Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8776 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. un., 30/03/2021, (ud. 09/03/2021, dep. 30/03/2021), n.8776

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1028/2015 proposto da:

A.T.I. (ASSOCIAZIONE TEMPORANEA IMPRESE) C.I.M.E. S.R.L., S.T.I.M.

S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore della

C.I.M.E – Costruzioni Impianti Metano s.r.l., società mandataria

dell’A.T.I. C.I.M.E. S.r.l. – S.T.I.M. S.r.l., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 217, presso lo studio

dell’avvocato FILIPPO FALIVENE, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ORION SOCIETA’ COOPERATIVA A R.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2262/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 19/12/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

09/03/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALBERTO CARDINO, il quale conclude per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di Bologna con sentenza del 19 dicembre 2013, n. 2262 ha dichiarato inammissibile l’impugnazione di lodo arbitrale, proposta in via principale dall’A.t.i. CIME s.r.l. – STIM s.r.l. avverso la Orion soc. coop. a r.l., rilevandone d’ufficio la tardività, in quanto proposta oltre il c.d. termine lungo per l’impugnazione del lodo decorrente dalla data dell’ultima sottoscrizione, ai sensi dell’art. 828 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alla riforma del 2006; ha ritenuto altresì la questione, di natura esclusivamente processuale, rilevabile d’ufficio, senza la necessità di sottoporla al contraddittorio delle parti; ha, infine, ritenuto inefficace l’impugnazione incidentale e compensato tra le parti le spese di lite.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’A.t.i. CIME s.r.l. – STIM s.r.l., sulla base di due motivi.

L’intimata Orion soc. coop. a r.l. non ha svolto difese.

Con ordinanza interlocutoria 24 settembre 2020, n. 20104, la Prima Sezione civile ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, sulla questione relativa al dies a quo della decorrenza del termine lungo per l’impugnazione del lodo arbitrale, reputata di massima di particolare importanza.

La causa è, in tal modo, pervenuta alle Sezioni unite.

Il P.G. ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

La ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso espone due motivi, che possono essere come di seguito riassunti.

Con il primo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., in quanto l’art. 828 c.p.c., nel testo risultante dalla riforma del 1994, applicabile ratione temporis, prevede la decadenza dall’impugnazione per nullità del lodo, se proposta dopo il decorso di un anno dall’ultima sottoscrizione, mentre nel testo originario del codice il termine decorreva dalla data del provvedimento di esecutività del lodo: ma ciò contrasta con le ricordate disposizioni costituzionali, perchè il momento delle sottoscrizioni non è conoscibile, posto che gli artt. 823 e 824 c.p.c., non prevedono la “pubblicazione”, essendo contemplati solo la “deliberazione-redazione” non pubblica e la “comunicazione”, a differenza di quanto previsto per i provvedimenti giurisdizionali, ove si distinguono i momenti della deliberazione, della pubblicazione e della comunicazione; non risulta perciò legittimo il computo, nel termine per l’impugnazione, dell’intervallo temporale tra l’ultima sottoscrizione e la comunicazione, in cui il testo del lodo è ignoto alle parti.

Propone, pertanto, una “lettura costituzionalmente orientata” che faccia decorrere il termine lungo dal momento in cui il lodo è conoscibile dalle parti; in subordine, prospetta una questione di legittimità costituzionale dell’art. 828 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 3,24 e 111 Cost., precisando che la questione è rilevante, in quanto, in base alla comunicazione del lodo, questo fu depositato presso la sede dell’arbitrato il 6 maggio 2005, il giorno stesso della comunicazione, che dovrebbe allora costituire il dies a quo dell’anno per l’impugnazione, onde, aggiunti i 45 giorni della sospensione feriale, essa sarebbe stata tempestiva.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 24,111 Cost. e art. 183 c.p.c., comma 4, avendo la corte territoriale pronunciato su questione rilevata d’ufficio non segnalata alle parti, così pervenendo alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione attraverso una decisione “a sorpresa” o “della terza via”; senza che tale ragione di nullità possa venire obliterata pretendendosi, in sede di impugnazione, l’esposizione delle ragioni che si sarebbero potute far valere in mancanza del vizio; peraltro, la ricorrente deduce come si sarebbe innanzi alla corte d’appello potuto, in presenza del corretto contraddittorio, evidenziare la proposta interpretazione dell’art. 828 c.p.c..

2. – La questione sottoposta alle Sezioni unite concerne l’interpretazione della disposizione dell’art. 828 c.p.c., comma 2, secondo cui “l’impugnazione non è più proponibile decorso un anno dalla data dell’ultima sottoscrizione”.

La lettera della norma è univoca, non prestandosi in sè a dubbi interpretativi.

Ma ciò potrebbe ritenersi non risolutivo, essendo il canone letterale affiancato, ai sensi dell’art. 12 preleggi, comma 1, da altri criteri.

Se l’interpretazione è ascrizione di significato all’enunciato di un documento normativo in rapporto ad un fatto da regolare, l’individuazione delle regole contenute nell’enunciato non deriva, sovente, da una mera lettura del testo, in quanto frutto di più o meno complessi procedimenti interpretativi.

L’idea positivistica dell’interpretazione “unica” dei testi normativi, quale mero accertamento della volontà della legge, è invero superata, anche dalla disposizione-guida sull’interpretazione della legge.

L’art. 12 preleggi, richiama i criteri dell’interpretazione letterale, storico-teleologica, analogica secondo la legge ed analogica secondo i principi o sistematica.

