Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8772 del 12/05/2020

Cassazione civile sez. II, 12/05/2020, (ud. 27/09/2019, dep. 12/05/2020), n.8772

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24046/2015 proposto da:

D.M.E., elettivamente domiciliata in Napoli, piazza Eritrea

n. tre, presso lo studio dell’avv. RAFFAELE TORTORIELLO che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.F.F., elettivamente domiciliata in Napoli via Vittoria

Colonna n. 14, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO TAFURI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

M.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2529/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 05/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

27/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.F.F., assumendo di essere creditrice di M.S. a seguito di una controversia conclusa con sentenza passata in giudicato, conveniva quest’ultimo dinanzi al Tribunale di Napoli unitamente alla moglie D.M.E. per sentir dichiarare inefficace nei suoi confronti, ex art. 2091 c.c., o simulato, l’atto di vendita del (OMISSIS) con il quale il M. aveva trasferito alla ex coniuge D.M. il diritto di comproprietà sull’immobile sito in (OMISSIS), al prezzo di Euro 16.170 oltre al risarcimento del danno.

1.1 I convenuti, costituitisi disgiuntamente, esponevano di essersi separati consensualmente come da decreto di omologazione del 23 febbraio 2001 e che, in base agli accordi di separazione, la casa di abitazione in comunione legale era stata assegnata alla moglie e, con contratto preliminare del 27 gennaio 2003, i medesimi coniugi avevano convenuto l’acquisto in capo alla D.M. della quota in proprietà dell’altro coniuge per il prezzo di Euro 221.468,00 da pagarsi, detratta la caparra, alla fine del mese di dicembre del 2003. D.M.E. proponeva anche riconvenzionale nei confronti del M. chiedendo che venisse accertato il suo credito per la somma di Euro 221.468,00.

2. Il Tribunale di Napoli accoglieva la domanda di revocazione, rigettava quella di risarcimento del danno e accoglieva la domanda riconvenzionale spiegata dalla D.M. contro il coniuge M., accertando che il suo credito ammontava a Euro 221.468,00.

3. Avverso tale sentenza proponeva appello D.M.E., D.F.F. e M.S. proponevano appello incidentale.

4. La Corte d’Appello rigettava l’appello principale della D.M. e quello incidentale del M. e, in parziale accoglimento dell’appello incidentale della D.F., rigettava la domanda riconvenzionale proposta dalla D.M. nei confronti del M..

La Corte d’Appello riqualificava la fattispecie, ritenendo sussistente la simulazione dell’atto di acquisto da parte della D.M. della quota dell’immobile di proprietà del coniuge M.S.. La prova della simulazione si ricavava da una serie di indici tra i quali, in primo luogo, il fatto che i crediti della controversia tra la D.F. e il M. risalivano a ben prima della separazione dei coniugi, come si evinceva dalla data di citazione del giudizio conclusosi con la condanna del M. e, in secondo luogo, dalle molteplici contraddizioni in cui erano caduti i coniugi in ordine non solo al pagamento del prezzo ma, finanche, all’entità dello stesso. Infatti, nel rogito era indicata la modesta cifra di Euro 16.170 mentre nel compromesso era riportata quella di Euro 221.468,00. Entrambe le cifre non erano arrotondate in modo da sviare il sospetto sulla loro arbitraria determinazione, al fine di dimostrare che il giusto prezzo era stato stabilito a seguito di serrate trattative. Inoltre, nel preliminare si affermava che il M. avrebbe corrisposto una caparra di Euro 21.000, mentre nella domanda riconvenzionale si chiedeva di accertare il credito per l’intero prezzo. Il M. aveva prodotto l’estratto del conto corrente bancario che non dimostrava in alcun modo che il prezzo era stato pagato a rate e, dunque, non solo emergeva la partecipazione della D.M. all’intento fraudolento ma emergeva la simulazione del contratto di vendita del 27 febbraio 2003. Dunque, La Corte d’Appello accoglieva la domanda di simulazione, ritenendo indifferente qualificare tale simulazione assoluta o relativa.

5. D.M.E. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

6. D.F.F. ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 1414 e 2901 c.c..

A parere della ricorrente dalla motivazione della sentenza non si comprendono quali siano state le ragioni per le quali si è ritenuta applicabile la fattispecie della simulazione, e non si comprende neanche se si tratti di simulazione assoluta o relativa. Peraltro, nella specie, trattandosi di casa coniugale, la cessione dell’immobile era avvenuta con atto pubblico di compravendita a fronte degli accordi di separazione risalenti a data antecedente rispetto anche alla sentenza di primo grado.

