Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8737 del 13/04/2010

Cassazione civile sez. lav., 13/04/2010, (ud. 09/02/2010, dep. 13/04/2010), n.8737

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 35068/2006 proposto da:

GELCO UNIPERSONALE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TARAMELLI 5, presso

lo studio dell’avvocato MASSIGNANI GIANNI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MASSIGNANI LUCIO, giusta mandato in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.M.S., F.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 516/2006 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 22/08/2006 R.G.N. 635/05 + 1;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO BALLETTI;

udito l’Avvocato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 414 c.p.c., dinanzi al Tribunale – giudice del lavoro di Teramo (depositato il 23 ottobre 2001) D.M.S. conveniva in giudizio la propria datrice di lavoro, s.r.l. GELCO UNIPERSONALE, per impugnare il licenziamento disciplinare comunicatole in data 12 giugno 2001 a seguito delle contestazioni in data (OMISSIS) (“per essersi azzuffata durante l’orario di lavoro con il collega F.L.”) e in data (OMISSIS) (“per un diverbio con il collega D.L.G.”) e sentire dichiarare l’illegittimità di tale licenziamento con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria.

Si costituiva in giudizio la società convenuta che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.

L’adito Giudice del lavoro – con sentenza n. 321 del 7 marzo 2005 – rigettava il ricorso e la relativa sentenza veniva impugnata dalla D.M. con ricorso in appello (r.g. 638/2005). Collateralmente, con distinto ricorso ex art. 414 c.p.c., sempre dinanzi al Tribunale – giudice del lavoro di Teramo (depositato il 23 ottobre 2001), F.L. conveniva in giudizio la propria datrice di lavoro, s.r.l. GELCO UNIPERSONALE, per impugnare il licenziamento disciplinare comminatogli a seguito di contestazione in data (OMISSIS) (“per essersi azzuffato durante l’orario di lavoro con la collega D.M.S.”) e per sentire dichiarare l’illegittimità di tale licenziamento con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria. Anche il questo giudizio si costituiva la società convenuta e l’adito giudice del lavoro – con sentenza n. 320 del 7 marzo 2005 – rigettava il ricorso e il F. impugnava la cennata sentenza con ricorso in appello (r.g. n. 625/2005).

La Corte di appello di L’Aquila – riuniti i summenzionati giudizi -, con sentenza non definitiva n. 516 del 22 agosto 2006, “accoglieva gli appelli dichiarando la illegittimità degli impugnati licenziamenti”.

Per la cassazione di questa sentenza la s.r.l. GELCO UNIPERSONALE propone ricorso sostenuto da due motivi.

Gli intimati F.L. e D.M.S. non hanno spiegato attività difensiva ancorchè ritualmente raggiunti dalla notificazione del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 2967 c.c., e L. n. 604 del 1966, art. 5, nonchè vizi di motivazione” – sottopone a questa Corte i seguenti quesiti di diritto: “1) voglia la Corte adita accertare se la Corte di appello sia incorsa al vizio di violazione e/o falsa applicazione della cennata nozione di legge per avere ritenuto che la s.r.l. GELCO non abbia assolto l’onere della prova, in costanza di una condivisione circa lo svolgimento dei fatti posti a fondamento del recesso e della loro sussumibilità nella casistica contrattuale prevista per la più grave sanzione disciplinare, sulla base di una valutazione di mera proporzione degli stessi a quest’ultima; 2) voglia la Corte adita accertare se la Corte di appello sia incorsa nel vizio di omessa e/o insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per non avere dato conto delle ragioni per le quali abbia ritenuto di dover disattendere il compiuto esame del materiale probatorio operato dal primo giudice e, comunque, per non aver esposto le ragioni del proprio dissenso in merito alla ricorrenza della giusta causa dei licenziamenti ravvisata dal Tribunale”.

Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 2119 c.c., per avere la Corte di appello omesso di valutare circostanze essenziali per formulare il giudizio di proporzionalità, nonchè vizi di motivazione” – rassegna i seguenti quesiti di diritto: “1) voglia la Corte adita accertare se la Corte di appello sia incorsa al vizio di violazione e/o falsa dell’art. 2119 c.c., per avere omesso nella valutazione del giudizio di ricorrenza della giusta causa di licenziamento l’apprezzamento dell’episodio del (OMISSIS), per avere unificato le pur dissimili posizioni dei lavoratori, per avere escluso la proporzionalità della sanzione datoriale sulla scorta di elementi meramente indicativi della gravità dei fatti; 2) voglia la Corte adita accertare se la Corte di appello sia incorsa nel vizio di omessa e/o insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per avere escluso la giusta causa di recesso sulla scorta di un giudizio parametrato ad elementi non decisivi, incongruenti, generici o frutto di personali sensazioni”.

2 – Il primo motivo di ricorso si appalesa infondato.

A parte, infatti, l’estrema genericità dei quesiti di diritto (che caratterizza anche i quesiti posti al termine del secondo motivo) – al limite della loro ammissibilità perchè gli stessi sono stati formulati in termini tali da non costituire una sintesi logico – giuridica delle relative questioni sicchè non consentono al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata -, si rileva che le censure sviluppate nel cennato motivo si sostanziano principalmente in critiche che (come viene asserito dalla società ricorrente) attengono al “giudizio di valore e di misura di disvalore espresso dalla Corte di appello di L’Aquila sugli addebiti disciplinari regolarmente provati”.

Al riguardo la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (Cass. n. 322/2003).

Pervero, il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un’esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati. Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga dedotta l’incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi – mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non avvenuta) – la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. n. 9954/2005).

Si rileva, altresì, che le censure con cui una sentenza venga impugnata per vizio della motivazione in ordine alle valutazioni delle risultanze probatorie non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte – pure in relazione al valore da conferirsi alle “presunzioni” la cui valutazione è anch’essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto già riferito in merito alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003) e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5; in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, idest di una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

3 – Anche il secondo motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento.

Per quanto concerne, infatti, la contestata proporzionalità della sanzione irrogata dalla società rispetto alle infrazioni disciplinari commesse dagli intimati si rimarca che, in tema di licenziamento per giusta causa, spetta unicamente al giudice del merito – e non può essere sindacato in sede di legittimità se, come nella specie, sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o giuridici – l’accertamento che il fatto addebitato sia stato di gravità tale da integrare la fattispecie di cui all’art. 2119 c.c., così, (ex plurimis, Cass. n. 9884/2005, Cass. n. 11674/2005, Cass. n. 8679/2006 (secondo cui “ai fini della valutazione del rapporto di proporzionalità il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa; l’apprezzamento di merito della proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge, peraltro, a censure in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione”)).

Nella specie, la decisione della Corte di appello di L’Aquila – nello statuire la illegittimità della decisione della società di risolvere il rapporto di lavoro per le infrazioni commesse dagli intimati (viene precisato nella sentenza impugnata che “si trattava di una baruffa tra colleghi di lavoro durata in tutto un paio di minuti e l’episodio non lasciava presagire ulteriori sviluppi, e pregiudizi per il datore di lavoro; non è stato preceduto, nè seguito, da fatti rilevanti, e la circostanza che i lavoratori si siano riconciliati non consente un pronostico negativo sul loro comportamento, anche reciproco, una volta ripreso il lavoro”) – è stata corretta.

A ciò la decisione impugnata è pervenuta mediante un percorso motivazionale certamente congruo e sicuramente esente da vizi logico – giuridici, sicchè per contrastare le doglianze proposte sul punto dal ricorrente valgono le considerazioni già sviluppate nel precedente “capo II” sulle modalità di applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (a cui adde Cass. n. 21965/2007 pressochè in termini).

4 – A definitiva conferma della pronuncia di rigetto del ricorso vale, infine, riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura così relativamente all’infrazione confermativa (solo apoditticamente asserita) addebitata alla D.M. di un successivo “diverbio con il collega D.L.”.

4 – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.r.l. GELCO UNI PERSONALE deve essere integralmente respinto.

Nulla deve essere disposto in ordine alle spese del giudizio di cassazione atteso il mancato espletamente di attività difensiva da parte degli intimati.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2010

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