Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8727 del 13/04/2010

Cassazione civile sez. III, 13/04/2010, (ud. 03/03/2010, dep. 13/04/2010), n.8727

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente –

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere –

Dott. URBAN Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12167/2006 proposto da:

M.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 8, presso lo studio dell’avvocato CRISCI

Francesco, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PASQUINELLI ENRICO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M. (OMISSIS);

– intimata –

sul ricorso 16193/2006 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A.

DEPRETIS 86, presso lo studio dell’avvocato CAVASOLA PIETRO, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati LEVONI FEDERICO, ADANI

ROSSELLA giusta delega a margine del controricorso e ricorso

incidentale;

– ricorrente –

contro

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 8, presso lo studio dell’avvocato CRISCI FRANCESCO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASQUINELLI ENRICO

giusta delega a margine del ricorso principale;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 479/2005 del TRIBUNALE di MODENA, depositata

l’11/03/2005, R.G. N. 1694/01;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

03/03/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito l’Avvocato FRANCESCO CRISCI;

udito l’Avvocato PIETRO CAVASOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

incidentale e il rigetto del ricorso principale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto 16 luglio 1998 M.P. ha convenuto in giudizio, innanzi al giudice di pace di Mirandola C.M. perchè fosse accertato il suo diritto di proprietà su un orologio Rolex Day Data Oyster detenuto senza titolo dalla convenuta, con condanna della stessa alla restituzione dello stesso.

Costituitasi in giudizio la convenuta ha chiesto il rigetto della avversa domanda con condanna dell’attore al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c., atteso che l’orologio descritto nella citazione introduttiva non le era stato concesso in prestito dall’attore (come da costui dichiarato) ma donatole.

Svoltasi la istruttoria del caso il giudice di pace adito con sentenza 29 – 31 marzo 2000 ha rigettato la domanda attrice nonchè la domanda ex art. 96 c.p.c., proposta dalla convenuta.

Gravata tale pronunzia in via principale dal M. e in via incidentale dalla C. il tribunale di Modena con sentenza 28 gennaio – 11 marzo 2005 ha rigettato l’appello principale e accolto quello incidentale con condanna del M. al pagamento delle spese del giudizio di primo grado.

Per la cassazione di tale ultima sentenza, non notificata, ha proposto ricorso, affidato a sei motivi e illustrato da memoria, M.P..

Resiste, con controricorso e ricorso incidentale, affidato a tre motivi C.M..

Il M. resiste, con controricorso al ricorso incidentale della C..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I vari ricorsi, avverso la stessa sentenza devono essere riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. Il primo giudice ha rigetto la domanda del M. sul rilievo – assorbente – che costui aveva fondato il proprio diritto a ottenere la restituzione dell’orologio descritto nella citazione introduttiva sulla base di un preteso contratto di comodato intervenuto tra le parti, contratto di cui non aveva offerto alcuna prova.

L’appellante lamenta – ha osservato il giudice di secondo grado – che il primo giudice abbia errato nell’affermare che era onere probatorio dell’attore dimostrare che la consegna del bene era avvenuta a titolo di comodato, poichè il titolo in base al quale agiva era il diritto di proprietà e non il contratto di comodato ed il diritto di proprietà sarebbe stato adeguatamente provato mediante la produzione in giudizio del certificato di garanzia dell’orologio.

L’appello – ha precisato il giudice di appello – è solo in certa prospettazione fondato e comunque la sentenza va confermata, seppure per motivi diversi da quelli oggetto di censura.

Esposti i principi generali in tema di azione di revindica e di restituzione, il tribunale ha osservato che “la prospettazione di una azione personale e non reale è preclusa nella presente sede di appello, nella quale a chiare lettere l’attore appellante sgombra il campo da ogni possibile equivoco circa l’azione proposta in primo grado e chiedendo accertarsi che l’orologio è di sua proprietà e conseguentemente condannarsi la convenuta alla restituzione dimostra di promuovere azione reale fondata sul diritto di proprietà”.

Dunque – ha concluso il giudice di secondo grado – l’attore- appellante ha proposto un’azione di rivendica fondata sull’ accertamento del suo diritto di proprietà.

