richiamo di un principio più generale, affermato in riferimento alla sottoscrizione della sentenza da parte del magistrato decaduto (Cass. 30 novembre 2012, n. 21437), collocato a riposo successivamente alla deliberazione (cfr. Cass. 4 novembre 2014, n. 23423; Cass. 11 maggio 2012, n. 7269; Cass. 29 ottobre 2002, n. 15249), in ferie (Cass. 19 novembre 1968 n. 3762) o trasferito ad altro ufficio giudiziario dopo la deliberazione (Cass. 29 marzo 1996 n. 2911 e 7 gennaio 1966 n. 131), in quanto la sottoscrizione va comunque apposta, perchè solo un insuperabile impedimento potrebbe escludere tale potere-dovere.

Le Sezioni Unite intendono dare ulteriore continuità a questo principio: dunque, ciò vale a ribadire che resta ferma, a fortiori, nel caso di specie la decisione impugnata del C.N.F., assunta il 15 febbraio 2020, la quale doveva completare il proprio iter normativo mediante le debite sottoscrizioni e la pubblicazione.

3.3. – L’esito raggiunto trova ulteriore conferma nel più generale principio di conservazione degli atti giurisdizionali.

Giova ricordare come, nel diritto amministrativo, lo strumento giuridico utilizzato per la salvezza e conservazione degli atti emessi in situazione di carenza d’investitura formale sia il c.d. funzionario di fatto.

Com’è noto, la teoria del cosiddetto “funzionario di fatto” consiste nel riconoscimento della legittimità dell’esercizio delle funzioni e degli atti emessi da un organo o un soggetto, pur in mancanza di una regolare investitura. Essa trova applicazione per l’esercizio di funzioni essenziali o indifferibili, onde gli atti adottati dal funzionario di fatto conservano valore giuridico, per il principio di conservazione dei valori giuridici e di tutela dell’affidamento, fino al momento, però, in cui sia pronunciata la nullità o l’annullamento dell’atto di investitura (Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2019, n. 5985; Cons. Stato, sez. V, 6 novembre 2017, n. 5092, sul dirigente comunale; Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2015, n. 1782; Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2015, n. 2116; Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 1999, n. 749; Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 1999, n. 853).

Dunque, per il principio del “funzionario di fatto”, allorquando la nomina di un soggetto ad organo della p.a. sia illegittima e venga pertanto annullata, ciò nondimeno gli atti medio tempore adottati da tale soggetto restano efficaci, essendo di norma irrilevante verso i terzi il rapporto in essere fra la p.a. e la persona fisica dell’organo che agisce: salva, però, la possibilità d’impugnazione da parte di chi vanti uno specifico interesse.

Anche con riguardo agli organi elettivi, si è sostenuta l’applicabilità della figura (Cons. Stato, sez. III, 19dicembre 2012, n. 6534, sull’ineleggibilità del consigliere comunale; Cons. Stato, sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3070, sulla elezione del consiglio dell’ordine degli avvocati; T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 13 ottobre 1982, n. 374).

Quindi, nell’ambito del diritto amministrativo dove la figura è sorta, le esigenze di continuità nel servizio e di tutela dell’affidamento dei terzi hanno indotto la giurisprudenza a ravvisare una certa stabilità di effetti, a date condizioni: quando il soggetto abbia, di fatto, svolto la funzione involgendo diritti di terzi, interessati a conservarne gli effetti, la caducazione dell’atto di investitura – con effetto dichiarativo o costitutivo – lascia permanere i medesimi, a fini di certezza del diritto e protezione delle posizioni quesite.

3.4. – Anche in altri settori dell’ordinamento vale il principio della stabilità degli effetti degli atti compiuti, pur quando il soggetto abbia agito in carenza di conferimento di poteri.

Nell’ambito del diritto delle società, tale è la situazione dell’amministratore c.d. di fatto, il quale è privo di una valida Delibera di nomina: ciononostante, l’art. 2384 c.c., al pari dell’art. 2475-bis c.c., rende inopponibile al terzo, anche di mala fede, la carenza di investitura, salvo che quegli non abbia intenzionalmente agito in danno della società.

