Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8722 del 04/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 04/04/2017, (ud. 01/02/2017, dep.04/04/2017),  n. 8722

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5967/2016 proposto da:

AZIENDA ULSS (OMISSIS) MIRANO, P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TACITO 50, presso lo studio dell’avvocato BRUNO COSSU, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCO ROSSI,

CARLO CESTER, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA POMPEO MAGNO, 23/A, presso lo studio dell’avvocato GUIDO ROSSI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LEONELLO AZZARINI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 752/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 30/12/2015 R.G.N. 612/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/02/2017 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CARLO CESTER;

udito l’Avvocato LEONELLO AZZARINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Venezia, adita dalla Azienda ULSS (OMISSIS) Mirano con reclamo della L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, ha parzialmente riformato la sentenza del locale Tribunale, che aveva respinto l’opposizione proposta avverso l’ordinanza con la quale lo stesso Tribunale, all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al direttore amministrativo G.R..

2. La Corte territoriale ha premesso che i fatti oggetto di causa risultavano pacifici e, comunque, documentalmente provati. In particolare:

a) in data 10 febbraio 2011 l’azienda aveva chiesto al G. di chiarire quale fosse la sua posizione rispetto alla s.n.c. Sapori Ritrovati di R.G.;

b) il dirigente aveva riscontrato la missiva con lettere del 23 e 25 febbraio 2011, con le quali aveva comunicato di non svolgere alcuna attività di carattere commerciale, in quanto l’azienda di ristorazione era stata data in gestione a terzi;

c) acquisito parere legale, la ASL, con nota del 20 aprile 2011, aveva diffidato il dipendente a rimuovere la situazione di incompatibilità entro 60 giorni, precisando che la situazione di incompatibilità si riferiva, oltre che alla s.n.c. Sapori Ritrovati, anche alla s.n.c. Aurora nonchè alla carica di liquidatore ricoperta nella Next Land, società cooperativa a responsabilità limitata.;

d) il dirigente aveva replicato, negando la sussistenza della incompatibilità e dichiarandosi comunque disponibile a rinunciare alla rappresentanza legale della s.n.c. Sapori Ritrovati, unica società ancora attiva;

e) la Azienda non aveva fatto seguire a detta comunicazione alcun atto e solo il 5 novembre 2013, a seguito di una richiesta di informazioni ricevuta dalla Guardia di Finanza, aveva chiesto al G. nuovamente notizie sulla rimozione delle cause di incompatibilità;

f) il direttore amministrativo aveva, quindi, reso noto che: la società cooperativa era stata definitivamente liquidata nel maggio 2013; che la s.n.c. Aurora era in fase di scioglimento, avendo ceduto ogni attività nel gennaio 2012; che si stava concludendo la trasformazione della s.n.c. Sapori Ritrovati in società in accomandita semplice;

g) gli atti venivano a questo punto trasmessi all’ufficio per i procedimenti disciplinari che il 17 dicembre 2013 contestava l’illecito e successivamente, con nota del 21 febbraio 2014, intimava il licenziamento per giusta causa, richiamando la previsione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 61, ed evidenziando che in ogni caso la condotta era tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

3. Il giudice di appello ha escluso la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare per tardività dello stesso, ritenuta invece dal Tribunale, perchè la mancata rimozione della causa di incompatibilità integra un illecito permanente, con la conseguenza che ai fini della individuazione del dies a quo rileva non il termine concesso con la diffida, bensì la cessazione della condotta.

