Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8688 del 04/04/2017


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Cassazione civile, sez. un., 04/04/2017, (ud. 10/01/2017, dep.04/04/2017),  n. 8688

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DIDONE Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –

Dott. NAPPI Cristiano – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26632-2015 proposto da:

B.A., D.A.P., J.S.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA NIZZA 45, presso lo studio

dell’avvocato LUCIANO MARIANI, rappresentati e difesi dall’avvocato

PAOLO CAMPANATI;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERO – UNIVERSITARIA – OSPEDALI RIUNITI UMBERTO I –

G.M. LANCISI – G. SALESI, in persona del direttore generale pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SCIRE’ 15, presso lo

studio dell’avvocato LUIGI CASALE, rappresentata e difesa

dall’avvocato LORENZO GNOCCHINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il

27/04/2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/01/2017 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

uditi gli avvocati Paolo CAMPANATI e Claudia CARDENA’ per delega

orale dell’avvocato Lorenzo Gnocchini;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO

Francesco Mauro, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

B.A., D.A.P. e J.S.G., dipendenti dell’Azienda ospedaliera “Ospedali Riuniti Umberto I – G.M. Lancisi – G. Salesi” di (OMISSIS), impugnarono innanzi al giudice del lavoro del Tribunale di Ancona le trattenute in busta paga operate nei loro confronti dalla datrice di lavoro a titolo di recupero, D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 53, comma 7, dei compensi da essi percepiti per prestazioni infermieristiche non autorizzate rese presso la struttura privata “Residenze Anni Azzurri s.r.l.” nel corso del periodo 2007 – 2010.

A seguito di rigetto della domanda la Corte d’appello di Ancona, investita dal gravame proposto dai suddetti dipendenti, con sentenza pubblicata il 27.4.2015, ha parzialmente riformato la decisione impugnata, dichiarando l’illegittimità delle trattenute stipendiali effettuate dall’Azienda ospedaliera limitatamente alle somme corrispondenti alle ritenute operate dal soggetto erogatore dei compensi per le prestazioni infermieristiche rese dagli appellanti senza autorizzazione della pubblica amministrazione di appartenenza, dopo aver rilevato che il debito di questi ultimi nei confronti della loro datrice di lavoro era da circoscrivere ai compensi indebitamente percepiti al netto delle ritenute di legge.

Per la cassazione della sentenza ricorrono B.A., D.A.P. e J.S.G., con sei motivi.

Resiste con controricorso l’Azienda ospedaliera universitaria Ospedale Riuniti Umberto I – G.M. Lancisi – G. Salesi, in persona del direttore generale dott. G.P..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 del R.D. n. 1038 del 1933, art. 43, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 7 e 7 bis, in combinato disposto con l’art. 1243 c.c., nonchè l’illegittimità delle trattenute stipendiali per mancanza di valido accertamento e di verifica dei presupposti di legge.

In pratica, i ricorrenti censurano la parte della sentenza in cui è stata dichiarata inammissibile la censura volta a contestare la motivazione adottata dal primo giudice per addivenire all’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario. Invero, la Corte territoriale ha respinto tale motivo d’impugnazione sulla scorta della rilevata mancanza di soccombenza dei lavoratori proprio in merito a tale specifico presupposto processuale.

Al riguardo i ricorrenti rilevano che in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7-bis l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti e che ai sensi del R.D. n. 1038 del 1933, art. 43 il giudizio di responsabilità è istruito ad istanza del procuratore generale presso la Corte dei conti su istanza dell’amministrazione o ad iniziativa del medesimo procuratore.

Quindi, in base a tale assunto difensivo, la norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, regola un illecito chiaramente amministrativo, per cui si sarebbe in presenza di una fattispecie sanzionatoria tipica, non risarcitoria, a differenza di quanto affermato nell’impugnata sentenza, dovendosi prescindere dalla deminutio patrimonii causata dal dipendente, con la conseguenza che è censurabile la decisione del primo giudice il quale aveva affermato la concorrenza della giurisdizione civile e contabile, sussistendo, invece, a loro giudizio, la competenza esclusiva della Corte dei conti, in relazione alla quale unica legittimata attiva era la relativa Procura generale.

Aggiungono i ricorrenti che in mancanza di siffatto accertamento esclusivo della sanzione D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 53, comma 7, in relazione al quale il giudice contabile può anche esercitare un potere di riduzione, e stante le contestazioni formulate, sía in ordine al contenuto delle relazioni della Guardia di Finanza, che avevano dato vita all’azione di recupero oggetto di causa, sia in merito ai compensi asseritamente ricevuti, il credito preteso in compensazione non poteva ritenersi certo, nè liquido o esigibile, in assenza di qualsivoglia accertamento degli importi pretesi dalla pubblica amministrazione. Infine, i ricorrenti evidenziano che nemmeno poteva procedersi a compensazione impropria, ammissibile solo quando i crediti nascono dal medesimo rapporto e comportino un semplice accertamento contabile di dare ed avere, mentre la sanzione “de qua” deriva dal diverso rapporto di lavoro intercorso con la struttura privata, non essendo configurabile come obbligazione direttamente riconducibile al rapporto di lavoro con l’amministrazione.

1.1. Il motivo sul difetto di giurisdizione del giudice ordinario è infondato.

Invero, come è stato già chiarito (Cass. Sez. Un., Sentenza n. 21260 del 20.10.2016), “l’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato ad interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto in quanto non soccombente su tale, autonomo, capo della decisione”.