Nel confronto con il principio generale di cui all’art. 1396 c.c., dettato in tema di rappresentanza di tutti i soggetti e per tutte le obbligazioni, si nota dunque come gli artt. 2384 e 2475-bis c.c., sanciscano lo speculare criterio dell’inopponibilità, salvo il dolo che rende il terzo non più meritevole di tutela: rilevandosi il massimo rilevo conferito alla tutela della sicurezza e rapidità delle contrattazioni, sacrificando all’interesse generale quello della singola società (la quale, comunque, dal principio dell’inopponibilità riceve a sua volta un vantaggio indiretto).

3.5. – Orbene, la funzione giurisdizionale non è assimilabile, quanto ai compiti ed agli interessi coinvolti, nè a quella di un funzionario amministrativo, con l’esigenza di stabilità di esplicazione degli atti amministrativi ampliativi, nè a quella di un organo amministrativo societario, con l’interesse primario alla stabilità degli atti sul mercato dei capitali.

Le caratteristiche proprie degli interessi perseguiti, l’esigenza di tener fermi gli atti compiuti e la finalità di assolvere ad un servizio essenziale comportano, peraltro, l’analoga salvezza delle pronunce deliberate, nonostante l’impugnazione del provvedimento giurisdizionale e la sottoposizione, al giudice superiore, della censura relativa al vizio di costituzione del giudice.

Se, quindi, il principio del funzionario di fatto, proprio degli atti amministrativi, non è di per sè trasponibile nell’ambito dell’attività giurisdizionale – non potendo ad un collegio giudicante, elettivo o no, applicarsi in toto tale figura, allorchè uno o alcuni dei suoi membri abbiano cessato o siano decaduti dalla carica per la sopravvenuta declaratoria di ineleggibilità – l’ordinamento non permette la caducazione dei provvedimenti giurisdizionali assunti dal soggetto dichiarato ineleggibile.

Così come in ipotesi di ineleggibilità di un componente del Csm, che abbia partecipato alla sezione disciplinare, o di un giudice costituzionale cui difettassero i requisiti di eleggibilità o di nomina, oppure, ancora, nel caso in cui un magistrato abbia ricoperto un ufficio previa nomina consiliare successivamente annullata dal giudice amministrativo in via definitiva, anche nella vicenda in esame deve ritenersi che l’atto giurisdizionale compiuto resti fermo ed inattaccabile, non avendo l’annullamento o la declaratoria d’ineleggibilità – a tali fini – effetto retroattivo.

Al riguardo, la Corte costituzionale ha rimarcato, in particolare, “l’indefettibilità e la continuità della funzione disciplinare” (nella specie, della sezione disciplinare del Csm: Corte Cost. 22 luglio 2003, n. 262).

Ancora, con una recente pronuncia (Corte Cost. 17 marzo 2021, n. 41, in tema di magistratura onoraria, la quale richiama il precedente di Corte Cost. 9 marzo 1988, n. 266, sulla magistratura militare), il giudice delle leggi ha richiamato l’esigenza di evitare ogni “pregiudizio all’amministrazione della giustizia e quindi alla tutela

giurisdizionale, presidio di garanzia i ogni diritto fondamentale”.

Si pensi altresì all’ipotesi copie citate e più frequente delle altre menzionate e quindi di migliore intelligibilità, di annullamento di una nomina operata dal Csm: ove non perciò solo sono automaticamente nulli e viziati tutti gli atti giudiziari compiuti. Al contrario, anche quando il magistrato fosse stato illegittimamente nominato, ciò non comporta di per sè la nullità di nessun atto (istruttorio o decisorio, decreto ordinanza o sentenza, rinvio a giudizio, partecipazioni del p.m. all’udienza, ecc.) compiuto dal magistrato stesso. Non solo, perchè anche qualora, in ottemperanza del dictum amministrativo, il Csm dovesse tornare sulla sua decisione, effettivamente sottraendo la carica al soggetto non avente diritto, non ne risulterebbero diverse conclusioni, quanto alla sorte degli atti da quello compiuti.

Dunque, il principio generale è che l’invalidità della nomina, pur dichiarata, non fa venir meno gli atti compiuti, che restano validi. Conclusione basata sull’indifferenza, per il sistema giudiziario, dell’attribuzione del posto ricoperto ad uno o all’altro giudicante: salve le fattispecie di parzialità del giudizio (cfr. i casi di astensione o revocazione straordinaria di cui all’art. 395 c.p.c., n. 6), ogni magistrato è presunto imparziale, anche in presenza di una nomina viziata.

