Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8725 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 30/03/2021, (ud. 02/10/2020, dep. 30/03/2021), n.8725

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – est. Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 18160/2013 proposto da:

Z.R. (CF (OMISSIS)) in proprio e quale socio e legale rapp.te

p.t. della società Al Bottegon s.n.c. di Z.R. & C. (CF

(OMISSIS)), e K.B. (CF (OMISSIS)), rapp.ti e difesi per

procura a margine del ricorso dall’avv. Carlo Amato e dall’avv.

Giuseppe Marini, elettivamente domiciliati presso lo studio di

quest’ultimo in Roma alla via di Villa Sacchetti, n. 9;

contro

– ricorrenti –

AGENZIA DELLE ENTRATE, (CF (OMISSIS)), in persona del Direttore p.t.,

rapp.ta e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

elettivamente domiciliata in Roma alla v. dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4/2013 depositata in data 15 gennaio 2013

della Commissione tributaria regionale del Veneto;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 2 ottobre 2020 dal relatore Dott. Aldo Ceniccola.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 4/2013, depositata il 15 gennaio 2013, la Commissione tributaria regionale di Venezia-Mestre respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e quello riunito proposto da Z.R., in proprio e quale legale rappresentante della società Al Bottegon s.n.c. di Z.R. & C., e da K.B., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso che, in parziale accoglimento del ricorso dei contribuenti, aveva rideterminato i maggiori ricavi in Euro 80 mila, con tutte le ulteriori conseguenze nei confronti dei soci.

Osservava la CTR, per quanto ancora rileva, che le questioni sollevate dalle parti private non potevano essere condivise in quanto, come correttamente evidenziato nella sentenza gravata, l’accertamento dei maggiori ricavi conseguiti, operato dall’Ufficio, si fondava su numerosi indizi gravi, precisi e concordanti. I giudici di primo grado, inoltre, pur evidenziando la solidità e correttezza dell’impianto ricostruttivo utilizzato dall’Ufficio, avevano ritenuto altrettanto fondate, in ordine al raggiungimento della piena prova della misura dei ricavi accertati, alcune considerazioni svolte dai ricorrenti, apportando alcuni correttivi nella ricostruzione dei ricavi entro margini di elasticità ragionevoli e compatibili con le argomentazioni difensive, senza tuttavia completamente stravolgere l’operato dell’Ufficio e procedendo ad una complessiva valutazione delle caratteristiche particolari dell’esercizio in questione.

Anche le eccezioni di diritto, ritenute non condivisibili nella sentenza gravata e riproposte in appello, andavano, secondo la CTR, respinte.

Quanto all’eccepita illegittimità degli avvisi di accertamento per violazione dell’obbligo di sottoscrizione da parte del capo dell’Ufficio o altro impiegato della carriera direttiva, nel caso in esame nessun dubbio vi era sulla provenienza soggettiva dell’atto, sottoscritto da un funzionario legittimato in virtù di delega conferita con atto interno, ritualmente depositato in giudizio.

Quanto all’eccepita carenza di motivazione, secondo la CTR l’atto risultava correttamente e chiaramente motivato, sì da consentire un’ampia ed articolata difesa da parte della società e dei soci; quanto all’osservanza delle regole in tema di onere probatorio, l’accertamento dei maggiori ricavi, effettuata dall’Ufficio, era stata operata ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, comma 3, che consente il ricorso anche alle presunzioni semplici, purchè provviste dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, nelle ipotesi in cui sia stata rilevata la falsità ed incompletezza della dichiarazione.

In ordine agli eccepiti errori nella ricostruzione dei ricavi, la quantificazione era stata, secondo la CTR, effettuata correttamente, come da documentazione in atti, sulla base dei prodotti acquistati e delle indicazioni fornite dalla parte circa la quantificazione delle dosi necessarie per la preparazione delle bevande.

Anche le sanzioni erano state correttamente motivate, in quanto l’Agenzia aveva notificato l’avviso di accertamento contenente la loro irrogazione anche al socio di maggioranza, quale autore delle violazioni, con la conseguenza che, con l’indicazione dei comportamenti illegittimi posti in essere per conto della società dal legale rappresentante, l’obbligo di motivazione risultava pienamente soddisfatto.

Avverso tale sentenza Z.R., in proprio e quale legale rapp.te della s.n.c. Al Bottegon di Z.R. & C., e K.B. propongono ricorso per cassazione affidato a sei motivi. Resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione del combinato disposto della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la sentenza impugnata ritenuto lesiva dei diritti dei contribuenti la mancata allegazione, all’avviso di accertamento, del p.v.c. e degli atti a quest’ultimo allegati.

