Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8696 del 04/04/2017


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Cassazione civile, sez. II, 04/04/2017, (ud. 19/01/2017, dep.04/04/2017),  n. 8696

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27749-2012 proposto da:

T.E., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO VITOLO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO FAOLI;

– ricorrente –

contro

W.D., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

M. PRESTINARI 15, presso lo studio dell’avvocato VALTER CALVIERI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICCOLO’

LUPARINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 831/2012 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 14/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/01/2017 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO;

udito l’Avvocato Vitolo Massimo difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’avv. Calvieri Valter difensore del controricorrente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

T.E. propone ricorso per cassazione, con tre motivi, nei confronti di W.D., avverso la sentenza con la quale la Corte d’Appello di Firenze, in riforma della sentenza di primo grado, ha qualificato come contratto preliminare unilaterale di vendita, la scrittura conclusa dalle parti il (OMISSIS) ed ha conseguentemente condannato il T. a restituire a W.D. la somma di 500.000,00 Euro oltre ad interessi, da questi versata quale acconto.

La Corte d’Appello, in particolare, premesso che l’intestazione dell’atto come “compravendita” doveva ritenersi irrilevante dal punto di vista della qualificazione del contratto, riteneva che esso prevedesse l’obbligazione di stipulare il successivo contratto definitivo unicamente a carico della parte venditrice, non contemplando alcun obbligo per la controparte di procedere alla stipula del definitivo.

La Corte riteneva inoltre che fosse pienamente compatibile con la qualificazione del contratto nei termini suddetti l’obbligo del Walsh di effettuare determinati pagamenti, poichè tali pagamenti non implicavano l’assunzione di alcun obbligo a contrarre, posto che il regolamento negoziale prevedeva unicamente l’obbligazione di cessione a carico del T., con facoltà della controparte di addivenire o meno alla stipula entro la data indicata ed al prezzo formalizzato.

Tali pattuizioni dovevano del resto ritenersi coerenti con il fatto che il T. assumeva anche l’obbligo di conseguire il consenso al trasferimento delle quote degli altri soci ed a fornire più dettagliate indicazioni sulla situazione patrimoniale complessiva della società.

La Corte affermava inoltre che in tale contesto negoziale non assumeva alcuna rilevanza contraria il contenuto delle missive nelle quali il W. chiedeva una proroga del termine di stipula del definitivo e che andava in tale prospettiva giustificata la modifica della clausola contrattuale che aveva sostituito la caparra confirmatoria con il versamento di rate di prezzo, da qualificarsi come “acconti” privi di valore confirmatorio. Rilevava infine che, pur volendo affermare la natura sinallagmatica del contratto, l’esplicita esclusione del valore di caparra confirmatoria delle somme versate dal W., escludeva in ogni caso il diritto del T. di trattenere la somma suddetta, in quanto l’eventuale prevalente inadempimento della parte venditrice avrebbe importato la mera declaratoria di risoluzione del contratto, ma non anche il diritto al trattenimento della caparra, fermo restando che la domanda risarcitoria avrebbe dovuto essere oggetto di specifica domanda, non potendo l’ammontare dell’eventuale danno essere determinato con riferimento agli acconti pagati.

La Corte territoriale infine, confermava la pronunzia di carenza di legittimazione attiva di G., S., F. e T.F. e li condannava in solido al pagamento di 1/5 delle spese del giudizio di primo grado.

W.D. ha resistito con controricorso.

Il T. ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso il T. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1331 c.c. in relazione agli artt. da 1362 a 1367 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in punto alla qualificazione del contratto come contratto con obbligazioni del solo prominente venditore, anche avuto riguardo alla omessa indicazione della ragioni per cui sono state disattese le motivazioni sul punto della sentenza impugnata e le proprie deduzioni difensive.

Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dagli artt. 1362 a 1367 c.c., per omessa applicazione del principio di conservazione delle clausole contrattuali, in punto qualificazione del contratto come scrittura unilaterale, in quanto incompatibile con la previsione secondo cui la promittente l’acquisto aveva chiesto alla parte prominente la vendita di procurarle un mutuo da destinare al pagamento del corrispettivo.

Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. da 1362 a 1367 c.c., deducendo che la qualificazione del contratto come contratto senza obbligazioni a carico della parte promittente l’acquisto doveva ritenersi incompatibile con il rilievo che detta parte aveva chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore, il rimborso della caparra ed il risarcimento dei danni conseguenti al dedotto inadempimento, con ciò dimostrando di considerare il contratto come fonte di obbligazioni sia a carico del promittente la vendita che del promittente l’acquisto.