Quanto all’art. 2901 c.c., la ricorrente rivendica la sua buona fede, comprovata dal fatto che si era separata dal marito sin dall’anno 2000 e, dunque, non poteva essere a conoscenza dei debiti del marito contratti successivamente.

Peraltro, la ricorrente era diventata proprietaria dell’immobile tramite atto pubblico, in perfetta buona fede, considerato che nell’atto di compravendita il venditore aveva garantito l’acquirente che l’immobile era libero da pesi, oneri e vincoli derivanti da pignoramento o da sequestro e il notaio non aveva fatto alcuna segnalazione in proposito.

1.2 Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello con ampia motivazione ha ritenuto che la domanda originaria dell’attrice fosse fondata non solo con riferimento all’azione revocatoria ma anche relativamente alla domanda di simulazione. In particolare, il giudice del gravame, ha evidenziato che: i crediti della controversia tra la D.F. e il M. risalivano a ben prima della separazione dei coniugi, come si evinceva dalla data di citazione del giudizio conclusosi con la condanna del M.; i coniugi erano caduti in molteplici contraddizioni in ordine non solo al pagamento del prezzo ma, finanche, all’entità dello stesso; nel preliminare si affermava che il M. avrebbe corrisposto una caparra di Euro 21.000, mentre nella domanda riconvenzionale si chiedeva di accertare il credito per l’intero prezzo; il M. aveva prodotto l’estratto del conto corrente bancario che non dimostrava in alcun modo che il prezzo era stato pagato a rate. Dunque, non solo emergeva la partecipazione della D.M. all’intento fraudolento ma emergeva anche la simulazione del contratto di vendita del 27 febbraio 2003.

L’affermazione fatta in sentenza secondo cui era indifferente qualificare la simulazione come assoluta o relativa si riferisce all’irrilevanza di un tale accertamento, in quanto, essendo comunque fondata la domanda di revocazione, l’eventuale donazione dissimulata sarebbe stata inefficace nei confronti della creditrice.

Infine, quanto alla consapevolezza da parte della ricorrente dell’esistenza del debito e del pregiudizio delle ragioni creditorie della vendita dell’appartamento la sentenza della Corte d’Appello è conforme al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui: “In tema di azione revocatoria ordinaria, quando l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, unica condizione per il suo esercizio è la conoscenza che il debitore abbia del pregiudizio delle ragioni creditorie, nonchè, per gli atti a titolo oneroso, l’esistenza di analoga consapevolezza in capo al terzo, la cui posizione, sotto il profilo soggettivo, va accomunata a quella del debitore. La relativa prova può essere fornita tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato”. (Sez. 6-3, Ord. n. 16221 del 2019). Inoltre giova ribadire che: “La prova della participatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore e il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente” (Sez. 3, Ord. n. 1286 del 2019).

Anche la censura in ordine alla violazione dell’art. 2901 c.c., è palesemente infondata, essendo del tutto evidente che in presenza della prova del consilium fraudis non assume alcuna rilevanza la circostanza che nell’atto di compravendita simulato, il marito (venditore) avesse garantito che l’immobile era libero da pesi, oneri e vincoli derivanti da pignoramento o da sequestro e che il notaio non aveva fatto alcuna segnalazione in proposito.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: nullità della sentenza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 161 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c..

A parere della ricorrente la motivazione sarebbe insufficiente, illogica e contraddittoria, e costituirebbe un error in procedendo del giudice del secondo grado deducibile ex art. 360 c.p.c., n. 4, per non aver applicato correttamente quanto previsto dall’art. 132 c.p.c..

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.

Il ricorrente riporta la motivazione della sentenza e ritiene che la stessa sia totalmente incomprensibile e, dunque, da considerarsi omessa in quanto non consentirebbe l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.

3.1 Il secondo e il terzo motivo che possono essere trattati congiuntamente stante la loro evidente connessione, sono infondati.

Il ricorrente con entrambi i motivi lamenta l’omessa motivazione della sentenza per essere la stessa incomprensibile.

La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha infatti limitato la impugnazione delle sentenze per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità.

Nella specie si è già detto che la motivazione della Corte d’Appello è congrua e risponde pienamente all’esigenza costituzionale di chiarire il percorso logico argomentativo compiuto e non si traduce affatto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

In particolare, si ribadisce che la Corte d’Appello ha dato ampiamente conto degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria dai quali doveva dedursi tanto la simulazione del contratto quanto la consapevolezza in capo alla ricorrente del cd. consilium fraudis.

5. Il ricorso è rigettato.

6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 4.500 più 200 per esborsi;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 27 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2020

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