1.1. Tali documenti avrebbero dovuto essere allegati all’avviso al fine di consentire ai contribuenti di appurare fin dal principio la legittimità dell’atto, sia sotto il profilo della motivazione, sia sotto il profilo del rispetto delle cautele finalizzate alla garanzia di un corretto utilizzo della documentazione.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. I contribuenti si dolgono della mancata allegazione del p.v.c. all’avviso di accertamento, senza però negare (ma anzi implicitamente ammettendo) di averne conseguito la piena conoscenza: secondo i ricorrenti, infatti, l’art. 7 cit., “non facendo salvi i casi in cui l’atto richiamato sia stato già portato a conoscenza del contribuente, non potrebbe che intendersi come operante anche in riferimento a quelle ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria abbia preventivamente portato a conoscenza del contribuente l’atto poi recepito nel provvedimento impositivo” (cfr. testualmente pag. 61 del ricorso).

1.4. Tale assunto, però, contrasta con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “In tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione. (Nella specie, l’avviso di accertamento era stato motivato con riferimento ad un processo verbale di constatazione, precedentemente consegnato in copia previa sottoscrizione)” (Cass. 14.01.2015, n. 407, e da ultimo Cass. 19.11.2019, n. 29968).

2. Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 39 e 40, e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, nonchè della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, a causa dell’omessa indicazione nell’avviso di accertamento della normativa in base alla quale quest’ultimo era stato adottato.

2.1. Secondo i contribuenti, l’Ufficio aveva accertato maggiori ricavi, richiamando genericamente gli artt. 39 e 40 cit., ma nessuna indicazione effettiva era stata fornita in ordine alla tipologia di accertamento utilizzata, se analitica ovvero induttiva, sicchè in tale situazione i ricorrenti non erano stati posti in grado di verificare se l’Amministrazione finanziaria avesse effettivamente rispettato il dettato normativo, quanto ai distinti presupposti indicati nell’atto impugnato e quanto ai corrispondenti oneri probatori e dimostrativi.

2.2. Il motivo è infondato.

2.3. La CTR ha evidenziato con chiarezza che l’accertamento era stato condotto ai sensi del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies, comma 3, e che esso operava un espresso riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), per cui la doglianza, secondo la quale vi sarebbe stata una completa menomazione del diritto di difesa, in quanto l’Ufficio non avrebbe messo i ricorrenti in condizione di conoscere e valutare la fattispecie concretamente applicata, è del tutto priva di fondamento.

2.4. Ai sensi dell’art. 62-sexies cit., infatti, “gli accertamenti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e succ. modif., e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e succ. modif., possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi del presente decreto, art. 62-bis”, per cui è proprio il richiamo a questa normativa di riferimento (e dunque al suo contenuto) che ha soddisfatto l’interesse dei contribuenti alla piena conoscenza, permettendo loro di individuare la fattispecie astratta nella quale l’Ufficio ha inteso sussumere la concreta attività accertatrice; tanto più che, come si evince dall’esame del terzo motivo, i ricorrenti dimostrano la piena consapevolezza del metodo di accertamento adoperato dall’Ufficio, sicchè lo stesso motivo di ricorso si traduce nella doglianza di un vizio meramente formale e sostanzialmente inoffensivo.

3. Il terzo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per essere il provvedimento impugnato illegittimo per carenza di un suo presupposto: l’Ufficio, infatti, avrebbe utilizzato il metodo di accertamento induttivo-extracontabile pur in assenza dei presupposti normativi richiesti per tale tipologia di accertamento, laddove la CTR avrebbe errato nel ritenere giustificata l’adozione di tale criterio.

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. La CTR ha testualmente osservato che l’accertamento “è stato effettuato D.L. n. 331 del 1993, ex art. 62-sexies, comma 3, e in motivazione si fa espresso riferimento all’applicazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies”; i ricorrenti si dolgono, invece, della violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 39, comma 2 (accertamento extra-contabile), e dunque della violazione di una norma che nel caso di specie non risulta affatto applicata dalla CTR.

4. Il quarto motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2727 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata non rilevato e sanzionato con l’annullamento del provvedimento il divieto di trarre presunzioni da altre presunzioni.

4.1. Secondo i ricorrenti, infatti, nel caso di specie nessun elemento di prova sarebbe stato addotto dall’Agenzia a dimostrazione del fatto che effettivamente la società avesse realizzato ricavi extra-bilancio, tale dato costituendo l’oggetto di una mera supposizione del tutto insufficiente a fondare una valida ricostruzione presuntiva.

4.2. Il motivo è infondato.

4.3. In primo luogo, infatti, questa Corte ha anche di recente rimarcato che “Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile nè agli artt. 2729 e 2697 c.c., nè a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto” (Cass. 1.8.2019, n. 20748).