I motivi che, in quanto strettamente connessi, vanno unitariamente esaminati, consistono essenzialmente nella censura di errata interpretazione del contratto da parte della Corte d’Appello e sono destituiti di fondamento.

Conviene premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012 (Cass. 10981/2016).

In particolare, nell’interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass. 2465/2015).

Da ciò discende che al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 17168/2012).

Orbene, nel caso di specie, il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. da 1362 a 1367 c.c., lamentando in particolare la mancata applicazione del “principio di conservazione” della clausole contrattuali in relazione alla qualificazione del negozio come contratto con obbligazioni a carico del solo promittente la vendita.

Tale censura non ha pregio.

Conviene premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico contenuto nell’art. 1367 c.c. – secondo il quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno – va inteso non già nel senso che è sufficiente il conseguimento di qualsiasi effetto utile per una clausola, per legittimarne una qualsivoglia interpretazione pur contraria alle locuzioni impiegate dai contraenti, ma che, nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse e perciò evitando di adottare una soluzione che la renda improduttiva di effetti. Ne consegue che detto criterio – sussidiario rispetto al principale criterio di cui all’art. 1362 c.c., comma 1, – condivide il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto, cui esso è rivolto, non può essere autorizzata attraverso una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice evitarla e dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto (Cass. 28357/2011).

Orbene, nel caso di specie il riferimento al principio di conservazione del contrailo non è pertinente, non venendo in rilievo la necessità di ricorrere a tale sussidiario criterio ermeneutico per attribuire efficacia al contratto. La qualificazione del contratto per cui è causa come preliminare recante obbligazioni per il solo promittente la vendita, fatta propria dal giudice di merito, infatti, fondata sull’esame del contenuto negoziale e sulla valutazione del complessivo comportamento delle parti, non è in alcun modo idonea a determinare l’inefficacia del contratto o di alcune clausole dello stesso, ma individua piuttosto un determinato assetto negoziale e la conseguente produzione di determinati effetti – obbligo di concludere il contratto a carico del solo promittente la vendita e non anche per la controparte – diversi da quelli pretesi dall’odierno ricorrente.

Con riferimento al dedotto vizio di carenza motivazionale, si osserva che il ricorrente si limita a dare rilievo ad elementi che pure sono stati esaminati e valutati dalla Corte d’Appello, che ha concluso per la natura di contratto preliminare unilaterale del negozio ed ha conseguentemente ritenuto la compatibilità degli stessi con tale qualificazione, mentre non risulta ravvisabile un vizio di incongruenza nell’apprezzamento dei fatti sottoposti al suo esame.

E ciò, sia avuto riguardo alla previsione del versamento di acconti sul prezzo da parte del promissario acquirente, così qualificati i pagamenti effettuati dal W., in forza di una clausola che, come già affermato da questa Corte, è compatibile con il contratto preliminare unilaterale (Cass. 8488/2000), che della richiesta di differimento della eventuale stipula del definitivo, da parte del promissario acquirente, istanza che, costituendo manifestazione della necessità di un ulteriore spatium deliherandi non implica, di per sè, riconoscimento (nè tanto meno assunzione), del relativo obbligo, gravante, secondo la valutazione del giudice di merito, sul solo promittente alienante.

Del pari, non può ritenersi decisivo, in relazione al vizio di errata interpretazione del contratto, il fatto che l’odierno resistente abbia proposto, in via subordinata, domanda di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte e conseguente obbligo di restituzione della caparra e risarcimento del danno, fermo restando che questi ebbe a concludere, in principalità, chiedendo, in riforma della sentenza di primo grado, l’accertamento di non essere contrattualmente obbligato ad acquistare i beni e le quote oggetto del contratto, in considerazione della natura di preliminare unilaterale del contratto stesso.

Non risulta, infine, specificamente censurata la statuizione della sentenza impugnata con la quale le somme versate dal resistente sono state qualificate come acconti, e non già come caparra, statuizione che costituisce ulteriore ratio decidendi della pronuncia di condanna del ricorrente alla restituzione delle somme a lui versate dalla controparte. Il ricorso va dunque respinto ed il ricorrente va condannato alla refusione delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente, che si liquidano come da dispositivo.

Nulla sulle spese nei confronti degli altri intimati, G., S., F. e T.F., i quali non hanno svolto nel presente giudizio attività difensiva.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Condanna il ricorrente alla refusione delle spese del presente giudizio in favore di W.D., che liquida in 7.200,00 Euro, di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre a rimborso forfettario per spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2017

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