Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8722 del 30/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 30/03/2021, (ud. 10/09/2020, dep. 30/03/2021), n.8722

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9276-2013 proposto da:

E QUATTRO SRL LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PREMUDA 6, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CODERONI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI QUADRI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, DIREZIONE CENTRALE, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, DIREZIONE CENTRALE MONZA E BRIANZA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 120/2012 della COMM. TRIB. REG. Lombardia,

depositata il 18/10/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/09/2020 dal Consigliere Dott. MICHELE CATALDI.

 

Fatto

CONSIDERATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate, all’esito di verifica fiscale con accesso presso la contribuente, notificò alla E. Quattro s.r.l. in liquidazione un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2005, in materia di Ires, Irap ed Iva, contestando alla contribuente l’omessa contabilizzazione di ricavi relativi alla compravendita di immobili.

Avverso l’accertamento la contribuente propose ricorso, che l’adita Commissione tributaria provinciale di Milano rigettò.

2. Proposto appello dalla contribuente, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 120/35/12, depositata il 18 ottobre 2012, ha rigettato l’impugnazione.

3. La contribuente propone ora ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidato a cinque motivi.

4. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

RILEVATO

che:

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 76 e 109, sostenendo che l’avviso d’accertamento avrebbe erroneamente per oggetto esclusivamente il periodo d’imposta che si esaurirebbe nell’unico giorno 31 dicembre 2005, data alla quale si riferiva la dichiarazione Modello Unico 2006 presentata, ai fini Ires ed Irap, dal liquidatore della società ricorrente, dopo che quest’ultima era stata messa in liquidazione. Tuttavia, le compravendite accertate quali titoli dei maggiori ricavi non dichiarati sarebbero invece avvenute nella parte (dall’1 gennaio al 30 dicembre 2005) del medesimo anno d’imposta 2005, cui si riferirebbe la precedente dichiarazione Modello Unico 2006, avente ad oggetto, ai fini Ires ed Irap, la fase antecedente la messa in liquidazione della medesima società.

2. Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce nuovamente la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 76 e 109, per le medesime argomentazioni di cui al primo motivo.

2.1. I primi due motivi, per la loro sovrapponibilità sostanziale, vanno trattati congiuntamente e sono inammissibili, in quanto mirano, nella sostanza, a contrapporre all’accertamento, da parte della CTR, del dato fattuale secondo cui “l’accertamento è chiaramente rivolto all’intero anno 2005”, derivante dall’interpretazione dell’atto impositivo, la differente versione della contribuente, peraltro tautologicamente basata sulla mera affermazione del contrario. Non è tuttavia consentito, in questa sede di legittimità, attingere il merito fattuale della decisione impugnata, tanto meno ove si pretenda meramente di contrapporre ad esso la ricostruzione fattuale sostenuta dalla parte ricorrente.

3. Il terzo motivo è così formulato nel ricorso: “Violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in merito a quanto dispone la Dir. n. 2006/112/CE, violazione falsa applicazione della stessa, in combinato disposto con il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”.

Il motivo è inammissibile, atteso che la sua formulazione sovrappone contemporaneamente diversi mezzi d’impugnazione, tra loro incompatibili per contraddizione logica, non consentendo l’individuazione univoca della specie di censura proposta dalla ricorrente, senza che a tal fine possa legittimamente farsi ricorso ad un inammissibile intervento di selezione e specificazione da parte di questa Corte (arg. da Cass. 23/10/2018, n. 26874, anche in motivazione; sulla distinzione tra omessa pronuncia e violazione di legge cfr. altresì Cass. 17/01/2003, n. 604, in motivazione).

Nel caso di specie, il motivo attinge l’assunta pretesa dell’Ufficio di sostenere l’occultamento di imponibile, derivante dalle alienazioni immobiliari in questione, sulla base del mero scostamento tra i corrispettivi dichiarati negli atti di trasferimento ed il valore normale degli immobili compravenduti, quantificato applicando le quotazioni dell’Osservatorio mercato immobiliare (O.M.I.).

Sul punto, la ricorrente denuncia, contemporaneamente, sia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – l’asserita omessa pronuncia del giudice a quo, in contrasto con l’art. 112 c.p.c., in ordine alla relativa censura, sollevata dalla contribuente nei giudizi di merito; sia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la pretesa violazione di legge, nella quale sarebbe incorsa la CTR nel decidere sulla medesima questione.