4.4. Inoltre, anche al di là del formale richiamo alla (asserita) violazione del divieto di doppia presunzione, il motivo è infondato anche nella parte in cui lamenta che l’atto impositivo si sarebbe basato su una catena di illazioni, non risultando provate, a dire dei ricorrenti, nè la sussistenza di incongruenze tra beni prodotti e quelli ceduti, nè la discrasia della determinazione dei ricavi sottesa dall’Ufficio, nè la cessione di beni in evasione dell’imposta, nè la determinazione degli importi asseritamente non contabilizzati.

4.5. Trattasi, infatti, di doglianze che irrimediabilmente contrastano con quanto accertato in punto di fatto dalla CTR che, condividendo il percorso argomentativo dei giudici di primo grado, ha ritenuto fondati i risultati dell’azione accertatrice (pienamente condividendo, per altro, i correttivi nella ricostruzione dei ricavi apportati dai primi giudici); la doglianza, dunque, si traduce in un’inammissibile contestazione, mediante la contrapposizione di un difforme apprezzamento, della valutazione degli elementi di fatto operata dai giudici di merito.

5. Il quinto motivo evidenzia la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per assoluta contraddittorietà della motivazione: da un lato, infatti, l’Ufficio non aveva esposto le concrete ragioni per le quali le scritture contabili dovevano reputarsi irregolari (essendo, al contrario, l’accertamento viziato da una serie di errori causati dalla pretermissione della effettività storica dei dati delle varie somministrazioni dei prodotti); dall’altro la CTR sarebbe caduta l’contraddizione in quanto, pur avendo condiviso la diminuzione dei ricavi accertati (condividendo l’assunto del primo giudice), avrebbe subito dopo condiviso in toto la ricostruzione degli stessi come operata dall’Ufficio.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. Premesso che una significativa porzione della narrativa del motivo, allorchè ripropone la questione degli errori commessi nella fase dell’accertamento (con riferimento al calcolo delle dosi di somministrazione delle bevande: spritz, bicchierini, prosecco, caffè, ecc.), mira (come già osservato in relazione al precedente motivo) inammissibilmente a prospettare un apprezzamento dei fatti differente da quello posto a fondamento della decisione di merito, va in ogni caso rimarcato che nessuna sostanziale contraddizione si ravvisa nella motivazione resa dalla CTR, in quanto, se è vero che essa condivide la rideterminazione dei ricavi operata dalla CTP e nel contempo esclude la sussistenza di errori nella ricostruzione di ricavi, si tratta all’evidenza di una contraddizione del tutto apparente.

5.3. La CTR ha, infatti, precisato che il giudici di primo grado, proprio sulla base delle contestazioni svolte dai ricorrenti, avevano ritenuto di apportare alcuni correttivi nella riconduzione dei ricavi entro margini di elasticità ragionevoli, senza tuttavia stravolgere del tutto l’operato dell’Ufficio ed adeguando l’accertamento alle caratteristiche particolari dell’esercizio, in tal modo rendendo evidente che, se da un lato la riduzione dei ricavi andava condivisa, andava parimenti esclusa la sussistenza di errori ulteriori (cioè diversi da quelli già emendati dal primo giudice).

6. Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, artt. 7,11,16 e 17 (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in quanto le sanzioni irrogate non potevano essere applicate per omessa o carente motivazione, per l’illegittima individuazione in capo al sig. Z. della figura dell’autore della violazione e perchè, infine, la stessa tipologia della verifica (calcolo induttivo di presunti omessi ricavi) non avrebbe consentito di individuare nel sig. Z. in modo chiaro ed univoco l’autore degli atti illegittimi.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Quanto al profilo dell’asserita assenza di motivazione, a fronte dell’affermazione della CTR, che ha ritenuto l’avviso di accertamento correttamente motivato, i ricorrenti, anzichè ritrascrivere specificamente il contenuto dell’avviso di accertamento, onde far constatare la lamentata carenza di motivazione, si limitano a riproporre la doglianza negli stessi termini in cui l’avevano sottoposta ai giudici precedenti, per cui il profilo difetta di autosufficienza.

6.3. Quanto all’imputazione delle sanzioni, insuperato resta il rilievo svolto dalla CTR che ha individuato nel legale rappresentante il sottoscrittore del Mod. Unico 2005, con conseguente corretta applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11, secondo il quale si presume autore della violazione chi ha sottoscritto (ovvero compiuto) l’atto illegittimo.

7. Le ragioni che precedono impongono il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Pone le spese del giudizio di legittimità a carico dei ricorrenti, liquidandole in Euro 5600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

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