4. La Corte territoriale, peraltro, ha evidenziato che non sussistevano i presupposti necessari per la irrogazione della sanzione espulsiva in quanto la stessa Azienda, rimanendo inerte sino al 5 dicembre 2013, aveva evidentemente escluso che sussistesse in concreto la incompatibilità (o comunque non aveva assunto al riguardo una decisione definitiva) e, omettendo di rispondere alla missiva del 29 gennaio 2012, aveva ingenerato nel dipendente la convinzione incolpevole che la datrice di lavoro avesse recepito le sue giustificazioni. Quanto, poi, alla condotta successiva alla contestazione, il giudice di appello ha evidenziato che il mantenimento delle cariche nelle due s.n.c. fino alla trasformazione dell’una e allo scioglimento dell’altra, ossia per circa un mese, non giustificava l’asserita irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, integrando, invece, l’ipotesi prevista dall’art. 8, comma 4, lett. a) del CCNL 6.5.2010, che per la inosservanza della normativa contrattuale e di legge prevede una sanzione di tipo conservativo. Ha aggiunto che non costituisce un parametro per valutare la gravità della condotta il fatto che il legislatore abbia previsto la decadenza in caso di mancata rimozione della incompatibilità e ha evidenziato che nella specie la decadenza non si era verificata perchè alla prima diffida la amministrazione non aveva dato seguito, mentre alla seconda il G. aveva ottemperato. Ha evidenziato, inoltre, che la azienda reclamante non poteva invocare la L. n. 662 del 1996, art. 1, perchè il licenziamento è stato previsto dal legislatore solo in relazione allo svolgimento di attività di lavoro subordinato o autonomo, mentre nel caso di specie il reclamato non aveva mai svolto direttamente attività commerciale.

5. Infine la Corte territoriale ha ritenuto applicabile la L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 e ha ricondotto la fattispecie all’ipotesi prevista dal quarto comma, con conseguente diritto del dipendente alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento nella misura massima di 12 mensilità. Ha, quindi, ritenuto corrette le statuizioni della sentenza di primo grado che, sebbene in applicazione della normativa previgente, aveva condannato la azienda a reintegrare il dirigente nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso le retribuzioni maturate, in misura non superiore al limite massimo fissato dal richiamato comma quattro.

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Azienda ULSS (OMISSIS) di Mirano sulla base di tre motivi. G.R. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la Azienda ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e 63 e dell’art. 2119 c.c.. Premette che il mancato esercizio del potere disciplinare per un certo arco temporale non può essere equiparato a una valutazione di liceità della condotta e può solo determinare, ove ne ricorrano i presupposti, la decadenza per tardività dell’azione disciplinare. La Corte territoriale, pertanto, ha errato nel ritenere, contraddittoriamente, che il procedimento fosse stato tempestivo ma che l’inerzia incidesse sulla sussistenza stessa dell’illecito o, comunque, lo rendesse di gravità tale da non giustificare il licenziamento per giusta causa, pur a fronte della accertata violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60, integrata anche dalla sola accettazione di cariche sociali. Aggiunge la ricorrente che la Pubblica Amministrazione ben può avviare la procedura disciplinare anzichè adottare un provvedimento di tipo automatico ma in tal caso non può essere esclusa la giusta causa di licenziamento perchè la improseguibilità del rapporto discende già dalla previsione di legge della causa di incompatibilità. Evidenzia che il dipendente deve rimuovere quest’ultima decorsi 15 giorni dalla diffida, sicchè la Corte non poteva ritenere privo di effetti il ritardo nell’adempimento, atteso che la norma che impone la decadenza non lascia spazio alcuno per valutazioni discrezionali da parte del giudice.

2. Il secondo motivo addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Evidenzia la ricorrente che la Corte territoriale, nell’escludere la gravità dell’addebito per il solo fatto che non vi fosse stato svolgimento di attività lavorativa, avrebbe trascurato elementi decisivi ai fini del giudizio di proporzionalità e in particolare non avrebbe valutato la entità del reddito percepito dal G. in relazione alle cariche ricoperte, che smentiva quanto sostenuto dal dirigente in merito alla natura della attività svolta.

3. Con la terza censura, formulata solo in via subordinata, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, perchè la mancanza dell’elemento soggettivo non determina la insussistenza del fatto contestato, che è presupposto indispensabile per la applicazione della tutela prevista dal quarto comma. Aggiunge che la violazione delle previsioni del contratto collettivo rileva solo qualora la contrattazione preveda la sanzione conservativa per la specifica infrazione commessa in concreto dal lavoratore, non già nei casi in cui il contratto sia assolutamente generico.