3.6. – Quanto esposto, infine, vale tanto più nella delibazione del secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente si duole della nullità della sentenza, essendo stato il decreto di citazione a giudizio emesso dall’avv. Andrea Mascherin, anch’egli dichiarato decaduto per ineleggibilità, nei tempi e nei modi sopra ricordati.

L’atto de quo, sebbene emesso da candidato in seguito risultato illegittimamente insediato, resta valido, non potendo vanificarne gli effetti la successiva dichiarazione di invalidità della elezione.

4. – Il terzo ed il quinto motivo, nonchè i motivi dal tredicesimo al quindicesimo sono inammissibili, il terzo essendo, in parte, altresì infondato.

4.1. – Nel terzo motivo, il ricorrente deduce la nullità del procedimento per mancata ostensione dei verbali per le udienze di mero rinvio del 12 dicembre 2019, 16 gennaio 2020 e 18 gennaio 2020, nonchè dell’udienza di discussione del 15 febbraio 2020.

Il motivo viene formulato al fine di lamentare che, in tal modo, egli non fu posto in condizione di conoscere quali consiglieri avessero partecipato alla seduta.

Tuttavia, mentre con riguardo alle prime tre udienze di mero rinvio – sempre chiesto ed ottenuto per il proprio impedimento a presenziarvi – neppure vi è valida deduzione delle ragioni per cui egli sarebbe stato privato o compromesso nel suo diritto di difesa, anche tenuto conto della ordinaria facoltà di accesso al fascicolo del procedimento disciplinare, onde il motivo è al riguardo inammissibile (Cass. 6 marzo 2019, n. 6518; Cass. 16 febbraio 2018, n. 3805; Cass. 18 dicembre 2014, n. 26831; Cass. 19 marzo 2014, n. 6330), con riguardo alla quarta udienza, in cui la causa fu discussa, la doglianza è speciosa, atteso che i componenti risultano enunciati in sentenza, nè si allega nemmeno che così non sia stato; mentre, ove il motivo, sul punto non perspicuo, intenda dolersi della mancata previa comunicazione dei componenti presenti un udienza, lo stesso è infondato, neppure menzionando il disposto normativo che tale adempimento imponga.

4.2. – Il quinto motivo è inammissibile, avendo il ricorrente lamentato di non aver ottenuto la fonoregistrazione del procedimento innanzi al consiglio distrettuale, senza prospettare nè la fonte del preteso diritto, nè la minima compromissione del suo generale diritto di difesa.

4.3. – Inammissibili il tredicesimo, il quattordicesimo ed il quindicesimo motivo – tutti volti a dolersi di pretese violazioni processuali (non avendo egli ottenuto la quarta udienza di mero rinvio, non essendo stati sentiti dei testi ed avendo il giudice di merito ritenuto attendibile, invece, la deposizione della collega dell’incolpato) – perchè violano il principio di specificità ex art. 366 c.p.c. e difetta in essi qualsiasi indicazione di un pregiudizio al diritto di difesa.

Giovi ricordare, quanto al preteso impedimento a partecipare all’udienza, che, come da tempo chiarito, la partecipazione all’udienza costituisce una libera scelta, mentre la mancata partecipazione comporta una lesione del diritto di difesa dell’incolpato solo se determinata da un impedimento a comparire dalle caratteristiche tali, da non risolversi in una mera difficoltà di presenziare all’udienza nella data stabilita (Cass., sez. un., 28 febbraio 2020, n. 5596; Cass. civ., sez. un., 10 dicembre 2001, n. 15607).

Mentre va ribadito che la scelta di sentire o no i testimoni, ed ancor più reputarli attendibili, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito: la riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti costituendo, invero, un potere tipicamente discrezionale del medesimo, esercitabile anche nel corso dell’espletamento della prova, potendo il giudice non esaurire l’esame di tutti i testimoni ammessi qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova, con giudizio che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente motivato anche per implicito dal complesso della motivazione (Cass. 9 giugno 2016, n. 11810; Cass. 22 aprile 2009, n. 9551).

5. – Il sesto, il settimo ed il decimo motivo sono, per la loro stessa formulazione, inammissibili, attesa l’inadeguata tecnica di redazione e la completa genericità.

