Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 869 del 16/01/2017

Cassazione civile, sez. VI, 16/01/2017, (ud. 17/11/2016, dep.16/01/2017),  n. 869

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20931/2015 proposto da:

L.L., LA.LE., P.G., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CARLO POMA 4, presso lo studio

dell’avvocato MARCO BALIVA, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato MASSIMILIANO MIGLIORINO;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 169/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositato il 28/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2016 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1 Con decreto 28.1.2015 la Corte d’Appello di Perugia ha accolto parzialmente l’opposizione proposta da L.L., La.Le. e P.G. contro il precedente Decreto 18 luglio 2014 del consigliere delegato che aveva, a sua volta, accolto solo in parte la domanda di equa riparazione in relazione alla durata irragionevole di un giudizio civile svoltosi davanti al Tribunale di Roma dal 17.3.1994 (atto della citazione introduttiva) al 16.9.2004 (data della sentenza di primo grado) e poi davanti alla Corte d’Appello dal 10.2.2005 al 29.7.2013.

Per giungere a tale soluzione la Corte perugina ha considerato – per quanto ancora interessa in questa sede – che il giudizio presupposto, della durata complessiva di diciotto anni, era stato promosso nei confronti dei coniugi L.L.G. e P.G. e che la morte del primo (avvenuta il (OMISSIS)) non era dichiarata dal difensore, sicchè la sentenza di primo grado venne emessa il 16.9.2004 nei confronti degli originari convenuti, mentre solo con l’atto di appello, notificato il 10.2.2005, L.L. e Le. assunsero la veste di parti fino al deposito della sentenza di secondo grado del 29.7.2013.

Sempre per quanto di stretto interesse in questa sede, secondo la Corte d’Appello di Perugia, in aggiunta all’indennizzo di Euro 2.000,00 che sarebbe spettato al de cuius per i quattro anni di durata irragionevole in primo grado secondo un parametro di Euro 500,00 annui da ripartire tra la P. e i due figli, a questi ultimi, quali eredi costituitisi con l’atto di appello, spettava un indennizzo iure proprio per il periodo compreso tra la costituzione in giudizio fino alla sua definizione, non assumendo alcun rilievo la continuità della posizione processuale rispetto a quella del dante causa. Di conseguenza, sempre applicando il parametro dei 500,00 Euro annui, la Corte perugina ha riconosciuto ai due figli un indennizzo di Euro 3.000,00 ciascuno (considerando sci anni di durata irragionevole del giudizio di gravame).

2 Per la cassazione di tale decreto ricorrono la P. e i L. con tre motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso.

I ricorrenti hanno chiesto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite e il Primo Presidente Aggiunto ha rimesso al Collegio di valutarne l’opportunità.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Con un primo motivo i ricorrenti lamentano l’erronea esclusione dal computo della durata del processo il periodo compreso tra la morte del dante causa e il subentro, in contrasto rispetto alle decisioni della CEDU.

Il motivo è infondato.

Come si evince dal decreto impugnato, la morte del convenuto L.L.G. avvenne il (OMISSIS) ma il giudizio non venne mai interrotto e quindi non vi fu alcun atto di citazione in riassunzione nei confronti degli eredi: il difensore ritenne evidentemente opportuno, come era in sua facoltà, continuare a coltivare il giudizio di primo grado senza dichiarare l’evento interruttivo, mentre la costituzione degli eredi avvenne solo con la proposizione dell’appello, notificato il 10.2.2005.

Ebbene, in tema di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, qualora la parte del giudizio presupposto sia deceduta, l’erede ha diritto all’indennizzo “iure proprio” solo per l’irragionevole durata del giudizio successiva alla propria costituzione, la quale – come confermato dalla CEDU, con sentenza del 18 giugno 2013, “Fazio ed altri c. Italia” – è condizione essenziale per far valere la sofferenza morale da ingiustificata durata del processo (v. Sez. 2, Sentenza n. 4003 del 19/02/2014 Rv. 629631; v. anche Sez. 6 – 2, Sentenza n. 19175 del 28/09/2015 Rv. 636529). Come già affermato da questa Corte con le citate pronunce, ma anche con altre precedenti, il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (v. anche Cass. Sez. 2 n. 10517/2013; Cass. Sez. 6-1 ord n. 995/2012; Cass. Sez. 1, ord. n. 1309/2011; Cass. Sez. 1, n. 13803/2011;. Cass. Sez. 1 n. 23416/2009; Cass. Sez. 1 n. 2983/2008).

Nè a diverse conclusioni in merito alla computabilità del periodo tra il decesso dell’originaria parte nel giudizio presupposto e la costituzione dei suoi eredi potrebbe pervenirsi traendo spunto dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 585/2014 che, dirimendo un contrasto tra Sezioni semplici in merito alla possibilità che il contumace nel processo presupposto possa far valere un giudizio all’equa riparazione per la non congrua durata dello stesso, ha statuito la equiparazione – ai fini della possibile insorgenza del diritto al ristoro del danno non patrimoniale – tra parti costituite e parti chiamate a partecipare a quel giudizio, ma in esso non intervenute: ritiene infatti la Corte che, al di là di una apparente analogia ricavabile dall’assenza nel processo presupposto sia del contumace sia del chiamato all’eredità della parte originaria, le situazioni siano invece sostanzialmente differenti in quanto il principio secondo cui presupposto ineliminabile per la legittimazione a far valere l’equa riparazione è l’incidenza che la non congrua durata del giudizio abbia su chi di quel giudizio sia chiamato a far parte, non può trovare applicazione sin tanto che il chiamato all’eredità non sia, quanto meno, evocato in riassunzione, atteso che fino a quel momento può mancare addirittura la prova dell’assunzione – per accettazione espressa o per facta concludentia – della stessa qualità di erede; del resto anche la citata decisione delle sezioni unite n. 585/2014 pone l’accento più sulla legittimazione del contumace alla proposizione del ricorso ex lege n. 89 del 2001, che sull’applicabilità allo stesso di quella che costituisce la caratteristica qualificante del diritto all’equo indennizzo – vale a dire l’automatismo probatorio relativo alla presunzione della sussistenza del danno per indebita durata del processo – allorquando riconosce che la mancata costituzione in giudizio del contumace possa influire anche sull’an debeatur.