Stando così le cose, pur vero che il giudice di prime cure ha errato (non tanto nell’applicare i generali principi attinenti all’onere della prova quanto) nell’interpretare e qualificare la domanda attorea, sì da trarne conseguenze sul piano giuridico e probatorio inesatte, nondimeno l’appello va rigettato proprio in applicazione degli ordinari principi in tema di onere della prova perchè l’attore non ha fornito la prova rigorosa della proprietà richiesta nell’ azione di rivendica ex art. 948 c.c., e data dalla dimostrazione del diritto di proprietà anche attraverso i propri danti causa sino a risalire ad un acquisto a titolo originario (all’uopo evidentemente non sufficiente la produzione del certificato di garanzia dell’orologio).

3. La sentenza è censurata sia dal ricorrente principale che da quella incidentale.

4. La ricorrente incidentale le cui censure devono esaminarsi con precedenza, rispetto a quelle del ricorrente principale, lamenta, con il primo motivo “violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 (omessa dichiarazione di inammissibilità di domanda nuova e conseguente pronuncia su domanda nuova inammissibile)”, per avere affermato che controparte aveva proposto una domanda di natura reale (anzichè personale come correttamente ritenuto dal primo giudice).

5. Il motivo è inammissibile.

Contrariamente a quanto assume la ricorrente incidentale il giudice del merito non si è pronunciato (ancorchè per rigettarla) su una domanda “nuova” introdotta dal M. unicamente in grado di appello, in ispregio della regola di cui all’art. 345 c.p.c., nella quale eventualità l’assunto della ricorrente incidentale avrebbe avuto un qualche spessore.

Il giudice di appello, infatti, si è limitato a interpretare ancorchè, eventualmente erroneamente, sulla base delle precisazioni formulate in grado di appello il contenuto della domanda attrice già formulata in primo grado.

Pacifico quanto sopra è evidente che si è a fronte a una attività rimessa in via esclusiva al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente nei limiti del vizio di motivazione, nella specie neppure in tesi prospettato (tra le tantissime, in tale senso, cfr. Cass. 19 novembre 2009, n. 24399; Cass. 29 settembre 2009, n. 20870) e non certamente sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4.

6. Alla dichiarata inammissibilità della censura sviluppata nel primo motivo segue la inammissibilità – per difetto di interesse – del secondo motivo del ricorso incidentale per avere omesso il giudice di appello di pronunciarsi sull’azione personale di restituzione e per avere sindacato la statuizione del primo giudice, quanto al rigetto di tale domanda.

Certo, infatti, che correttamente il giudice di secondo grado ha proceduto a una diversa qualificazione della domanda sono irrilevanti le censure sviluppate nel secondo motivo di ricorso incidentale (sul presupposto, risultato erroneo, che nella specie sia stata proposta una domanda personale di restituzione).

7. Il ricorrente principale, per suo conto, denunzia la sentenza impugnata lamentando:

– da una parte, il rigetto della propria domanda in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, denunziando la violazione, sia dell’art. 948 c.c., (primo motivo) sia dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.c. (secondo motivo);

– dall’altra, la distribuzione delle spese di lite, con conseguente denunziata violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. (terzo motivo);

– da ultimo, la ritenuta – da parte del primo giudice – avvenuta donazione dell’orologio oggetto di controversia quarto, quinto e sesto motivo.

8. Neppure il ricorso principale, per più profili inammissibile, per altri manifestamente infondato, può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

8.1. Giusta quanto assolutamente pacifico – presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice e da cui totalmente e senza alcuna motivazione totalmente prescinde la difesa della ricorrente il vizio di violazione di legge – rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge assegnata dalla Corte di Cassazione).

Viceversa, la allegazione – come prospettate nella specie da parte del ricorrente – di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le tantissime, ad esempio, Cass. 4 marzo 2010, n. 5207, specie in motivazione).

8. 2. Pacifico quanto precede si osserva che principio fondamentale, in materia di rivendicazione, è quello per cui, nel giudizio di revindica, l’attore è onerato della prova dell’asserito diritto dominicale con la precisazione, tuttavia, che il principio stesso deve essere interpretato in relazione alle peculiarità di ciascun caso concreto sottoposto all’esame del giudice del merito, dacchè, in ragione di tali peculiarità, possono assumere rilevanza, non solo le caratteristiche particolari della vicenda proprietaria, ma anche il contenuto della difesa di volta in volta opposta dal convenuto, nel rispetto del diverso e più generale principio per cui le dichiarazioni del possessore o del detentore possono essere ritenute significative, se interpretate nel complessivo contesto di tutte le risultanze relative alla condotta del soggetto, secondo un criterio di valutazione oggettiva (In termini, ad esempio, Cass. 12 marzo 2008, n. 6521, specie in motivazione).