3. – L’ermeneutica corrente, accolta dalla giurisprudenza, richiede la ricerca della ratio legis, secondo il coordinamento sistematico delle singole disposizioni, non solo nel caso in cui, nonostante l’impiego del criterio letterale, il significato della norma “rimanga ambiguo”, ma altresì quando, sia pure in presenza di una lettera chiara, “l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo” (Cass., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8091; Cass., sez. un., 4 febbraio 2020, n. 2504, in motivazione; Cass., sez. un., 22 marzo 2019, n. 8230; v. pure, fra le recenti, in tema di impugnazione delle decisioni dei giudici speciali, Cass., sez. un., 15 settembre 2020, n. 19174 e Cass., sez. un., 28 febbraio 2020, n. 5589).

In tale visuale, in prima battuta vengono sempre in rilievo i canoni dell’interpretazione letterale e storico-teleologica, sebbene poi il significato finale della disposizione vada ricercato in modo da limitare le antinomie con altre fonti, in forza del criterio dell’interpretazione logico-sistematica, individuandone il significato nello specifico settore normativo (la ratio legis) ed in conformità ai principi costituzionali ed ai principi generali dell’ordinamento giuridico (la ratio iuris).

Si è andata così profilando un’opzione ermeneutica, nel senso che possa svalutarsi l’interpretazione letterale anche in presenza di un testo univoco, in quanto non sarebbe da privilegiare come assoluto il criterio interpretativo letterale, per la necessità di ricercare, in ogni caso, la coerenza della norma e del sistema, secondo lo spirito o ratio di essi.

Occorre, peraltro, sottolineare come non sia consentito superare i confini permessi dalla esegesi del testo: come ha affermato la Corte costituzionale circa la cd. interpretazione adeguatrice, resta il limite che risiede “nell’univoco tenore della disposizione impugnata”, il quale “segna il confine” oltre il quale l’interpretazione giudiziale non può andare (cfr. e multis, Corte Cost. 13 dicembre 2019, n. 270; Corte Cost. 14 dicembre 2017, n. 268; Corte Cost. 13 aprile 2017, n. 87, n. 83 e n. 82; Corte Cost. 24 febbraio 2017, n. 42; Corte Cost. 11 novembre 2016, nn. 240 e 241; Corte Cost., 12 ottobre 2016, n. 219; Corte Cost. 6 maggio 2016, n. 95; Corte Cost. 11 dicembre 2015, n. 262; Corte Cost. 4 luglio 2014, n. 191; Corte Cost. 23 luglio 2013, n. 232; Corte Cost. 4 luglio 2013, n. 170; Corte Cost. 3 maggio 2012, n. 110; Corte Cost. 5 aprile 2012, n. 78; Corte Cost. 28 gennaio 2010, n. 26; Corte Cost. 20 giugno 2008, n. 219).

Giova, del pari, richiamare i principi esposti da questa Corte in tema di eccesso di potere giurisdizionale riferito all’attività legislativa (e multis, Cass., sez. un., 1 aprile 2020, n. 7643; Cass., sez. un., 14 gennaio 2020, n. 413; Cass., sez. un., 11 settembre 2019, n. 22711; Cass., sez. un., 25 marzo 2019, n. 8311; e già Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144; 23 dicembre 2014, n. 27341; e v., sui limiti dell’interpretazione sistematica, la recente Cass., sez. un., 29 gennaio 2021, n. 2142), secondo cui l’attività interpretativa è segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale.

In definitiva, il fondamentale canone di cui all’art. 12 preleggi, comma 1, impone all’interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione, potendo bensì con esso concorrere i criteri della interpretazione teleologica e sistematica, purchè, tuttavia, l’interprete non varchi il limite esegetico consentito dall’enunciato formale (art. 101 Cost., comma 2) e non reputi, addirittura, l’interpretazione – in luogo che mezzo attraverso cui ricomporre un contrasto solo apparente con la Costituzione – strumento sostitutivo della voluntas legis.

4. – Come sopra ricordato, la lettera dell’art. 828 c.p.c., comma 2, non dà in sè adito a dubbi o perplessità interpretative, fissando sin dal momento dell’ultima sottoscrizione degli arbitri il dies a quo per impugnare nel c.d. termine lungo. Ma anche gli altri criteri, richiamati dall’art. 12 preleggi, non conducono a una diversa conclusione.

La ratio della disposizione in esame si lega, invero, all’attribuzione di efficacia al lodo sin da tale momento, laddove il deposito nella cancelleria del tribunale sede dell’arbitrato, di cui all’art. 825 c.p.c., è previsto come mero adempimento, del quale è onerata la parte che intenda fare eseguire il lodo (in Italia, oppure assoggettarlo a trascrizione o annotazione nei casi in cui sarebbe soggetta a trascrizione o annotazione la sentenza), previo accertamento della sua “regolarità formale”.

Pertanto, l’art. 828 c.p.c., comma 2, dà rilievo, ai fini della decorrenza del termine annuale, al momento in cui è apposta l’ultima sottoscrizione, proprio perchè il lodo – salvo il disposto dell’art. 825 c.p.c., ai fini della sua esecutività – produce gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria dalla data della sua ultima sottoscrizione.

Com’è noto, nell’ambito di un complessivo disegno di contenimento dei tempi processuali, il c.d. termine lungo per l’impugnazione sin dal 2009 è stato ridotto, nell’art. 327 c.p.c., da un anno a sei mesi, reputati dal legislatore sufficienti a far presumere la conoscenza di una sentenza.

Identica ratio di contenimento dei tempi anima l’art. 828 c.p.c., comma 2, laddove prevede il termine lungo di un anno dalla data dell’ultima sottoscrizione per impugnare il lodo arbitrale.

Il legislatore ha così stabilito una corrispondenza tra la pubblicazione della sentenza – con la quale il provvedimento viene ad esistenza e comincia a produrre i suoi effetti – e l’attività consistente nell’apposizione della ultima sottoscrizione degli arbitri.

5. – L’efficacia vincolante fra le parti caratterizza, infatti, il lodo sin dalla sua sottoscrizione, nell’approdo attuale della disciplina positiva.