Contrariamente a quanto si afferma in ricorso, in termini analoghi circa l’essenzialità della costituzione dell’erede come condizione per far valere la sofferenza morale per l’ingiustificata durata del processo, si è espressa anche la Seconda Sezione della CEDU con la sentenza – di irricevibilità – del 18 giugno 2013, in causa Fazio + altri e Italia, in cui si è statuito che la qualità di erede di una parte nel procedimento presupposto non conferisce, di per sè, il diritto a considerarsi vittima della, eventualmente maturata, durata eccessiva del medesimo e che l’interesse dell’erede alla conclusione rapida della causa difficilmente è conciliabile con la sua mancata costituzione nello stesso, dato che solo attraverso l’intervento nel procedimento l’avente diritto ha l’opportunità di partecipare e di influire sull’esito dello stesso.

L’errore dei ricorrenti sta nell’automatica equiparazione – in una fase del processo caratterizzata dalla mancanza di un atto di riassunzione – della posizione del congiunto di una parte in causa (congiunto che è al di fuori del processo e potrebbe essere del tutto all’oscuro dell’esistenza di un giudizio riguardante il proprio dante causa oppure, in ipotesi, potrebbe avere addirittura rinunziato all’eredità o trovarsi nella posizione di mero chiamato), alla posizione della parte contumace, cioè di un soggetto formalmente coinvolto a tutti gli effetti nel giudizio di cui subisce tutte le conseguenze anche in termini di paterna per la sua durata (ed è proprio questa l’ipotesi a cui si riferisce la pronuncia delle sezioni unite n. 585/2014).

2-3 Con un secondo motivo i ricorrenti si dolgono della “acritica” determinazione dell’indennizzo secondo il parametro di 500,00 Euro annui e rimproverano alla Corte d’Appello di avere tralasciato di considerare la durata quasi ventennale del processo e le decisioni della CEDU: ritengono congruo invece un parametro di Euro 1500,00 annui considerata la rilevanza della posta in gioco e l’entità del pregiudizio subito.

Con un terzo motivo i ricorrenti denunziano ancora il quantum della liquidazione ritenendo congruo, sempre sulla scorta dei parametri CEDU un indennizzo compreso tra i 12.000,00 e i 13.500,00 Euro ciascuno.

Anche tali motivi – che per la comune attinenza al parametro utilizzato per la liquidazione ben possono esaminarsi congiuntamente – sono infondati.

La L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, fissa la misura dell’indennizzo tra un minimo di 500,00 Euro e un massimo di 1.500,00 Euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccede il termine ragionevole di durata del processo.

La Corte di Perugia si è dunque mantenuta entro i limiti di legge e dunque la censura non coglie nel segno anche perchè – contrariamente a quanto affermato in ricorso – la Corte ha dato conto della propria scelta nel rispetto dei criteri indicati dal comma 2 della norma citata considerando la natura degli interessi coinvolti e la natura e rilevanza della causa: in proposito ha osservato che si trattava di un “contenzioso avente ad oggetto la proprietà esclusiva o condominiale di un cornicione”.

A ciò aggiungisi che – come riferiscono gli stessi ricorrenti – il contenzioso si è concluso con un accordo tra le parti “con il mantenimento dello status quo ante causam” per cui la posta in gioco e l’entità del pregiudizio subito appare correttamente presa in esame dalla Corte di merito.

Solo per completezza, va rilevato che il rispetto della Convenzione europea, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore della base di calcolo dell’indennizzo, essendo peraltro il giudice nazionale vincolato al rispetto della L. n. 89 del 2001, art. 2, non toccando la diversità di calcolo la complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Sez. 6-2, Sentenza n. 19175 del 28/09/2015 Rv. 636529; Cass. 22 agosto 2011 n. 17440; Cass. n. 23154 del 2012; Cass. n. 4973 del 2013).

Il ricorso va pertanto respinto con addebito di spese alla parte soccombente, rilevandosi – quanto all’istanza di rimessione alle sezioni unite – non solo la superfluità della stessa, ma anche che, per giurisprudenza costante, l’istanza di rimessione del ricorso alle sezioni unite, formulata ai sensi dell’art. 376 c.p.c., comma 2 e dell’art. 139 disp. att. c.p.c., rappresenta una mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale, il quale non solo non è soggetto ad un obbligo di motivazione, ma neppure deve necessariamente manifestarsi in uno specifico esame e rigetto di detta istanza (tra le varie Sez. 1, Sentenza n. 12962 del 22/06/2016 Rv. 640131; Sez. 2, Sentenza n. 8016 del 21/05/2012 Rv. 622410).

Trattandosi di procedimento esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento che liquida in Euro 500,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2017

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