E’ tuttavia evidente che, già sul piano logico, l’affermazione che il giudice a quo non si sia pronunciato sul punto non è conciliabile con quella contestuale che, sulla medesima questione, egli abbia invece reso una pronuncia, ma viziata dalla violazione di legge.

Pertanto (neppure potendo ricavarsi dal corpo del motivo specifici ed univoci elementi indicatori della proposizione di una soltanto delle censure contemporaneamente e pariteticamente formulate) il motivo è inammissibile nella sua interezza.

3.1. Tanto premesso in ordine all’inammissibilità del motivo, è opportuno peraltro aggiungere che non vi è, nella sentenza impugnata, l’omessa pronuncia lamentata dalla ricorrente, poichè la motivazione, per quanto sinteticamente, argomenta specificamente sulla questione della rideterminazione dei corrispettivi e quindi dei ricavi, facendo peraltro riferimento non solo al “valore normale degli immobili”, pur espressamente citato per inciso, ma contemporaneamente anche all’incongruenza della percentuale di ricarico che deriverebbe dai dati dichiarati dalla contribuente.

3.2. Sempre premessa la rilevata inammissibilità dell’intero motivo, appare comunque opportuno aggiungere che (per quanto è dato rilevare dal corpo del motivo, in particolare da quanto puntualizzato alle pagg. 15 ss. del ricorso) la pretesa violazione di legge prospettata dalla contribuente si sostanzia nella violazione della L. 7 luglio 2009, n. 88, art. 24, comma 4, lett. f), e comma 5, (legge comunitaria del 2008).

Infatti, con parere espresso nell’ambito del procedimento di infrazione n. (OMISSIS), la Commissione Europea aveva rilevato l’incompatibilità – in relazione all’Iva, ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette – delle disposizioni introdotte dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35, con la Dir. comunitaria n. 2006/112/CE, in tema di base imponibile Iva, osservando che: “(…) è perfettamente legittimo correggere l’imponibile laddove esistano prove o indicazioni segnalanti che il pagamento reale effettuato differisce da quello dichiarato, tuttavia il solo fatto che l’ammontare dichiarato sia più basso del valore di mercato non può essere in sè addotto come prova (…)”.

Pertanto, con la predetta novella, il legislatore nazionale è intervenuto:

a) sul D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 3, prevedendo che: “L’Ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui all’art. 51, comma 2, ai nn. 2), 3) e 4), dagli elenchi allegati alle dichiarazioni nonchè da altri atti e documenti in suo possesso”;

b) sul D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), stabilendo che: “Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica:(…) d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonchè dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32. L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.

Rileva dunque la contribuente che la L. 7 luglio 2009, n. 88, ha già recepito le indicazioni, in ordine all’ammontare delle operazioni imponibili in caso di cessione di beni, di cui alla predetta Dir. n. 2006/112/CE, apportando le citate modifiche alle norme nazionali e determinando l’abrogazione della presunzione legale introdotta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 3, con la conseguenza che lo scostamento tra il valore dichiarato dei beni ceduti e quello determinato dall’Osservatorio del mercato immobiliare (O.M.I.) integra una presunzione semplice che, ai fini dell’accertamento di imponibile occultato, deve essere supportata anche da diversi elementi presuntivi.

E’ dunque rispetto alla violazione delle predette norme di diritto nazionale, come già adeguate a quello comunitario, che la contribuente (cfr. pagg. 15 ss. del ricorso) ha circoscritto il riferimento a “quanto dispone la Dir. n. 2006/112/CE, violazione falsa applicazione della stessa, in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 54, comma 3, lett. d)”, di cui alla rubrica del motivo, nel senso che il giudice a quo avrebbe errato nell’interpretare ed applicare il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett d), e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, come novellati.