In particolare, la circostanza che il rigore dell’onere probatorio in materia di rivendicazione non possa non attenuarsi quando il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene rivendicato, o in presenza di beni mobili, non esclude che detto onere possa limitarsi – come ora invoca il ricorrente principale – a una mera, indimostrata e apodittica affermazione senza alcun riscontro.

In altri termini come già evidenziato da risalente giurisprudenza, dalla presunzione di buona fede nel possesso, fissata dall’art. 1147 c.c., comma 3, deriva che all’attore in rivendicazione di bene mobile è sufficiente provare di aver acquistato il possesso della cosa in base a titolo astrattamente e potenzialmente idoneo al trasferimento della proprietà (art. 1153 c.c.) (cfr. Cass. 18 febbraio 1977, n. 736) e nella specie tale prova – come sottolineato dalla sentenza impugnata – è totalmente mancata.

8. 3. Quanto, ancora, alla lamentata violazione dell’art. 2697 c.c., si osserva la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura soltanto nella ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2935;

Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155).

Certo quanto sopra non risulta in alcun modo che il giudice di appello sia incorso nella denunziata violazione dell’art. 2697 c.c., ove solo si consideri che la domanda attrice è stata rigettata proprio in considerazione della circostanza che l’attore gravato del relativo onere non aveva dato alcuna prova di essere il proprietario dell’orologio per cui è causa.

8.4. Inammissibili, per carenza di interesse, sono – poi – tutte le considerazioni svolte nel quarto, nel quinto, e nel sesto motivo di ricorso, per non avere i giudici del merito rilevato la nullità – per difetto di forma – dell’eventuale donazione dell’orologio da parte di esso attore alla ex fidanzata.

Al riguardo è sufficiente tenere presente che ancorchè la convenuta si fosse difesa, in primo grado, invocando di avere ricevuto l’orologio oggetto di controversia in dono (stanti i rapporti sentimentali tra le parti) nè la sentenza del primo giudice, nè quella di appello hanno compiuto alcun accertamento, suscettibile di giudicato, su tale circostanza essendo stata rigettata sia in primo grado che in appello la domanda dell’attore sulla base di considerazioni totalmente diverse.

8.5. Manifestamente infondato, è, da ultimo, il terzo motivo del ricorso incidentale, quanto alla regolamentazione delle spese da parte del giudice di appello.

Quest’ultimo, in particolare, mentre ha condannato l’attore al pagamento delle spese del giudizio di primo grado ha compensato tra le parti quelle di appello.

Assume il ricorrente principale che tale statuizione è stata adottata in violazione del precetto di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c., attesa la riforma della sentenza di primo grado.

La deduzione – come anticipato – è manifestamente infondata.

Alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, il giudice di appello allorchè riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio ad una nuova regolamentazione delle intere spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, poichè l’onere delle stesse deve essere attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della controversia (Cass. 18 luglio 2005, n. 15112; Cass. 22 agosto 2006, n. 18238, Cass. 4 giugno 2007 n. 12963; Cass. 7 agosto 2008 n. 21402) e tenuto presente, altresì che in base al principio fissato dall’art. 336 c.p.c., comma 1, la riforma della sentenza ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla parte riformata (cosiddetto effetto espansivo interno), sì che la riforma, anche parziale, della sentenza di primo grado determina la caducazione ex lege della statuizione sulle spese (Cass. 4 giugno 2007, n. 12963; Cass. 5 giugno 2007 n. 13059, Cass. 22 dicembre 2009 n. 26985) Pacifico quanto sopra, pacifico che al termine dei primi due gradi di giudizio il M. è rimasto totalmente soccombente, non avendo visto accogliere, neppure in parte, la domanda proposta nei confronti della C., è palese che correttamente lo stesso è stato ritenuto “soccombente” dal giudice di appello che del tutto correttamente, in applicazione dei propri poteri di cui all’art. 92 c.p.c., ha compensato le spese di lite di uno dei gradi del giudizio.

9. Entrambi i ricorsi, conclusivamente, risultati totalmente infondati, devono rigettarsi, con compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità (attesa, in esito allo stesso la reciproca soccombenza).

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi e li rigetta;

compensa, tra le parti, le spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2010

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