La decisione arbitrale, secondo l’evoluzione subita dall’istituto, viene parificata alla pronuncia giurisdizionale ed esiste sin dalla sua sottoscrizione, non essendovi un ufficio di cancelleria deputato al deposito per la pubblicazione, in tal modo avendo il legislatore attuato il principio dell’autonomia dell’arbitrato dalla giurisdizione ordinaria.

5.1. – Il c.p.c. del 1865, di ispirazione liberale, non riconduceva effetti giuridici al lodo, se non dopo il decreto pretorile di esecutorietà, il c.d. exequatur, con conseguente inefficacia del lodo fino al momento dell’emanazione del decreto; sebbene tale codice discorresse di “sentenza arbitrale” anche con riferimento al lodo non depositato (artt. 21-23), configurando l’arbitrato come un’opzione posta sullo stesso piano della giurisdizione statale, salva l’impossibilità per gli arbitri di emettere decisioni esecutive atteso il monopolio statale dell’esercizio della forza.

5.2. – Il c.p.c. di cui al R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443, individuò la decisione arbitrale quale mero “lodo”, del pari idoneo a produrre effetti soltanto a seguito del decreto di esecutorietà, così che esso da un’ampia parte della dottrina fu reputato avere natura negoziale, appartenendo solo allo Stato la giurisdizione. Il codice di rito distingueva tra lodo omologato, cui veniva attribuita l’efficacia di sentenza, e lodo non omologato, dagli effetti non disciplinati dalla legge, implicitamente derivandone che, in caso di mancato deposito, il lodo rituale fosse improduttivo di qualunque effetto.

5.3. – Quindi, la L. 9 febbraio 1983, n. 28, per la prima volta, previde l'”efficacia vincolante tra le parti” del lodo sin dal momento dell’ultima sottoscrizione, divenendone il deposito non un obbligo, imposto agli arbitri, ma un onere per la parte interessata, la quale intendesse “far eseguire il lodo nel territorio della Repubblica”.

5.4. – La L. 5 gennaio 1994, n. 25, stabilì quindi espressamente, all’art. 827 c.p.c., che “i mezzi di impugnazione possono essere proposti indipendentemente dal deposito del lodo”, così confermando che il lodo arbitrale rituale ha efficacia sin dalla data della sua sottoscrizione, anche prima dell’exequatur pretorile.

In tale prospettiva fu, dunque, eliminato l’adempimento del decreto di esecutività quale indispensabile elemento di efficacia, nell’intento di attribuire al lodo ancor maggiore pregnanza.

5.5. – Infine, è sopraggiunta la riforma di cui alla Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, in esecuzione della quale è stato emanato il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, che, al dichiarato fine di superare i contrasti interpretativi seguiti alle riforme del 1983 e del 1994, ha attribuito al lodo arbitrale, anche se non omologato, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (art. 824-bis c.p.c.), con formula già anticipata nella stessa legge delega, ove era previsto “che il lodo, anche non omologato, abbia gli effetti di una sentenza”.

Si è, in definitiva, passati da una situazione di obbligatorio deposito del lodo per la sua efficacia, ad un’affrancazione da ogni intervento giurisdizionale per quanto riguarda l’efficacia vincolante fra le parti; anche se chi intenda fare eseguire il lodo è ancora onerato dell’introduzione di un apposito procedimento innanzi al giudice, il quale, accertatane la regolarità formale, lo dichiarerà esecutivo.

Dunque, il procedimento arbitrale, semplificato nel suo esito finale, è tendenzialmente sottratto ad ogni automatica subordinazione alla giurisdizione statale.

L’ordinanza delle Sezioni unite del 25 ottobre 2013, n. 24153 (resa in tema di arbitrato estero), favorita da Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 223, è giunta, pertanto, a sancirne la natura giurisdizionale, in quel che è stato descritto come il c.d. superamento del principio di statualità della giurisdizione.

6. – La disciplina post D.Lgs. n. 40 del 2006, induce, dunque, a distinguere tra fonte e contenuto del potere degli arbitri, da un lato, ed effetti del lodo, dall’altro lato.

Ciò è particolarmente evidente in forza dell’art. 806 c.p.c., art. 813 c.p.c., comma 2 e art. 824-bis c.p.c.: prevedendo la legge – oltre che la generale operatività dell’autonomia dei privati solo nell’area dei diritti disponibili – da un lato che “agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio”, e, dall’altro lato, che “salvo quanto disposto dall’art. 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”.

Resta, al di là della tendenziale equipollenza del ruolo assunto nella risoluzione delle controversie tra lodo e sentenza, che essi non hanno un’identica natura e neppure identici effetti – oltre alle esclusioni espresse ex art. 819-ter c.p.c., comma 2, si pensi alle questioni circa il rilievo dello ius superveniens, del bis in idem o degli effetti riflessi nei confronti dei terzi estranei (questioni, peraltro, qui non esaminabili perchè estranee al thema decidendum), ma anche alla riservatezza della pronuncia, ove non sia depositata per l’esecutorietà o non sia impugnata, non essendo il lodo di per sè destinato, come invece la sentenza, a divenire pubblico, con ciò individuandosi, anzi, proprio una ragione specifica di preferenza rispetto al giudizio ordinario – rimanendo pur sempre il lodo arbitrale estraneo all’esercizio di poteri pubblicistici e continuando esso a fondarsi sul consenso delle parti, onde non si tratta della funzione giurisdizionale dello Stato (cfr. art. 823 c.p.c., comma 2), nella perdurante natura privata del patto compromissorio.

