Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8715 del 04/04/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 04/04/2017, (ud. 24/01/2017, dep.04/04/2017),  n. 8715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16509-2012 proposto da:

ADECCO ITALIA S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO ROMEI, che

la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA MASSIMO

FAILLA, MARIA ELISABETTA CASSANETI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

T.E., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA DEI GRACCHI 39, presso lo studio dell’avvocato EMANUELE SPATA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato RICCARDO

GALLESE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 820/2010 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 04/07/2011 R.G.N. 906/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/01/2017 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito l’Avvocato ROMEI ROBERTO;

udito l’Avvocato GIANSENTE ELISABETTA per delega orale Avvocato SPATA

EMANUELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso ex art. 633 c.p.c. T.E. chiedeva al Tribunale di Padova di ingiungere alla società Adecco s.p.a. il pagamento della somma di Euro 3.817,13 a titolo di indennità per il patto di non concorrenza inserito nel contratto di formazione e lavoro stipulato tra le parti l’1.2.2001 e concluso il 31.1.2003. Il Tribunale emetteva ingiunzione di pagamento e, all’esito del ricorso in opposizione proposto dalla società, respingeva l’opposizione ritenendo nulla la suddetta clausola con cui la società datrice si era riservata il potere discrezionale di decidere, al momento della cessazione del rapporto di lavoro se applicare o no il patto medesimo. La Corte di appello di Venezia, con sentenza depositata il 4.7.2011, rigettava l’impugnazione proposta dalla società. La Corte territoriale rilevava che – a differenza del nomen iuris (opzione irrevocabile) attribuito alla suddetta clausola – gli effetti del patto erano sospensivamente condizionati alla volontà del datore di lavoro che era libero di manifestare l’adesione solo al momento di conclusione del contratto. Trattandosi, quindi, di condizione sospensiva meramente potestativa, la clausola doveva ritenersi nulla.

Avverso detta sentenza la società soccombente propone ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste la T. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1331 e 1373 c.c.) e vizio di motivazione, avendo, la Corte territoriale, confuso l’istituto dell’opzione con quello del recesso e avendo trascurato che il patto di opzione non altera in alcun modo la struttura del patto di non concorrenza in quanto l’opzione costituisce una convenzione distinta del contratto cui viene accordata. In sostanza, le parti hanno stipulato un contratto, a titolo oneroso (ossia a fronte della formazione ricevuta dalla società), ove il lavoratore si impegnava a mantenere ferma, per un certo tempo, la proposta di non svolgere attività in concorrenza; tale contratto di opzione, annesso al patto di non concorrenza, prevedeva un congruo compenso (il 70% della media degli importi lordi percepiti dall’obbligato nei due anni precedenti la cessazione del rapporto, punto 4 del patto di non concorrenza) e una limitazione temporale (il termine di trenta giorni dalla cessazione del rapporto, entro cui la società doveva esercitare l’opzione). Si è trattato di un patto di non concorrenza del tutto legittimo e conforme ai requisiti prescritti, dall’art. 2125 c.c. a cui accedeva una clausola di opzione, che – non essendo stata esercitata – ha impedito l’efficacia del patto stesso.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e circa l’interpretazione delle clausole contrattuali non avendo, la Corte territoriale, ricostruito la comune intenzione delle parti attraverso la lettura combinata delle clausole del contratto (in particolare, le clausole nn. 2, 3, 7 e 8) e avendo trascurato la comunicazione inoltrata dalla società alla lavoratrice in cui si esplicitava la volontà di non avvalersi dell’opzione.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1331 c.c. nonchè vizio di motivazione avendo, la Corte, trascurato che il patto di non concorrenza non si è mai perfezionato tra le parti (avendo, la società, comunicato la volontà di non esercitare il proprio diritto di opzione) e, comunque, che il patto di non concorrenza entrava in vigore solamente nel caso di esercizio dell’opzione da parte del datore di lavoro entro il breve termine fissato dalla clausola.