Sulla questione, questa Corte ha più volte affermato che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla modifica del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 3, convertito, con modifiche, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi (così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti), l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (cfr., ex plurimis, Cass. 12/04/2017, n. 9474; Cass. 21/12/2016, n. 26487; Cass. 18/11/2016, n. 23485; Cass. 12/11/2014, n. 24054; Cass. 11/05/2018, n. 11439, in materia d’imposta di registro; Cass. 25/1/2019, n. 2155; Cass. 19/09/2019, n. 23379, in materia d’imposta sul valore aggiunto); “sicchè la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti (Cass. 20429/2014; 9474/2017; 11439/2018), secondo ordinari criteri di accertamento analitico/induttivo (39 TUIR), laddove vi sia stata verifica fiscale (decreto IVA, art. 54, comma 2)” (Cass. 04/04/2019, n. 9453, in motivazione).

Pertanto, “In tema di accertamento induttivo, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, come modificati dalla L. n. 88 del 2009, art. 24, hanno effetto retroattivo, in considerazione della finalità della citata L. n. 88, di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, sicchè, venuta meno “ex tunc” la presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, menzionati artt. 39 e 54, conv., con modif., dalla L. n. 248 del 2006, la prova dell’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti. (ex plurimis Cass. 18/11/2016, n. 23485 del 18/11/2016, cit.; cfr. altresì Cass. 09/06/2017, n. 14388, secondo cui l’accertamento induttivo di un maggior reddito derivante dalla cessione di beni immobili può essere fondato anche soltanto sul dato indiziario derivante dal mutuo erogato all’acquirente, ciò non comportando alcuna violazione delle norme in materia di onere della prova.).

Ed in particolare, tra gli elementi indiziari rilevanti, questa Corte ha ritenuto sufficiente anche la sproporzione tra ricavi e costi relativi agli immobili venduti, in quanto comportamento contrastante con i criteri di economicità e costituente elemento indiziario grave e preciso della sottofatturazione dei relativi corrispettivi (Cass. 20/02/2020, n. 4410). Infatti, “secondo la giurisprudenza di questa Corte l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni. Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purchè preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata.” (Cass. 30/10/2018, n. 27552, in motivazione).

Inoltre, con specifico riferimento all’imposta sul valore aggiunto, questa Corte ha, anche recentemente, più volte ritenuto, con orientamento che si intende qui ribadire, che: “In tema di accertamento dell’IVA, la riformulazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, ad opera della L. n. 88 del 2009 (comunitaria 2008), ha eliminato – con effetto retroattivo, stante la finalità di adeguamento al diritto unionale – la stima basata sul valore normale nelle transazioni immobiliari, sicchè la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, secondo gli ordinari criteri di accertamento induttivo, che non sono esclusi dalla Dir. n. 2006/112/Cee, art. 273, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione.” (Cass., 04/04/2019, n. 9453; conformi Cass. 16/06/2019, n. 16266, in motivazione; e Cass. 02/04/2020, n. 7655). E, nelle medesime pronunce, questa Corte ha anche richiamato, in motivazione, la giurisprudenza Eurounitaria (Corte giustizia 05/10/2016, C.-576/15, Maya Marinova ET; Corte giustizia 20/03/2018, C.-524/15, Luca Menci; Corte giustizia 21/11/2018, C.-648/16, Fortunata Silvia Fontana), sottolineando che “la Dir. CE n. 2006/112/CEE, art. 273, non esclude che l’imponibile IVA possa essere accertato induttivamente (GCUE, Euro 648/16), dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione (GCUE, Euro 576/15 e Euro 524/15)” (Cass., 04/04/2019, n. 9453, cit. e Cass. 02/04/2020, n. 7655, cit.).

3.3. L’orientamento giurisprudenziale appena esposto è peraltro conforme alla pronuncia di legittimità (Cass. 10/02/2012, n. 1972, in materia sia di imposte dirette che di Iva, in motivazione) invocata dalla stessa ricorrente nel motivo, in ordine alla legittimità del ragionamento del giudice di merito che sia fondato non sul semplice scostamento tra il valore normale di vendita ed il prezzo, ma sulla valorizzazione della presenza anche di altri elementi presuntivi (tra i quali, anche in quel caso, l’antieconomica incongruenza tra i ricavi contabilizzati dalle vendite immobiliari e quelli ragionevolmente ritraibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività).