Come osservato da molti, se l’attività degli arbitri serve ad assicurare anch’essa la risoluzione della controversia e, come tale, riveste un interesse pubblico, essa non è però attività giurisdizionale autoritativa, essendo esercitata in carenza di imperium e di poteri coercitivi. La potestas iudicandi non sorge, come per il giudice, dalla legge, ma dalla volontà delle parti, donde le cautele, anche formali, per una simile solenne investitura (artt. 807,808,808-bis c.p.c.). La natura giurisdizionale del lodo non importa, pertanto, anche la natura pubblicistica dei poteri esercitati dagli arbitri: questi restano estranei al potere giudiziario dello Stato, essendo i poteri decisori attribuiti loro direttamente dalle parti compromittenti; le quali, infatti, possono affidarvi solo le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili.

Tanto è vero che la scelta di politica legislativa è stata quella di prevedere un rimedio impugnatorio specifico per l’arbitrato – l'”impugnazione per nullità di lodo arbitrale” – che si svolge bensì innanzi alla corte d’appello (ossia, come in dottrina rilevato, il giudice che, al tempo dell’entrata in vigore della L. n. 25 del 1994, era il giudice della delibazione delle decisioni giurisdizionali straniere, e che, in base al sistema attuale, ha il controllo giudiziario sulla esistenza delle condizioni dell’inserimento automatico del lodo e della sentenza straniera nel nostro ordinamento), ma che nei contenuti è diverso, per funzione e scopo, dall’appello in quanto assai più limitato, specialmente dopo la riforma del 2006: quando non si prospetta neppure più l’impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia, se (salvo sia espressamente disposta dalla legge per speciali settori) le parti non abbiano espressamente previsto tale facoltà, alla stregua dell’art. 829 c.p.c., comma 3, frutto del criterio direttivo previsto nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, che chiedeva di “subordinare la controllabilità del lodo ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 2, alla esplicita previsione delle parti”.

L’impugnazione alla corte d’appello è a giudizio rescindente, mentre solo nei casi indicati nell’art. 830 c.p.c., comma 2 e sempre salvo volontà contraria delle parti, il giudice togato, investito dell’impugnazione per nullità e dichiarata la nullità del lodo, potrà compiere un nuovo esame nel merito.

Resta, così, in ogni caso assicurata la scelta delle parti in favore dell’arbitrato; mentre nell’arbitrato estero il giudizio di nullità si ferma al rescindente, a meno che le parti abbiano stabilito la sua decisione anche nel merito nell’ambito della convenzione di arbitrato o ne facciano concorde richiesta, quindi sempre dietro loro esplicita dichiarazione di volontà in tal senso.

In sostanza, viene dal legislatore particolarmente in tal modo enfatizzato il peculiare e differente fondamento volontaristico dell’arbitrato, nell’obiettivo della sua massima efficacia e rapidità.

Tutto ciò, a giustificare ancora parziali differenze di disciplina positiva.

7. – Dalla sottoscrizione del lodo derivano una serie di effetti giuridici, tutti coerenti fra di loro, previsti dal legislatore positivo e ricostruiti dal diritto vivente.

A tale momento sono ricollegati, invero, molti ulteriori ed importanti effetti, quali:

a) l’efficacia del lodo: l’art. 823 c.p.c., comma 2, n. 6, richiedeva quale contenuto necessario del lodo “la sottoscrizione di tutti gli arbitri, con l’indicazione del giorno, mese ed anno in cui è apposta”.

Dopo la riforma del 2006, del pari l’art. 823 c.p.c., comma 2, n. 7, prevede la sottoscrizione degli arbitri e il n. 8 la data delle sottoscrizioni; mentre l’art. 824-bis c.p.c., conseguente alla novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, stabilisce che “il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”.

L’art. 824-bis c.p.c., riconosce, dunque, al lodo l’efficacia di sentenza soltanto “dalla data dalla sua ultima sottoscrizione”, dalla quale l’art. 828 c.p.c., comma 2, fa decorrere il termine lungo di impugnazione.

Dispone, inoltre, l’art. 825 c.p.c., che il soggetto interessato all’esecutività del lodo lo depositi nella cancelleria del tribunale, cosicchè l’ufficio lo dichiari esecutivo con decreto. Ma il lodo ha efficacia vincolante fra le parti dalla data della sua ultima sottoscrizione: di conseguenza, si reputa inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto del reclamo nei confronti del decreto di dichiarazione di esecutorietà del lodo (Cass. 14 maggio 2014, n. 10450), come del decreto che la neghi (Cass. 27 ottobre 2016, n. 21739), e ciò appunto in forza dell’inettitudine di tale decreto a pregiudicare i diritti soggettivi derivanti dal rapporto definito con il lodo arbitrale, avendo esso rilevanza limitata alla sola possibilità di mettere in esecuzione il lodo.

In sostanza, dal combinato disposto di tali norme risulta che la “efficacia vincolante” è assegnata coerentemente al lodo fin dalla data della sua ultima sottoscrizione;

b) il momento di perfezionamento del lodo nel caso un arbitro non possa o non voglia sottoscriverlo: ai sensi dell’art. 823 c.p.c., comma 2, n. 6 e, dopo la riforma del 2006, dell’art. 823 c.p.c., comma 2, n. 7, il lodo va sottoscritto da tutti gli arbitri, ma la mera sottoscrizione da parte della maggioranza è sufficiente, se accompagnata dalla dichiarazione che il lodo è stato deliberato con la partecipazione di tutti e che gli altri non hanno voluto o non hanno potuto sottoscriverlo; in tal caso, dalla data della sottoscrizione da parte degli arbitri di maggioranza decorre il termine di un anno per la sua impugnazione, di cui all’art. 828 c.p.c., in presenza dell’attestazione sulle ragioni della firma mancante, per esigenze di certezza (cfr. Cass. 28 settembre 2015, n. 19163, che ha ritenuto non realizzatasi, nella vicenda, la fattispecie de qua);

c) la immodificabilità del lodo: dopo l’ultima sottoscrizione, il lodo non può più essere revocato o modificato dai suoi estensori.