E’ invero noto che i motivi del ricorso per cassazione devono essere formulati, secondo i principi consolidati enunciati da questa Corte, in modo che essi rientrino in una delle figure dell’art. 360 c.p.c., essendo il ricorso per cassazione ancorato rigidamente ad uno dei cinque vizi del provvedimento impugnato, cui ciascuna doglianza deve poter essere agevolmente ricondotta; ogni motivo deve essere autosufficiente, ossia intellegibile da solo, senza il ricorso ad elementi esterni.

Il ricorrente, quindi, ha l’onere di indicare puntualmente, a pena di inammissibilità, le norme asseritamente violate e l’esatto capo della pronunzia impugnata, prospettando altresì le argomentazioni intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, siano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie, secondo l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni (e multis, Cass., sez. un., n. 25392/2019; Cass. n. 287/2016; Cass. n. 16760/2015; Cass. n. 635/2015; Cass. n. 26307/2014; Cass. n. 16038/2013; Cass. n. 22348/2007; Cass. n. 5353/2007; Cass. n. 4178/2007; Cass. n. 828/2007); ove rilevanti, inoltre, vanno indicati anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione, ai fini di consentire alla Corte la corretta sussunzione del fatto nelle norme che si assumono violate o erroneamente applicate (Cass. n. 16872/2014; Cass. n. 15910/2005).

In particolare, quanto al decimo motivo, esso, nell’allegare una pretesa scorrettezza della stessa ASL, resta equivoco per tutto il suo argomentare, non comprendendosi neppure se il ricorrente lamenti la mancata contestazione di un illecito o la mancanza di una condotta scorretta.

Resta che, al riguardo, la valutazione disciplinare non potrebbe essere in sè condizionata, come osserva il P.G., dalla mancata adozione di sanzioni adopera del giudice del processo, in cui l’illecito disciplinare si è realizzato.

6. – L’ottavo motivo è in parte infondato, laddove lamenta una errata sussunzione, ed in parte inammissibile, in quanto deduce questioni di fatto, insistendosi su di una diversa ricostruzione della vicenda.

Da un lato, la sussunzione operata è corretta, rientrando la vicenda nella fattispecie menzionata, data la contestazione svolta relativa all’omessa comunicazione al giudice dell’esecuzione circa la negativa dichiarazione del terzo ed il difetto di correttezza in ciò implicato.

Dall’altro lato, così come articolata, la doglianza del ricorrente, nel contestare la persuasività del convincimento fondato dal giudice disciplinare sull’esame delle risultanze probatorie e nel contrapporvi la propria tesi difensiva, finisce per attingere il piano della sufficienza motivazionale, ciò che non è più ammesso nel regime di sindacato minimale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 novellato (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053; e, quindi, es. Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558; Cass., sez. un., 31 dicembre 2018, n. 33679).

7. – Il nono motivo lamenta l’applicazione dell’art. 50 del codice deontologico attuale, in vigore dal 16 dicembre 2014, in luogo dell’art. 14 codice previgente, approvato dal C.N.F. il 17 aprile 1997, il quale non tipizzava le sanzioni ed era, dunque, più favorevole, mentre la L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5, prevede il principio del favor rei.

Deduce il ricorrente che il C.N.F., in punto di applicazione della sanzione, avrebbe errato ad applicare il nuovo codice deontologico, che all’art. 50, prevede la sanzione della sospensione da uno a tre anni, in luogo di quelle vigenti al momento del fatto, che non tipizzavano la sanzione applicabile e, dunque, si palesavano più favorevoli.

La sentenza impugnata, al riguardo, ha ritenuto che la sanzione comminata, consistente nella sospensione dalla professione per due mesi, non fosse affatto eccessiva, attesa la gravità dei fatti addebitati, aggiungendo che si trattava di un illecito a pena tipizzata edittale ex art. 50 codice deontologico attuale: ed ha concluso nel senso che, secondo il proprio prudente apprezzamento, il consiglio distrettuale ha, piuttosto, applicato una sanzione minima per un illecito grave, senza la sussistenza neppure di ragioni per provvedere ad una attenuazione della pena.

Ciò posto, il motivo non coglie nel segno.

Con la L. n. 247 del 2012, art. 3, commi 3 e 5, art. 35, comma 1, lett. d) e art. 65, comma 5. Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, il C.N.F. è stato delegato ad emanare il nuovo codice deontologico forense, adottato con reg. 31 gennaio 2014, n. 1 ed entrato in vigore il 16 dicembre 2014, quindi dopo i fatti di illeciti contestati (relativi alla prima metà del 2014).

