Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8738 del 13/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 13/04/2010, (ud. 09/02/2010, dep. 13/04/2010), n.8738

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 33262/2006 proposto da:

AMAT PALERMO S.P.A. (già AMAT – Azienda Speciale per la mobilità,

già AMAT – Azienda Municipalizzata Autotrasporti di (OMISSIS)), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA G. FERRARI 11, presso lo studio

dell’avvocato VALENZA DINO, rappresentata e difesa dall’avvocato

GIACONIA Maurizio, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI

GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato MARESCA Arturo,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CALANDRINO

GERLANDO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 910/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 12/07/2006 R.G.N. 388/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

09/02/2010 dal Consigliere Dott. BALLETTI BRUNO;

udito l’Avvocato DINO VALENZA per delega GIACONIA MAURIZIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in appello dinanzi alla Corte di appello di Palermo- Sezione per le controversie di lavoro C.A. impugnava la sentenza n. 950 del 4 aprile 2002 pronunciata dal Tribunale-giudice del lavoro di Palermo che aveva rigettato la sua domanda volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dall'”Azienda Speciale AMAT”, con lettera del 14 ottobre 1998, e la condanna dell’Azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a risarcirgli i danni in misura pari alle retribuzioni percipiende dal licenziamento alla reintegra; nonchè la condanna a risarcirgli il danno biologico patito, in conseguenza dell’espletamento delle mansioni affidategli. L’appellante, a sostegno dell’impugnativa proposta, rimarcava l’erroneità della sentenza del Tribunale di Palermo, che si era discostato dai principi di diritto regolanti la risoluzione del rapporto del dipendente divenuto permanentemente inidoneo allo svolgimento dell’attività lavorativa e che, nel rigettare la domanda di risarcimento del danno biologico, aveva acriticamente avallato le conclusioni cui era pervenuto il c.t.u..

Costituitasi in giudizio l’A.M.A.T. – che impugnava l’avverso ricorso in appello e ne chiedeva l’integrale rigetto – la Corte di appello adita, con sentenza n. 910 del 12 luglio 2006, “in parziale riforma della sentenza del G.L. del Tribunale di Palermo, dichiara(va) nullo il provvedimento in data 14 ottobre 1998 con il quale l’A.M.A.T. ha disposto l’esonero definitivo dal servizio di C.A. e, per l’effetto condanna(va) l’Azienda a corrispondere al C. le retribuzioni percipiende, quale impiegato generico di (OMISSIS) livello del c.c.n.l. di settore, dalla data della risoluzione del rapporto in poi, oltre accessori; condanna(va) l’A.M.A.T. a corrispondere a C.A., per i titoli di cui in motivazione (id est “per danno biologico”) la somma di Euro 33.093,02, oltre accessori e le spese di lite relative ad entrambi i gradi del giudizio”.

Per la cassazione di questa sentenza la s.p.a. A.M.A.T. PALERMO propone ricorso affidato a sei motivi.

L’intimato C.A. resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con il primo motivo di ricorso l’Azienda ricorrente denunciando “violazione e falsa applicazione di norme di diritti e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro in relazione al R.D. n. 148 del 1931, art. 27 ed all’accordo nazionale del 27 giugno 1986” – sottopone a questa Corte il seguente quesito di diritto: “affermi la Corte adita la sussistenza della giusta causa per far luogo all’esonero definitivo del lavoratore, dichiarato inabile alle mansioni della propria qualifica, nell’ipotesi in cui non sussistano posti disponibili in organico per la collocazione in altra qualifica professionale per la quale sussista l’idoneità; affermi, altresì, che, per affermare la sussistenza della giusta causa dell’esonero definitivo del lavoratore inabile, è sufficiente la prova documentale dell’inabilità alle mansioni di istituto e della insussistenza di posti disponibili in organico per la utile ricollocazione in altra qualifica professionae; affermi, infine, che tale prova documentale può essere fornita con ogni mezzo, purchè proveniente da documenti ufficiali del datore del lavoro”.