Secondo la precisazione contenuta all’art. 824-bis c.p.c., frutto della riforma ex D.Lgs. n. 40 del 2006, fin dall’ultima sottoscrizione il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria. E questa Corte ha ritenuto (Cass. 16 marzo 2018, n. 6666, non massimata; Cass. 12 novembre 2015, n. 23176; Cass. 26 maggio 2014, n. 11634) come, anche prima dell’introduzione dell’art. 824-bis c.p.c., da parte del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, gli effetti tra le parti del lodo arbitrale rituale fossero equiparati a quelli della sentenza.

E’, dunque, sancita l’efficacia processuale di sentenza del lodo: esso è sottoposto al regime normativo consistente nella immodificabilità ed irrevocabilità da parte degli arbitri che lo hanno pronunciato, da tale momento sottratto alle ordinarie impugnative negoziali e soggetto alle impugnazioni processuali appositamente previste;

d) l’imputazione per competenza delle somme da esso portate: ai fini fiscali, si è così ritenuto che il credito derivante da un lodo arbitrale costituisca sopravvenienza attiva ed elemento costitutivo del reddito di impresa del contribuente sin dal momento della sottoscrizione del lodo, atteso che il lodo ha efficacia vincolante tra le parti proprio da tale momento (Cass. 1 aprile 2003, n. 4965; v. pure Cass. 24 marzo 2016, n. 5840);

e) l’impugnabilità del lodo: infine, dall’ultima sottoscrizione il lodo, venuto ad esistenza, è impugnabile.

Ai sensi dell’art. 827 c.p.c., anche nel testo anteriore alla riforma del 2006, i mezzi d’impugnazione esperibili nei confronti del lodo arbitrale sono l’impugnazione per nullità, la revocazione c.d. straordinaria e l’opposizione di terzo, precisandosi che tali rimedi possono essere esperiti “indipendentemente dal deposito del lodo” e sin dall’ultima sottoscrizione.

La ratio è identica a quella del c.d. termine lungo di impugnazione delle sentenze: unica differenza, la fissazione del dies a quo dalla pubblicazione per le sentenze e dall’ultima sottoscrizione per i lodi arbitrali: distinzione perfettamente coerente con la diversa natura delle due pronunce, più sopra evidenziata (v. p. 6);

f) l’impugnabilità del provvedimento di correzione del lodo: l’art. 828 c.p.c., comma 3, ultimo periodo, prevede che il lodo non depositato sia impugnabile, relativamente alle parti corrette, nei termini ordinari a decorrere dalla “comunicazione dell’atto di correzione”: dunque, il legislatore ha implicitamente previsto che, in assenza di comunicazione, valga il termine lungo di impugnazione, decorrente – del pari – dall’ultima sottoscrizione del provvedimento di correzione emesso dagli arbitri.

Non ha pregio allora la pretesa di alterare la lettera dell’art. 828 c.p.c., in quanto essa coerentemente esprime la logica e la struttura dell’intero sistema positivo dell’arbitrato.

8. – In definitiva, è infondato l’assunto dei ricorrenti, secondo cui dovrebbe darsi una lettura forzata ed antiletterale dell’art. 828 c.p.c., comma 2, fissandosi giudizialmente la decorrenza del termine annuale per impugnare dal momento in cui “il lodo è conoscibile dalle parti”, con conseguente incertezza del diritto, che in tal modo si determinerebbe.

Ma nemmeno hanno pregio le altre prospettazioni, quali la pretesa di far decorrere detto termine, come indirettamente parte ricorrente indica, dalla comunicazione del lodo alle parti, ai sensi dell’art. 824 c.p.c., momento non corrispondente nè alla lettera, nè alla ratio della disposizione, e comportando un simile assunto l’irragionevole conseguenza che, in difetto di comunicazione, quel termine non decorrerebbe mai; o dal deposito del lodo, trattandosi di attività meramente eventuale in funzione dell’esigenza di disporre degli strumenti coattivi statuali.

La formulazione letterale della disposizione censurata, in una col sistema tutto come sin qui illustrato, non consente un’interpretazione come quella voluta, fortemente manipolativa del dato testuale: le interpretazioni proposte dalla ricorrente, in definitiva, si risolverebbero in un’arbitraria e illogica interpretatio abrogans della disposizione censurata ed in un’altrettanto arbitraria e illogica interpretatio creans di una norma nuova.

9. – Sulla base di quanto esposto, è altresì manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale posta, in quanto si giustifica la previsione in discorso, quale legittima opzione legislativa e di certezza del diritto.

9.1. – E’ pur vero che il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di talune disposizioni che, in tema di decorrenza di termini processuali d’impugnazione, fissavano la stessa – in luogo che dalla comunicazione agli interessati – da altri eventi, ovvero:

– dall’affissione della sentenza di fallimento, come previsto dalla L. Fall., art. 18, comma 1, quanto al termine di quindici giorni per fare opposizione (Corte Cost. 27 novembre 1980, n. 151);

– dall’affissione, invece che dalla notificazione della sentenza, quanto al termine di trenta giorni concesso dalla L. Fall., art. 195, comma 4, per proporre opposizione contro la sentenza che dichiari lo stato di insolvenza di impresa soggetta a l.c.a. (Corte Cost. 4 luglio 2001, n. 211);

– dall’affissione della sentenza resa dal tribunale nel procedimento di riabilitazione, anzichè dalla sua comunicazione, L. Fall., ex art. 144, u.c., quanto al termine di quindici giorni per proporre il reclamo alla corte d’appello (Corte Cost. 15 luglio 2004, n. 224);

– dall’affissione della sentenza resa su opposizione allo stato passivo, ai sensi della L. Fall., art. 99, comma 5, ai fini del decorso dei termini di quindici giorni per appellare e di trenta giorni per ricorrere in cassazione (Corte Cost. 27 novembre 1980, n. 152;