4. Occorre preliminarmente rilevare che si è formato giudicato interno sul capo della decisione che, valorizzando la natura permanente della condotta addebitata al dirigente, ha escluso la eccepita tardività dell’azione disciplinare. E’, infatti, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, qualora la sentenza impugnata abbia risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso per cassazione dell’avversario impone a detta parte, che intenda riproporre la questione stessa, di notificare ricorso incidentale (Cass. 28.3.2006 n. 6992; Cass. 14.4.2015 n. 7523).

5. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente perchè connessi, sono fondati, in quanto la Corte territoriale ha errato nell’attribuire rilievo all’inerzia dell’amministrazione dopo la prima diffida, per escludere la rilevanza disciplinare della condotta tenuta dal G. nell’arco temporale compreso fra il 20 aprile 2011 e il 5 novembre 2013.

Osserva al riguardo il Collegio che il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, sebbene fondato dopo la contrattualizzazione del rapporto di impiego sul contratto e, quindi, sottratto alle regole del procedimento amministrativo, conserva un carattere di specialità rispetto all’analogo potere del datore di lavoro privato, perchè la qualità del soggetto che lo esercita incide sulle finalità alla cui realizzazione l’esercizio del potere deve essere indirizzato.

5.1. L’art. 2106 c.c., applicabile anche all’impiego pubblico contrattualizzato in forza del richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, consacra il potere del datore di lavoro di reagire unilateralmente alle condotte tenute dal prestatore in violazione degli obblighi contrattuali. Detti obblighi, peraltro, nell’impresa privata sono funzionali alla redditività dell’impresa stessa e vengono imposti dal datore di lavoro nell’esercizio della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; nelle amministrazioni pubbliche, invece, le regole di condotta devono assicurare il rispetto dei principi, di rilievo costituzionale, di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa. Il potere, quindi, sebbene di natura privatistica, è condizionato dalla presenza di interessi che trascendono quelli del singolo datore di lavoro e ciò giustifica la specialità della disciplina e la non estensibilità all’impiego pubblico contrattualizzato di quei principi, affermati per il procedimento disciplinare dell’impiego privato, che non siano compatibili con il perseguimento degli interessi di cui si è detto.

5.3. Fra questi va annoverato quello della discrezionalità dell’esercizio del potere disciplinare, giacchè se il datore di lavoro privato è libero di valutare la opportunità e la convenienza dell’iniziativa e anche di tollerare comportamenti che potrebbero essere ritenuti disciplinarmente rilevanti, non altrettanto può dirsi per il dirigente pubblico, che deve ispirare costantemente la propria condotta alla tutela degli interessi generali sopra evidenziati e, quindi, in nessun caso può consentire che rimangano impunite condotte poste in essere dall’impiegato in violazione delle regole di comportamento imposte dalla legge o dal contratto collettivo, nei limiti consentiti dalla nuova formulazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55.

Non a caso l’art. 55 sexies del richiamato decreto, inserito dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha previsto, al comma 3, la responsabilità del dirigente per il ritardo o l’omissione della iniziativa disciplinare, evidentemente ritenuta doverosa dal legislatore. E’ anche significativo rilevare che in occasione dell’intervento riformatore sono stati sensibilmente ristretti i limiti del cosiddetto patteggiamento disciplinare, escluso per le condotte più gravi punite con la sanzione espulsiva, e inoltre limitato al quantum della misura, essendo preclusa la applicazione concordata di una pena di natura diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto.

Non vi è dubbio, quindi, che, quantomeno a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, nell’impiego pubblico contrattualizzato l’azione disciplinare sia caratterizzata dalla obbligatorietà.

5.4. Da ciò discende che nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, perchè il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceità della condotta.

Anche i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al “servizio della Nazione” e, quindi, lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi di cui sopra si è detto, efficacemente riassunti nell’ultima versione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54, con il richiamo ai ” doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”.

La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta.