Con il secondo motivo la ricorrente – denunciando “vizi di motivazione in relazione all’affermata sussistenza da sei posti liberi di impiegato generico” – rileva, a censura della sentenza impugnata, che “l’affermazione di insussistenza di prova al riguardo è motivata in maniera errata e contraddittoria, se non addirittura totalmente immotivata, atteso che, dalle risultanze istruttorie, specialmente documentali, emerge, invece, che, al contrario del convincimento errato dei giudici dell’appello, tale prova era stata ampiamente fornita dall’Azienda attraverso la produzione dei fogli matricolari dei dipendenti aventi titolo prioritario rispetto al C.”.

Con il terzo motivo la ricorrente – denunciando “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 414 c.p.c., n. 4” – rassegna il seguente quesito di diritto: “affermi la Corte adita che, qualora la causa petendi posta a fondamento dell’azione non trovi riscontro nelle risultanze istruttorie, la domanda dovrà esser rigettata, senza possibilità per il giudice di modificarla anche con riferimento ad altre, e diverse, emergenze processuali; affermi, inoltre, che la causa petendi originaria non può esser modificata nel corso del giudizio, perchè, diversamente opinando, la domanda diventerebbe generica, in quanto indeterminata, e non consentirebbe l’esercizio paritario del diritto di difesa e, conseguentemente, un adeguato contraddittorio; affermi, infine, che non è consentito al giudice modificare la causa petendi, neppure usufruendo dei poteri straordinari concessi dalla norma di cui all’art. 421 c.p.c.”.

Con il quarto motivo la ricorrente – denunciando “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè vizi di motivazione” – sottopone i seguenti quesiti di diritto: “affermi la Corte adita che la erronea valutazione delle prove acquisite nel processo è censurabile in sede di legittimità, in quanto comporta la nullità del procedimento logico e giuridico posto a fondamento della decisione, anche sotto il profilo della insufficiente e/o contraddittoria motivazione”.

Con il quinto motivo la ricorrente – denunciando “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 115 c.p.c., nonchè vizi di motivazione” – rassegna il seguente quesito di diritto: “affermi la Corte adita che non può essere affermata la responsabilità del datore di lavoro in ordine alle asserite malattie professionali del lavoratore quando, dalla compiuta istruzione, non risulti scientificamente ed assolutamente provata la dipendenza eziologia di esse dal presunto evento a cui si intendono fare risalire”.

Con il sesto motivo di ricorso l’Azienda ricorrente – denunciando “violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 91 c.p.c.” – sostiene che “intuitivamente, poichè l’odierna ricorrente non poteva essere dichiarata soccombente, non avrebbe dovuto essere condannata alle spese ed anzi, per il regime sancito dall’art. 91 cit., il C. avrebbe dovuto essere condannato al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio”.

2 – E’, anzitutto, da premettere che i quesiti di diritto – come dianzi precisati dalla ricorrente – si caratterizzano per l’estrema genericità ponendosi essi al limite della ammissibilità della relativa impugnativa in quanto formulati in termini tali da non costituire una sintesi logico-giuridica delle questioni prospettate così da non consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quelli decisi dalla sentenza impugnata.

Purtuttavia gli stessi sono stati formulati in modo (appena) sufficiente, per cui deve pertanto essere respinta l’eccezione di inammissibilità proposta sul punto dal controricorrente, così come sono da respingersi le ulteriori eccezioni (sollevate solo con la memoria ex art. 378 c.p.c.) per quanto verrà infra statuito atteso che la stesse non sono state ritualmente precisate.

3 – Tanto premesso, il primo, il secondo ed il quarto motivo di ricorso – da valutarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi – non sono meritevoli di accoglimento.

3/a – Al riguardo, le diffuse censure formulate dall’Azienda ricorrente si sostanziano essenzialmente sull’asserita erronea valutazione, da parte della Corte di appello di Palermo, delle risultanze probatorie (documentali e testimoniali) concernenti la pianta organica aziendale con specifico riferimento alla posizione lavorativa dei dipendenti interessanti comunque la posizione lavorativa del C., con la precisazione che su tale punto – come viene affermato nella sentenza impugnata in riferimento all’ordinanza pronunciata nell’udienza del 24 febbraio 2005 – “l’Azienda specificamente invitata dalla Corte, avrebbe dovuto produrre idonea documentazione comprovante la effettiva indisponibilità dei relativi posti in organico all’atto dell’esonero del C.: avrebbe dovuto, in particolare, precisare se e quanti dei posti anzidetti risultassero, all’epoca, assegnati a dipendenti riconosciuti inidonei e quali dei soggetti prescelti fossero stati dichiarati inidonei in epoca anteriore alla data di riconoscimento delle inidoneità in capo all’odierna appellante: a tale invito, però l’Azienda non ha dato alcun riscontro”.