– dal deposito in cancelleria, da parte del commissario liquidatore, dell’elenco dei crediti ammessi, anzichè da quella di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, quanto al termine di quindici giorni stabilito per l’impugnazione dei crediti ammessi nella l.c.a. (Corte Cost. 29 aprile 1993, n. 201);

– dalla data del decreto del giudice delegato di cessazione degli effetti dell’amministrazione controllata, ai fini dei dieci giorni concessi per il reclamo avverso il provvedimento, anzichè dalla sua rituale comunicazione all’interessato (Corte Cost. 26 luglio 1988, n. 881; analogamente, Corte Cost. 2 dicembre 1980, n. 155, che ha dichiarato incostituzionale la L. Fall., art. 209, comma 2, nella parte in cui faceva decorrere il termine per le opposizioni dei creditori esclusi dalla data del deposito in cancelleria dell’elenco dei crediti ammessi o respinti, anzichè dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento, e Corte Cost. 22 aprile 1986, n. 102, che ha dichiarato incostituzionale la L. Fall., art. 100, comma 1, nella parte in cui faceva decorrere il termine per l’impugnazione dei crediti ammessi dalla data del deposito dello stato passivo in cancelleria, anzichè dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento);

– dalla data del decreto del giudice delegato, ai fini del reclamo al tribunale L. Fall., ex art. 26, entro il termine di tre giorni, anzichè dalla data della comunicazione dello stesso (Corte Cost. 22 novembre 1985, n. 303; Corte Cost. 27 giugno 1986, n. 156).

9.2. – Ciò che, però, fa la differenza – inducendo, nell’esegesi in esame, a diversa conclusione – è che in tutti quei casi si trattava di termini assai ristretti: così da potersi ravvisare l’effettiva compressione del diritto di difesa, attesa la non remota ipotizzabilità del loro decorso ignoto alla parte, pur diligente; tanto che il ricorso ad un’eventuale rimessione in termini avrebbe rischiato di divenire, inammissibilmente, non l’eccezione, ma la regola.

Deve, pertanto, ravvisarsi una scelta specifica del legislatore, non contrastante con nessun precetto costituzionale, in quella di fissare il dies a quo del termine lungo per impugnare – un anno più la sospensione feriale, dunque assai prolungato nel tempo – dall’ultima sottoscrizione, secondo l’interesse alla certezza del diritto ed alla stabilità delle decisioni, una volta prescelta dalle parti la strada dell’arbitrato.

Come rilevato dal Procuratore generale, l’esigenza di non far dipendere la definitività della sentenza o del lodo dalla comunicazione, o dalla notificazione alle parti, mira a garantire nell’attuazione del fondamentale principio della certezza e del favor iudicati – il consolidamento delle decisioni, una volta decorso un ragionevole lasso di tempo dal loro perfezionamento.

La tutela della posizione del soccombente è garantita dal lungo periodo per impugnare, nonchè dalla certa sua conoscenza della decisione arbitrale mediante la comunicazione alle parti del lodo entro appena dieci giorni, la quale lascia a disposizione ancora un lungo lasso per impugnare il lodo stesso, senza nessuna compromissione del diritto di difesa, ove diligentemente esercitato.

A differenza delle fattispecie richiamate, dunque, nel caso in discorso il soggetto, attesa sia la comunicazione entro brevissimo tempo, sia la possibile richiesta di informazione agli arbitri stessi, sia – nei casi estremi – l’istanza di rimessione in termini, può sempre esercitare con pienezza il proprio diritto di impugnazione.

9.3. – Occorre, altresì, richiamare le considerazioni esposte da questa Corte con riguardo all’art. 828 c.p.c., anteriormente alla novella del 1994, allorchè esso faceva decorrere il termine ultimo per l’impugnazione dalla data del provvedimento giudiziale di exequatur: in tal caso, è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui individuava il dies a quo del termine nel giorno dell’emanazione del decreto e non in quello della sua comunicazione ad opera della cancelleria: palesandosi, grazie alla notevole lunghezza del termine, sufficiente una verifica periodica dei registri di cancelleria, rientrante nell’ordinaria diligenza dei procuratori, per evitare la decadenza dell’impugnazione (Cass. 10 marzo 1993, n. 2896).

Sebbene, nel caso ora all’esame, non si dia neppure il deposito del decreto in cancelleria, resta agevole rispettare il termine lungo per l’impugnazione.

9.4. – Accanto all’applicazione dei menzionati canoni interpretativi, militano nel medesimo senso le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 25 luglio 2008, n. 297), con riferimento alla prescrizione contenuta nell’art. 327 c.c., comma 1, proprio attesa la simmetria delle discipline concernenti il termine lungo per impugnare, rispettivamente, il lodo arbitrale e la sentenza (come condivisibilmente rilevato da Cass. 5 settembre 2018, n. 21648; Cass. 5 dicembre 2017, n. 28999; Cass. 5 dicembre 2017, n. 28998).

Il giudice delle leggi ha, invero, ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento alla presunta violazione del diritto di difesa, dell’art. 327 c.p.c., nella parte in cui prevede la decorrenza del termine annuale per l’impugnazione dalla pubblicazione della sentenza, anzichè dalla sua comunicazione a cura della cancelleria: ciò, proprio in ragione della congruità del termine e del dovere di vigilanza dell’interessato, avendo dunque la norma operato un non irragionevole bilanciamento tra la tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa.

Al riguardo, anzi, si noti come, se il termine c.d. lungo per impugnare il lodo è di un anno ai sensi dell’art. 828 c.p.c., è stato invece ridotto alla metà – dunque, a soli sei mesi – quello per impugnare la sentenza del giudice con l’appello e con il ricorso per cassazione, oltre che con il ricorso in revocazione ex art. 395, comma 1, nn. 4 e 5, a norma dell’art. 327 c.p.c..