Inoltre, in coerenza con tale richiamo, la stessa ricorrente, nel motivo, più volte (alle pagg. 16, 18, 19 del ricorso) ribadisce che, per effetto delle citate modifiche normative, lo scostamento dei corrispettivi di vendita dichiarati dai valori O.M.I. non costituisce più una presunzione legale, ma è stata “declassata a presunzione semplice” (pag. 19), che può essere idonea ad integrare la prova della pretesa del fisco in “presenza di ulteriori e diversi elementi presuntivi”. Nello stesso senso, poi, depone anche il contenuto della circolare dell’Agenzia delle Entrate espressamente invocata, ed in parte riprodotta, nel ricorso (alle pagg. 16 e 17) dalla contribuente, a proposito della rilevanza della presunzione (non più legale, ma) semplice di scostamento del corrispettivo dichiarato dal prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, ove supportata da ulteriori elementi presuntivi.

3.4. Tanto premesso, e ferma restando la già rilevata inammissibilità dell’intera formulazione del terzo motivo, deve aggiungersi che esso è comunque anche infondato, sotto il profilo della violazione di legge, atteso che la decisione impugnata non si discosta dalle richiamate disposizioni normative e dai citati principi giurisprudenziali, peraltro condivisi nella sostanza dalla stessa ricorrente.

Infatti, la motivazione adottata dalla CTR, per quanto sintetica, è basata espressamente anche sull’indizio dell’incongruenza della percentuale di ricarico relativa alle operazioni in questione, quindi non solo sullo scostamento dal valore degli immobili determinato mediante l’applicazione dei valori O.M.I. (ed invero – come risulta dall’avviso d’accertamento, trascritto in parte qua nel controricorso, alle pagg. 8 ss., e della cui produzione ha dato atto la ricorrente stessa – il valore dei beni era stato nel caso di specie ricavato dall’Amministrazione non mediante la mera applicazione dei valori O.M.I., ma anche da altri indicatori, tra cui, appunto, la percentuale di ricarico, ritenuta incongrua rispetto a quella medie relativa a società operanti nello stesso settore, oltre che dalle tabelle della Federazione Italiana Mediatori Agenti d’Affari).

Pertanto, nonostante il contestuale riferimento incidentale al “valore normale degli immobili”, il giudice a quo ha preso in considerazione e valutato un ulteriore dato indiziante, esprimendo un apprezzamento di incongruità, ovvero di antieconomicità, riferito peraltro a quella stessa percentuale di ricarico esposta dalla contribuente nel ricorso di merito (circostanza non contestata in questa sede).

La valutazione delle circostanze indizianti, inoltre, è stata espressa in termini di ricorrenza di indizi gravi, precisi e concordanti, quindi ravvisando la sussistenza di presunzioni semplici rilevanti ai sensi dell’art. 2729 c.c., e non di una presunzione legale.

Nè, comunque, potrebbe ritenersi che la ratio decidendi della decisione impugnata, in ordine a tale valutazione presuntiva, sia stata attinta e contraddetta dall’ulteriore deduzione, nello stesso inammissibile terzo motivo, che la percentuale di ricarico incongruente “non è altro che una presunzione semplice”.

Infatti, non solo la già citata giurisprudenza, ma le stesse già richiamate difese della ricorrente confermano espressamente la rilevanza probatoria, in materia, di presunzioni semplici, che peraltro potrebbero basarsi anche su un elemento unico, preciso e grave (dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi: Cass. 15/01/2014, n. 656; conforme Cass. 26/09/2018, n. 23153; sulla sufficienza, in tema di accertamento induttivo pure in materia d’Iva, dell’abnorme percentuale di ricarico, anche quale unico elemento presuntivo grave e preciso, cfr. Cass. 30/10/2018, n. 27552).

Giova poi aggiungere che non è stato puntualmente contraddetto dalla ricorrente il dato indiziante – la cui valutazione da parte dell’Ufficio è stata confermata dal giudice d’appello-attinente la distonia della percentuale di ricarico (cfr. Cass. 30/10/2018, n. 27552, cit.; Cass. 12/12/2018, n. 32129).

Inoltre, premesso che la ricorrente non ha comunque dedotto la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., è opportuno aggiungere che, come questa Corte ha già avuto occasione di precisare, “In sede di legittimità è possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., solo allorchè ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso” (Cass. 13/02/2020, n. 3541), ciò che non è stato denunciato sia accaduto nel caso di specie.