La L. n. 247 del 2012, art. 65, prevede l’applicazione retroattiva delle norme del nuovo codice deontologico, ove più favorevoli di quelle applicabili ratione temporis. Queste Sezioni Unite hanno osservato che, nel fissare il momento di transizione dall’operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale espressamente regola – prevenendo le incertezze interpretative – la successione nel tempo degli illeciti e delle sanzioni, improntandola al criterio del favor rei, ponendosi anche in rilievo come, tra le principali innovazioni, il nuovo codice deontologico forense presenta la almeno tendenziale tipicizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni correlativamente applicabili (v. Cass., sez. un., 16 febbraio 2015, n. 3023; nonchè, fra le altre, Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9558; Cass., sez. un., 20 settembre 2016, n. 18395).

Nella specie, il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 40, ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, prevedeva, per quanto ora interessa, la sanzione della “sospensione dell’esercizio della professione per un tempo non inferiore a due mesi e non maggiore di un anno”.

Alla stregua della L. n. 247 del 2012, art. 52, lett. c), la sospensione dall’esercizio della professione è prevista da due mesi a cinque anni: dispone, infatti, la norma che “Con la decisione che definisce il procedimento disciplinare possono essere deliberati:… c) l’irrogazione di una delle seguenti sanzioni disciplinari: avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione da due mesi a cinque anni, radiazione”.

A sua volta, l’art. 50 codice deontologico attuale prevede la sanzione edittale della sospensione dall’attività professionale da “uno a tre anni”, come ricordato dalla sentenza impugnata, la quale mostra di dissentire circa l’immotivata riduzione, operata dal consiglio distrettuale di disciplina.

Pertanto, il motivo tralascia di considerare che la sanzione comminata della sospensione dall’esercizio della professione per la durata di mesi due rientra nel limite edittale minimo, contemplato sia dal R.D.L. n. 1578 del 1933, citato art. 40, vigente all’epoca dei fatti illeciti disciplinari ascritti, sia dalla L. n. 247 del 2012, art. 52, lett. c), laddove l’art. 50 nuovo codice addirittura prescrive una sanzione superiore: con la conseguenza, quindi, dell’insussistenza, nel passaggio dal “vecchio” al “nuovo” regime, di una disciplina sanzionatoria in concreto (come va individuata la lex mitior: cfr. Cass., sez. un., 27 giugno 2018, n. 16977; Cass., sez. un., 27 dicembre 2017, n. 30993) più favorevole.

Deve, pertanto, concludersi come la sanzione comminata al ricorrente rientra nella cornice edittale della norma anteriore: tanto da rendere priva di concreto rilievo la questione prospettata dal motivo.

La scelta di confermare la sanzione di due mesi si inquadra, dunque, nel disposto normativo. Mentre occorre ribadire che resta inammissibile ogni argomento con cui nella sostanza si intenda aggredire la scelta della sanzione più opportuna, rimessa al giudice disciplinare in base all’apprezzamento della gravità del fatto e della condotta addebitata all’incolpato, costituendo la determinazione della sanzione adeguata una mera valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità, nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati (e multis, Cass., sez. un., 24 gennaio 2020, n. 1609; Cass., sez. un., 27 giugno 2018, n. 16977).

8. – Il dodicesimo motivo è radicalmente inammissibile, non esplicitando nessuna concreta e specifica circostanza idonea a sostenere l’assunto, mentre deve evidenziarsi l’inapplicabilità al procedimento dell’istituto della rimessione, di cui all’art. 45 c.p.p., il quale richiede “gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili”, le quali “pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto”.

Ed invero, il richiamo, contenuto alla L. n. 247 del 2012, art. 59, lett. n), al rito penale è nei limiti della compatibilità, laddove l’istituto invocato – di carattere eccezionale in quanto deroga al giudice naturale – resta nella specie inapplicabile (cfr. Cass., sez. un., 12 giugno 1998, n. 558; e v. Cass., sez. un., 6 novembre 2020, n. 24896).

9. – Non occorre provvedere sulle spese, attesa la mancata costituzione in questa sede della parte intimata.

PQM

La Corte, pronunciando a Sezioni unite, rigetta il ricorso.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

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