5.5. La Corte territoriale, pertanto, ha errato nell’affermare che il tempo trascorso fra le due diffide era di entità tale da determinare “il legittimo affidamento sull’acquiescenza della stessa datrice di lavoro”.

6. Il primo motivo è fondato anche nella parte in cui denuncia la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e segg. e rileva che, a fronte dell’automatica decadenza prevista per la mancata rimozione della incompatibilità, il giudice chiamato a valutare la gravità della condotta deve tener conto della valutazione espressa dal legislatore.

Il motivo è ammissibile perchè, contrariamente a quanto asserito dalla difesa del controricorrente, la questione era stata posta in sede di reclamo, come si desume dalla motivazione della sentenza impugnata, che a pag. 18 tratta espressamente della decadenza ed esclude che la stessa si sia verificata, da un lato rilevando che la incompatibilità era stata rimossa dopo la seconda intimazione e dall’altro facendo nuovamente leva, in relazione alla prima diffida, sull’inerzia della amministrazione e sul legittimo affidamento che dalla stessa sarebbe derivato.

6.1. La Corte territoriale non ha correttamente interpretato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, che al comma 1, richiama, salve le deroghe espressamente previste da leggi speciali, “per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e segg. del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3”. A sua volta il T.U., dopo avere indicato i casi di incompatibilità, fra i quali rientra, per quel che qui rileva, la accettazione di cariche in società costituite a

fine di lucro (art. 60), all’art. 63 prevede che: l’impiegato debba essere diffidato a cessare dalla situazione di incompatibilità; la mancata ottemperanza alla diffida, decorsi quindici giorni dalla stessa, determina decadenza dal rapporto di impiego (art. 63 comma 3); la rimozione della situazione di incompatibilità “non preclude l’eventuale azione disciplinare” (art. 63 comma 2).

Questa Corte ha già interpretato la normativa che qui viene in rilievo (si rimanda a Cass. 19.1.2006 n. 967; Cass. 21.8.2009 n. 18608; Cass. 15.1.2015 n. 617) e ha evidenziato che la perdurante vigenza per l’impiego pubblico contrattualizzato della disciplina dettata dal Testo Unico trova la sua ratio nella specialità del rapporto rispetto a quello privato, rapporto che, per espressa volontà del legislatore costituzionale, deve essere tendenzialmente esclusivo. Il provvedimento con il quale la pubblica amministrazione prende atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, seppure espressione di un potere privato e non autoritativo, costituisce una forma di cessazione automatica del rapporto, che non deriva dalla sussistenza di responsabilità disciplinare del dipendente (la questione della responsabilità disciplinare si pone per il legislatore del T.U. su un piano distinto anche nell’ipotesi in cui la incompatibilità venga rimossa) “scaturendo invece dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro” (Cass. n. 18608/2009 cit.).

Ciò spiega la ragione per la quale il D.Lgs. n. 165 del 2001, sebbene ispirato al principio della contrattualizzazione anche degli illeciti disciplinari, aveva già sottratto alla contrattazione collettiva la materia delle incompatibilità (l’art. 55, al comma 3, faceva salva la previsione dell’art. 53, comma 1) e detta esclusione è stata ribadita dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 54, che, nel riformulare l’art. 40, ha riservato alla competenza del legislatore, fra l’altro, le materie elencate dalla L. n. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2, comma 1, lett. c), che al n. 7 fa espresso riferimento alla “disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici”.

6.2. Il Collegio, nel dare continuità all’orientamento sopra richiamato, intende ribadire che, ove si profili una situazione di incompatibilità assoluta, vengono in rilievo due diversi aspetti: l’uno relativo alla cessazione automatica del rapporto, che per volontà del legislatore si verifica qualora la incompatibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente; l’altro inerente alla responsabilità disciplinare per la violazione del dovere di esclusività, responsabilità che può essere comunque ravvisata anche nell’ipotesi in cui l’impiegato abbia ottemperato alla diffida.