4. Con il quarto motivo la società deduce la nullità dell’intero patto di non concorrenza, essendo essenziale la clausola di opzione annessa al suddetto patto.

5. I primi tre motivi di ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto tra loro connessi, non sono fondati.

Le parti hanno concordato il seguente assetto negoziale stipulato in concomitanza con la sottoscrizione del contratto di formazione e lavoro:

“2) l’obbligato, una volta superato il periodo di prova, si impegna in via irrevocabile a non svolgere, successivamente la cessazione del suo rapporto di lavoro con la società e qualunque sia la causa della cessazione stessa, nè personalmente nè per interposta persona o ente o società, direttamente od indirettamente, alcuna attività a carattere autonomo subordinato ovvero in qualità di consigliere di amministrazione o di amministratore, associato anche in partecipazione o di socio con obbligo di prestazioni accessorie ed anche sull’occasionale o gratuita, a favore di altre società, enti o organizzazioni, già esistenti ovvero da costituirsi od in fase di costituzione, che svolgano attività di fornitura di lavoro temporaneo L. 24 giugno 1997, n. 196, ex art. 2 ovvero attività in concorrenza con quella svolta dalla società. 7) l’obbligato si impegna irrevocabilmente all’osservanza degli obblighi descritti nel presente accordo, alle condizioni qui previste, concedendo alla società, in considerazione della formazione professionale ricevuta alle dipendenze della stessa opzione irrevocabile al rispetto del presente patto, da esercitarsi mediante comunicazione scritta che dovrà essere inviata all’obbligato con raccomandata r.r. entro non oltre 30 giorni lavorativi dalla intervenuta cessazione del rapporto di lavoro”. In caso di esercizio dell’opzione da parte della società, il presente patto di non concorrenza entrerà in vigore automaticamente ed avrà efficacia, alle condizioni e ai termini qui previsti, senza necessità di altre formalità e/o adempimento. Ove invece la società non dovesse esercitare l’opzione di cui al presente articolo il patto di non concorrenza non entrerà in vigore”.

Occorre ricordare che su vicende analoghe di patto di non concorrenza stipulati con Adecco questa Corte si è già espressa con tre pronunce: si tratta delle sentenze nn. 15952/2004, 25825/2013, 13352/2014.

La sentenza più risalente ha esaminato una fattispecie diversa da quella in esame, ossia quella dell’apposizione del patto di non concorrenza al rapporto di lavoro subordinato, con previsione (ex art. 1373 c.c.) della facoltà, a favore della società, di recedere durante la vigenza – biennale – del patto stesso, facoltà che è stata ritenuta illegittima da questa Corte perchè contraria al modello legale dettato dall’art. 2125 c.c. che presuppone la delimitazione ex ante della durata del patto, in modo che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della precisa durata del vincolo e non si trovi in una situazione di precarietà in quanto assoggettato alle determinazioni della controparte.

La sentenza n. 25825/2013 non ha affrontato, per profili preliminari di inammissibilità delle censure, la questione di merito mentre la sentenza n. 13352/2014 ha esaminato una fattispecie simile a quella in esame, ossia una clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza. Con tale pronunzia – rilevandosi che il lavoratore aveva rassegnato le dimissioni ed accettato altra proposta lavorativa e che non era risultata alcuna limitazione del potere negoziale del lavoratore stesso – è stata ritenuta sussistente la piena libertà del lavoratore di svolgere attività concorrenziale fino al momento di esercizio, da parte della società, del diritto di opzione, con conseguente legittimità della clausola.

Ebbene, questo collegio ritiene che il tenore della clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza innanzi riportata (che non è dato sapere se abbia medesima predisposizione di quella valutata da questa Corte nel 2014, non essendo, ivi, riportato il contenuto) comprima illegittimamente il potere negoziale del lavoratore e determini un inaccettabile squilibrio dei contrapposti interessi delle parti.