Sotto questo profilo, il trattamento della parte interessata all’impugnazione del lodo arbitrale è addirittura poziore, rispetto a quello della parte di un giudizio ordinario.

Preziose, altresì, le indicazioni provenienti da altra precedente decisione (Corte Cost. 28 dicembre 1990, n. 584; nonchè Corte Cost. 26 marzo 1991, n. 129), la quale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 327 c.p.c., comma 1, mirando la rimessione “a una sentenza che sconvolgerebbe la coerenza del sistema delle impugnazioni”, posto che tale decorrenza del termine è “un corollario del principio… secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza (a istanza di parte). Stabilito questo principio, di per sè non contestato dal giudice a quo, ne deriva logicamente la decorrenza del termine di un anno dal momento in cui la sentenza è perfezionata, cioè appunto dalla data della pubblicazione”.

Per quanto sopra indicato, il lodo è perfezionato, del pari, al momento dell’ultima sottoscrizione, nè potrebbe sollecitarsi al giudice delle leggi una sentenza manipolativa additiva, su materia ove le scelte del legislatore sono discrezionali: onde l’intero sistema si tiene.

9.5. – Non si ravvisa, in definitiva, il sospetto di incostituzionalità dell’art. 828 c.p.c., nel riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost.: nè sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, attese le riscontrate perduranti differenze tra lodo arbitrale e sentenza; nè quanto alla violazione del diritto di difesa o dei principi del giusto processo, non essendovi nessun effettivo pregiudizio per la decorrenza del termine c.d. lungo, tuttora mantenuto ampissimo, pur nel periodo di dieci giorni tra la sottoscrizione del lodo e la sua comunicazione alle parti.

E va rimarcato come la disciplina dell’arbitrato rispetti i canoni che lo rendono legittimo, non solo a norma dei precetti costituzionali, ma anche di quelli di cui all’art. 47 della Carta diritti fondamentali UE ed al par. 6 della Cedu: individuati – per quanto ora rileva – nella possibilità di impugnazione innanzi agli organi della giustizia ordinaria statuale, in presenza dei vizi di nullità individuati dall’ordinamento positivo.

Ciò è vero persino quando il termine di dieci giorni per la comunicazione del lodo non fosse rigorosamente rispettato e la comunicazione avvenisse in un tempo più lungo: posto che, se l’inadempimento si sia protratto per un lasso temporale ridotto, non ne sarebbe pregiudicato il diritto di difesa; mentre, ove questo fosse effettivamente compromesso dalla tardiva comunicazione, soccorre l’istituto generale della rimessione in termini della parte per causa non imputabile (cfr. p. 10).

Mentre occorre concludere che, sebbene possa parlarsi di una sensibile affinità funzionale tra arbitrato e giurisdizione, resta una non irrazionale e non incostituzionale differenza in taluni aspetti di disciplina che regola il risultato dell’attività arbitrale, da un lato, e quella della giurisdizione, dall’altro lato. Ciò non vuol dire che nell’arbitrato difetti la tutela del contraddittorio e del diritto di difesa, ed in generale la fissazione previa di regole processuali certe e prevedibili, essendo anch’esso un procedimento caratterizzato da tali principi.

Invece, per l’arbitrato ancor più debbono richiamarsi le esigenze di celerità e definizione dei rapporti, dato il non obliterabile intento originario delle parti di scegliere l’arbitrato, in luogo della giustizia ordinaria: onde tanto più per il lodo vale il principio della limitazione alle possibilità di contestazione e dei tempi per impugnare.

10. – Infine, va sottolineato come, a fronte dell’impossibilità derivante da causa non imputabile – non certamente, invece, invocando un affidamento della parte, a fronte della chiarissima lettera della legge dove discorre di “ultima sottoscrizione” – valga il regime generale della rimessione in termini, idoneo a fronteggiare le situazioni meritevoli di tutela.

La L. n. 69 del 2009, ha aggiunto all’art. 153 c.p.c., un nuovo comma, ai sensi del quale la parte che dimostri di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Si tratta della trasposizione del previgente art. 184-bis c.p.c., nel contempo abrogato, con il chiaro segnale – attesa la collocazione sistematica nel primo libro del codice di rito – della valenza generale dell’istituto della rimessione in termini, dunque applicabile ad ogni decadenza processuale, ivi compresa quella derivante dal mancato rispetto dei termini per impugnare.

Al pari del termine per l’impugnazione delle sentenze, decorrente dalla pubblicazione, che matura in ogni caso a fini di certezza del diritto, anche per il termine lungo di impugnazione del lodo arbitrale la disciplina è costituzionalmente compatibile proprio in ragione dell’ampiezza del termine di legge, il quale è stato stabilito in misura tale (un anno, ma lo stesso vale per i sei mesi) tale da far presumere che la parte, che sia stata a conoscenza del processo, con l’ordinaria diligenza possa conoscere del lodo in tempo utile per proporre impugnazione.

Laddove, per qualsiasi ragione, la presunzione venga meno, soccorre il rimedio della rimessione in termini ex art. 153 c.p.c..

Sarà, come d’ordinario, onere della parte interessata provare le circostanze concrete, integranti la causa non imputabile, che abbiano reso inconoscibile il lodo o non esperibile l’impugnazione.

L’applicabilità dell’istituto in discorso al termine per impugnare è principio acquisito, sia quanto alle impugnazioni in generale (e plurimis, Cass., sez. un., 18 dicembre 2018, n. 32725), sia per il lodo arbitrale (Cass., sez. un., 12 febbraio 2019, n. 4135); mentre del pari, nella vicenda, per vero di rara realizzazione, dell’annotazione di una data di deposito diversa da quella di pubblicazione della sentenza ad opera dello stesso cancelliere, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità della norma, come risultante dal c.d. diritto vivente, che fa decorrere il temine lungo per impugnare dalla prima data, proprio per il possibile ricorso all’istituto della rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. (Corte Cost. 22 gennaio 2015, n. 3).