Mentre la prima conseguenza opera su un piano oggettivo e prescinde da valutazioni sulla gravità dell’inadempimento, la seconda è assoggettata ai principi propri della responsabilità disciplinare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, presuppone sempre un giudizio di proporzionalità fra fatto contestato e sanzione, da esprimere tenendo conto di tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta. Detta duplicità si riflette sulla natura dell’atto adottato dal datore di lavoro e sull’indagine che deve essere compiuta in sede giudiziale, qualora dell’atto medesimo venga contestata la legittimità.

6.3. Nel caso di specie è incontestato fra le parti che la Azienda ULSS (OMISSIS), attivato il procedimento previsto dal D.P.R. n. 3 del 1957 e preso atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, anzichè pronunciare la decadenza prevista dal richiamato D.P.R., ha iniziato il procedimento disciplinare e, all’esito dello stesso, ha intimato il licenziamento, ravvisando una giusta causa di risoluzione del rapporto nella inottemperanza alla diffida e, comunque, una responsabilità disciplinare nella violazione dell’obbligo di esclusività protrattasi nel tempo.

Poichè la volontà risolutoria manifestata è stata con chiarezza ricondotta all’esercizio del potere disciplinare, il giudizio doveva essere espresso tenendo conto dei profili oggettivi e soggettivi dell’illecito ma, quanto al primo aspetto, dovevano essere considerate la disciplina normativa sopra richiamata e la rilevanza che nel rapporto di impiego pubblico il legislatore attribuisce al principio di esclusività. In altri termini, oltre a quanto si è detto sulla impossibilità di attribuire rilievo alla iniziale inerzia del datore di lavoro, una volta ritenuta sussistente la incompatibilità, il giudizio di gravità non poteva prescindere dalla considerazione della omessa ottemperanza alla diffida.

6.4. La sentenza impugnata è, quindi, errata perchè non ha considerato: che la necessaria indagine sulla rimozione della incompatibilità assoluta va condotta su un piano obiettivo; che l’obbligatorietà dell’azione disciplinare non consente al dipendente pubblico di invocare il principio dell’affidamento incolpevole nella liceità della condotta, ove la violazione si riferisca a precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dal contratto collettivo; che la violazione del principio di esclusività determina il venir meno dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità di preminente rilievo nel rapporto di impiego.

7. Si impongono, pertanto, l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, la cassazione della decisione impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, che procederà a un nuovo esame, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi a quanto sopra evidenziato e ai principi di diritto di seguito enunciati:

a) il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, nel rinviare alla disciplina dettata del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e segg., prevede che, in caso di incompatibilità assoluta, la violazione dell’obbligo di esclusività può essere fonte di responsabilità disciplinare anche nella ipotesi in cui la incompatibilità venga rimossa a seguito della diffida;

b) la sanzione irrogata dal datore di lavoro all’esito del procedimento disciplinare, avviato dopo la diffida prevista dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 63, deve essere proporzionata alla gravità della condotta, da valutarsi negli aspetti oggettivi e soggettivi, in relazione alla quale assumono particolare rilievo la condotta tenuta dal dipendente dopo la diffida e la mancata rimozione della incompatibilità;

c) nell’impiego pubblico contrattualizzato il principio della obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva.

8. E’ invece infondato il terzo motivo, formulato nell’erroneo presupposto dell’applicabilità all’impiego pubblico contrattualizzato della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92.

Il Collegio, infatti, intende dare continuità all’orientamento già espresso con la sentenza n. 11868 del 9 giugno 2016 con la quale si è affermato che “le modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, alla L. n. 300 del 1970, art. 18, non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, sicchè la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata L. n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 st.lav. nel testo antecedente la riforma; rilevano a tal fine il rinvio ad un intervento normativo successivo ad opera della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 8, l’inconciliabilità della nuova normativa, modulata sulle esigenze del lavoro privato, con le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, neppure richiamate dell’art. 18, comma 6, nuova formulazione, la natura fissa e non mobile del rinvio di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51, comma 2, incompatibile con un automatico recepimento di ogni modifica successiva che incida sulla natura della tutela del dipendente licenziato”.

La fondatezza del ricorso rende non applicabile il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228.

PQM

La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2017

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