Comunque, in merito alle doglianze in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (documentali e testimoniali), vale rimarcare che la cennata valutazione rientra nell’attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).

Perverò, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’ esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito a quelli utilizzati. Si rileva, altresì, che le censure con cui una sentenza viene impugnata per vizio della motivazione in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte – pure in relazione al valore da conferirsi alle “presunzioni” la cui valutazione è anch’essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003) – e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id est di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3/b – Con riferimento, inoltre, alle doglianze in ordine agli asseriti vizi di motivazione – che inficerebbero la sentenza impugnata, si precisa che: -) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le censure mosse nella specie dalla ricorrente quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi bati; -) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno un insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -; -) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come, nella specie, esaustivamente ha fatto la Corte di appello di Palermo – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

4 – Anche il terzo motivo di ricorso – in merito all’errata individuazione, da parte della Corte territoriale, della originaria domanda giudiziale – deve essere respinto.

Vale, infatti, il principio generale a merito del quale l’interpretazione operata dal giudice di appello con riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale – nei riscontri relativi al petitum ed alla causa petendi – è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tale riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri di ermeneutica assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunto dall’atto giudiziale (cfr. Cass. n. 17943/2006). In particolare, in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda ovvero la pronuncia su di una domanda non proposta dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c. (e, per le controversie di lavoro, dell’art. 414 c.p.c., n. 4) per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. n. 16596/2005).

Più specificatamente, rientra nella nozione di error in procedendo, a fronte del quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi necessari ai fini della richiesta pronuncia, la censura di omesso esame della domanda e la pronuncia su domanda non proposta, ma non la censura di erronea interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, nè la censura di omessa, contraddittoria o insufficiente motivazione; tuttavia, qualora la censura relativa alla motivazione lamenti un vizio procedurale in cui sia incorso il giudice di merito (una sorta di “error in procedendo” indiretto, o di secondo grado) , ciò consente alla Corte di Cassazione l’esame degli atti del giudizio di merito al limitato fine di verificare che l’errore procedurale che abbia eventualmente commesso il giudice di merito si sia tradotto in un vizio di motivazione (Cass. n. 9471/2004) vizio di motivazione che – per quanto dianzi osservato sub “capo 3/b” – nella specie non sussiste.

5 – Per il quinto motivo di ricorso – relativo alla denunciata errata valutazione, ad opera del Giudice di appello, delle risultanze della consulenza tecnica di ufficio in merito al risarcimento per il danno biologico subito dal C. a causa dell’inadempimento dell’A.M.A.T. – non può essere accolto.

Al riguardo la consulenza tecnica non è un mezzo istruttorie in senso proprio, poichè ha la finalità di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, per cui non è qualificabile come una prova vera e propria e, come tale, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito: sicchè, qualora essa sia stata disposta e ne condivida i risultati, il giudice non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità (così Cass. n. 3881/2006). In particolare – a conferma, nella specie, della inammissibilità delle doglianze della ricorrente – il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motivazione; tale vizio è però denunciabile, in sede di legittimità, solo attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica diretta della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ricorso per cassazione al fine di consentire su di esse, la valutazione di decisività (Cass. n. 18688/2007) e che, nella specie, la ricorrente non ha correttamente proposto.

6 – Si appalesa, infine, palesemente infondato il sesto motivo di ricorso secondo cui “l’Azienda non poteva essere dichiarata soccombente”: affermazione questa chiaramente contraddetta dal risultato finale del giudizio di appello di accoglimento pressochè integrale del ricorso introduttivo del C..

7 – A conferma della pronuncia di rigetto dei motivi del ricorso vale riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 (e, più di recente, di Cass. Sezioni Unite n. 14297/2007) in virtù del quale, essendo state rigettate le principali assorbenti ragioni di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

8 – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. AMAT PALERMO deve essere respinto e l’Azienda ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannata al pagamento, a favore della società controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 60,00 oltre a Euro 3000,00 per onorario ed alle spese generali e agli ulteriori “oneri” di legge.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2010

 

 

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