3.5. Infine, sempre nel corpo del terzo motivo, la ricorrente (da pag. 20 a pag. 23) elenca una serie di una serie di circostanze, in ordine al valore dei beni alienati, dalle quali dovrebbe ricavarsi che la “supposta incongruità espressa dalla Commissione Regionale non sia fondata, in quanto frutto di errori. Detti errori sono stati posti all’attenzione del giudice di appello il quale, anche sotto questo profilo, ha omesso di pronunciarsi.”.

Sempre premessa la generale inammissibilità dell’intero motivo, deve rilevarsi che il vizio di omessa pronuncia ricorre ove manchi qualsivoglia statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, così dando luogo alla inesistenza di una decisione sul punto della controversia, per la mancanza di un provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, non potendo dipendere dall’omesso esame di un elemento di prova (Cass. 23/03/2017, n. 7472). Nel caso di specie, invero, la ricorrente (senza neppure indicare puntualmente l’atto dei giudizi di merito nel quale avrebbe introdotto le relative circostanze) lamenta, sostanzialmente, la pretesa erronea valutazione effettuata dal giudice d’appello in ordine a diversi fatti, al fine di attingere il merito per ricostruire diversamente la fattispecie controversa, ciò che è inammissibile in questa sede di legittimità (tanto più nel contesto del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Altrettanto inammissibile, poi, con riferimento ai dati fattuali relativi alle caratteristiche degli immobili ed ai relativi atti preliminari e/o traslativi, è il mancato adempimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè comunque dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass., 15/01/2019, n. 777; Cass., 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).

4. Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo l’ultrapetizione nella quale sarebbe incorso il giudice a quo in ordine all’applicazione del D.P.R., art. 43, comma 1, lett. a), secondo il quale, in materia d’imposta di registro, “1. La base imponibile, salvo quanto disposto negli articoli seguenti, è costituita: a) per i contratti a titolo oneroso traslativi o costitutivi di diritti reali dal valore del bene o del diritto alla data dell’atto ovvero, per gli atti sottoposti a condizione sospensiva, ad approvazione o ad omologazione, alla data in cui si producono i relativi effetti traslativi o costitutivi;”.

Il motivo è infondato, atteso che il vizio di ultra – o extra- petizione si verifica quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo alla parte un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, ma non ricorre qualora il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una autonoma qualificazione giuridica dei fatti allegati, ad argomentazioni giuridiche diverse e a diversa valutazione delle prove, essendo il giudice libero di individuare l’esatta natura dell’azione, di porre alla base della pronuncia considerazioni di diritto diverse, di rilevare – indipendentemente dalla iniziativa della controparte – la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una pretesa della parte, attenendo ciò all’esatta applicazione della legge (Cass. 01/09/2003, n. 12750).

Nel caso di specie, il giudice d’appello, quando – al fine di supportare la conclusione secondo la quale il valore dei beni ceduti andava determinato con riferimento alla data degli atti di trasferimento, e non a quella dei contratti preliminari, come sostenuto invece dalla contribuente-ha fatto riferimento anche alla predetta norma relativa all’imposta di registro, si è pronunciato su una questione comunque controversa ed appartenente all’oggetto del giudizio, senza incorrere nel vizio di ultrapetizione. Ove poi la parte ricorrente avesse voluto sostenere che tale riferimento normativo costituisse una violazione o falsa applicazione di norme di legge, avrebbe dovuto proporre eventualmente il distinto mezzo d’impugnazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Tanto premesso, giova peraltro sottolineare che, comunque, la CTR ha rilevato che i preliminari in questione non sono stati mai depositati. Pertanto, non risultando proposta revocazione o comunque specifica impugnazione sul punto, il riscontro specifico di tale carenza istruttoria priverebbe comunque in radice di rilevanza la questione della pretesa diversa datazione delle valutazioni.

5. Con il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente deduce l'”omessa, erronea, contraddittoria e/o insufficiente motivazione, su un punto decisivo della controversia”.

Il motivo è inammissibile, non essendo coerente con l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis, che limita il mezzo d’impugnazione in questione all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Peraltro, il contenuto complessivo del motivo è comunque anche assolutamente generico in ordine all’individuazione dell’effettivo oggetto della censura che vorrebbe introdurre, non concentrandosi su specifici elementi fattuali che il giudice a quo avrebbe omesso di esaminare.

6. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2021

 

 

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