Allorchè, pertanto, ricorra il caso estremo dell’inerzia degli arbitri nell’operare la comunicazione, che sia omessa o avvenga in un momento prossimo alla scadenza del termine annuale, soccorre l’istituto della rimessione in termini, idoneo a preservare comunque l’irrinunciabile principio di certezza del diritto sotteso alla previsione della decadenza dal termine lungo d’impugnazione.

Onde la suddetta possibilità vale come limite negativo alla stessa ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, restando la compatibilità con la carta fondamentale assicurata in ogni caso dall’istituto della rimessione in termini.

Nè l’eventuale momento patologico del sistema, costituente ipotesi eccezionale ed autonoma, proprio per il suo carattere extra ordinem potrebbe, di per sè, far dubitare della costituzionalità di una norma che abbia previsto uno specifico adempimento ad opera degli arbitri, in concreto poi disatteso, e che quindi non abbia preso tale condotta omissiva in considerazione.

Come condivisibilmente osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria, una questione di costituzionalità si porrebbe non per la norma positiva alla stregua delle sue previsioni, ma unicamente in ipotesi di disfunzione del meccanismo predisposto dal legislatore, nella specie in ipotesi di inerzia comunicativa degli arbitri.

Tuttavia, occorre osservare come la verifica della fondatezza della questione di legittimità costituzionale di una norma ne impone una valutazione in astratto, per quanto essa dispone (e non dovrebbe) o non dispone (e invece dovrebbe), e non alle disfunzioni applicative o interpretative, nè, ancor meno, all’eventuale abitualità di violazioni della norma medesima, quali momenti patologici della sua applicazione.

11. – Nel caso di specie, è possibile il diretto riscontro di quanto sin qui esposto.

Il lodo è stato sottoscritto il 15 aprile 2005, comunicato il 6 maggio 2005 e l’impugnazione avverso il medesimo proposta solo il 13 giugno 2006: disponendo, dunque, la parte di un lasso di tempo assai lungo per impugnare, nonchè della certa notizia, da oltre tredici mesi, della esistenza e del contenuto del lodo.

Ciò, a fronte di una chiarissima lettera dell’art. 828 c.p.c., che parte ricorrente non deduce neppure perchè avrebbe potuto o dovuto indurla, violando il suo affidamento, ad attendere ancora oltre per proporre l’impugnazione.

Neppure viene dedotta una causa non imputabile, che abbia reso impossibile il rispetto del chiaro termine di legge; mentre una negligenza processuale, da cui sia derivata una decadenza, non può essere superata solo allegando un’interpretazione controletterale ed asistematica della norma.

12. – Il secondo motivo è infondato.

Il rilievo della decadenza per il mancato rispetto del termine per impugnare, come per la sussistenza di altre ragioni d’inammissibilità o improcedibilità del ricorso, è rilevabile d’ufficio e per essa non si dà l’esigenza di sottoporre la questione alle parti, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, nè dell’analogo principio anteatto, come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., con riguardo al sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, operata con la L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 13, Cass. 27 novembre 2018, n. 30716; Cass. 7 novembre 2013, n. 25054): secondo regola consolidata, non soggiace al divieto posto dall’art. 101 c.p.c., che impedisce di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio e non sottoposta al contraddittorio delle parti, il rilievo della tardività dell’impugnazione, in quanto l’osservanza dei termini perentori, entro cui devono essere proposte le impugnazioni, costituisce un parametro di ammissibilità della domanda alla quale la parte che sia dotata di una minima diligenza processuale non può non prestare attenzione, così da dover considerare già ex ante come possibile sviluppo della lite la rilevazione d’ufficio dell’eventuale violazione di siffatti termini (cfr., e multis, Cass. 18 novembre 2019, n. 29803, non massimata; Cass. 4 marzo 2019, n. 6218; Cass. 18 giugno 2018, n. 16049; Cass. 8 giugno 2018, n. 15037; Cass. 16 ottobre 2017, n. 24312; Cass. 22 febbraio 2016, n. 3432; Cass. 16 febbraio 2016, n. 2984; Cass. 23 maggio 2014, n. 11453; Cass. 13 luglio 2012, n. 11928; Cass. 27 aprile 2010, n. 10062), nè tale esito processuale integra una violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu, il quale, nell’interpretazione data dalla Corte Europea, ammette che il contraddittorio non venga previamente suscitato quando si tratti di questioni di rito che la parte, dotata di una minima diligenza processuale, avrebbe potuto e dovuto attendersi o prefigurarsi (cfr. Cass. 21 luglio 2016, n. 15019).

La giurisprudenza di legittimità interpreta, invero, l’art. 101 c.p.c., comma 2, come riferibile solamente alla rilevazione d’ufficio di circostanze che, modificando il quadro fattuale, comportino nuovi sviluppi della lite non presi in considerazione dalle parti: al contrario, la tardività dell’impugnazione, che costituisce una circostanza obiettiva che emerge dalla documentazione già in possesso delle parti e che le stesse possono agevolmente rilevare, non configura quello “sviluppo inatteso” per il quale si renda necessaria l’instaurazione del contraddittorio mediante l’assegnazione di uno specifico termine per memorie difensive.

Anzi, costituisce preciso dovere del giudice di esaminare d’ufficio tutte le questioni di puro diritto, come l’ammissibilità e la procedibilità della domanda o della impugnazione.

13. – Non occorre la liquidazione delle spese di lite, non svolgendo difese l’intimata.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a Sezioni unite, rigetta il ricorso.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

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