Invero, pur dovendo evidenziarsi profili di inammissibilità del secondo motivo in quanto la censura è prospettata con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto del contratto di opzione e, in particolare, tutte le clausole di cui si invoca una interpretazione sistematica), la clausola di opzione è da ritenere nulla in quanto cela l’intento fraudolento di vincolare il lavoratore, sin dalla data di assunzione (nella specie, “2) l’obbligato, una volta superato il periodo di prova,…”), all’adempimento dell’obbligazione contenuta nel patto stesso.

Infatti, la formulazione della clausola di opzione prevede che il lavoratore attribuisca alla società il diritto di aderire al patto di non concorrenza a fronte di un corrispettivo, la “formazione professionale ricevuta alle dipendenze della stessa (società)”, che rappresenta, invece, la causa stessa del contratto di formazione e lavoro stipulato fra le parti. Il contratto di formazione e lavoro, infatti, è un contratto di lavoro a causa mista, in cui allo scambio tra lavoro e retribuzione si aggiunge l’obbligo formativo a carico del datore di lavoro (cfr. Cass. nn. 887/1998, 8270/1995). La clausola di opzione, quindi, così come configurata dalla società non garantisce alcun corrispettivo a favore del concedente in quanto la formazione professionale costituisce già la causa del contratto di lavoro subordinato stipulato fra le parti, con conseguente illecita sperequazione della posizione delle parti nell’ambito dell’assetto negoziale e violazione della natura contrattuale dell’opzione.

Inoltre, l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro subordinato e prosegue nei trenta giorni successivi alla cessazione del rapporto, impedendo al lavoratore stesso di esercitare il suo diritto di scelta di ulteriori occasioni di lavoro (e ciò anche durante il periodo di preavviso, previsto dal legislatore – in caso di licenziamento – proprio a tutela della parte che subisce il recesso al fine di cercare un altro contraente). Si realizza, anche sotto tale aspetto, la violazione del modello contrattuale dell’opzione in quanto: 1) mentre la parte vincolata all’opzione (ossia alla propria dichiarazione) non è tenuta – nella struttura tipica prevista dall’ordinamento – alla prestazione contrattuale finale finchè la controparte non accetta costituendo, quindi, il rapporto contrattuale finale, 2) nella presente fattispecie, invece, il lavoratore concedente l’opzione è obbligato immediatamente, sin dalla stipulazione del patto di opzione (ossia sin dalla data di stipulazione del contratto di lavoro subordinato) non solo a mantenere ferma la dichiarazione ma anche ad adempiere all’obbligazione finale consistente nel patto di opzione.

La clausola di opzione accedente al patto di non concorrenza è, per le ragioni esposte, nulla essendo violato sia l’art. 1331 c.c. sia l’art. 2125 c.c..

La sentenza impugnata, pur ricostruendo la fattispecie sotto forma di condizione meramente potestativa (essendo rimessa all’arbitrio del datore di lavoro l’operatività del patto di non concorrenza), è giunta alla conclusione della declaratoria di nullità della clausola di opzione del patto di non concorrenza. La pronuncia di nullità va, pertanto, confermata seppur con le diverse argomentazioni innanzi esposte.

6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.

La sentenza impugnata sottolinea, come ulteriore ratio, che la domanda di nullità dell’intero patto di non concorrenza è stata proposta solamente all’udienza di discussione; nè parte ricorrente ha indicato i tempi e i modi della tempestiva introduzione nel giudizio di primo grado e, quindi, della sua devoluzione al Giudice del gravame, limitandosi ad illustrare solamente in questa sede il carattere essenziale del patto di opzione.

Invero, l’effetto estensivo della nullità della singola clausola o del singolo patto all’intero contratto, avendo carattere eccezionale rispetto alla regola della conservazione, non può essere dichiarato d’ufficio dal giudice ed è onere della parte che assume l’anzidetta estensione di allegare tempestivamente, e di provare con ogni mezzo idoneo, l’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dal patto inficiato da nullità.

La deduzione dell’effetto estensivo della nullità del patto di opzione non può, dunque, ritenersi tempestiva, perchè effettuata soltanto in grado di appello e per giunta solamente in sede di discussione.

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 1.600,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2017

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