Ciò in quanto non può trovare accoglimento il motivo di impugnazione con il quale i ricorrenti hanno messo in discussione la giurisdizione del giudice ordinario, da loro stessi adito, al fine di ribaltare l’esito parzialmente negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in contrasto con il divieto di venire contra factum proprium.

Quindi, correttamente la Corte territoriale ha rilevato la mancanza d’interesse degli appellanti a dolersi del difetto di giurisdizione, stante la mancanza di una loro soccombenza su tale specifica questione processuale, tanto più che anche la loro domanda di accertamento negativo della pretesa creditizia dell’amministrazione di appartenenza è stata parzialmente accolta con riguardo alla non ripetibilità delle somme corrispondenti alle ritenute di legge.

In effetti, l’appello per difetto di giurisdizione è precluso perchè l’ordinamento processuale non consente all’attore, una volta che la causa sia stata decisa nel merito, di attuare una scelta contraddittoria rispetto a quella praticata originariamente sulla giurisdizione, e gli impedisce, attraverso la dichiarazione di inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato con il gravame (al netto, quindi, di eventuali concorrenti motivi di merito), di conseguire l’utilità discendente dal ripensamento secundum eventum.

Una soluzione preclusiva, questa, che appare in linea con la considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale e con la regola di correttezza e buona fede prevista dall’art. 1175 c.c.. Infatti, il disconoscimento della giurisdizione ab initio invocata finisce per tradursi in un prolungamento dei tempi della definizione del giudizio dettata da ragioni puramente utilitaristiche.

La soluzione della inammissibilità dell’appello proposto dall’attore soccombente nel merito, il quale sostenga che la sentenza è stata emanata da un giudice privo di giurisdizione, non si pone neppure in contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge o in contraddizione con l’attinenza del riparto di giurisdizione all’ordine pubblico processuale. Infatti, il valore costituzionale del giudice precostituito per legge è presidiato dall’obbligo del giudice di procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi e va bilanciato con quello dell’ordine e della speditezza del processo. Pertanto, la questione della giurisdizione può conoscere una preclusione alla possibilità della relativa deduzione in appello ad opera di chi, avendo adito il giudice appartenente a quel dato plesso giurisdizionale, non è soccombente al riguardo.

1.2. In ogni caso, le Sezioni Unite di questa Corte si sono già espresse in materia di compensi non autorizzati dalla P.A. (Sez. U, Ordinanza n. 19072 del 28.9.2016) affermando che “la controversia avente ad oggetto la domanda della P.A. rivolta ad ottenere dal proprio dipendente il versamento dei corrispettivi percepiti nello svolgimento di un incarico non autorizzato appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, atteso che l’amministrazione creditrice ha titolo per richiedere l’adempimento dell’obbligazione senza doversi rivolgere alla Procura della Corte dei conti, la quale sarà notiziata soltanto ove possa prospettarsi l’esistenza di danni.”

Va, altresì, rilevato che nel caso di specie va esclusa, ratione temporis, l’applicazione, ai fini che rilevano per la determinazione della giurisdizione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7 come introdotto dalla L. n. 190 del 2012, determinativa della giurisdizione della Corte dei Conti. Infatti, le somme in questione furono erogate dalla struttura privata “Residenze Anni Azzurri s.r.l.” alla cooperativa sociale “Il Sorriso” di (OMISSIS) a remunerazione delle prestazioni infermieristiche rese dagli odierni ricorrenti nel corso degli anni 2007 – 2008 – 2009 – 2010 presso l’anzidetta struttura, così come emerso a seguito degli accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza nel corso del 2011 (v. pagg. 1-2 del presente ricorso, nonchè pagg. 2-3 del controricorso).

1.3. Tra l’altro, deve negarsi che prima della introduzione dell’art 7 bis potesse dirsi indiscutibile la giurisdizione contabile le volte in cui non emergesse o non fosse stato formalmente dedotto un profilo di danno che si concretizzasse in pregiudizi ulteriori rispetto al mancato introito dei compensi corrisposti da terzi ai propri dipendenti. Del resto anche con la sentenza n. 22688/2011 le Sezioni Unite di questa Corte, nel formulare e ribadire il principio della responsabilità erariale anche alle funzioni strumentali a quelle ordinarie svolte dal pubblico dipendente, lo collega pur sempre all’esistenza di un danno. Oltretutto, nel caso in esame, da un lato, l’amministrazione di appartenenza ha agito per il recupero delle somme indebitamente percepite attraverso il rimedio delle ritenute stipendiali e, dall’altro, non vi è stata alcuna azione della Procura della Corte dei Conti per far emergere un danno erariale.

1.4. Quindi, l’amministrazione creditrice aveva titolo per richiedere l’adempimento della obbligazione, senza doversi rivolgere alla Procura della Corte dei Conti, la quale potrebbe essere notiziata soltanto ove si dovesse ipotizzare l’esistenza di danni.

In realtà appare evidente che l’obbligo di versamento di cui trattasi rappresenta una particolare sanzione ex lege al fine di rafforzare la fedeltà del dipendente pubblico e quindi prescinde dai presupposti della responsabilità per danno (evento; nesso di causalità; elemento psicologico). Non va, perciò, confuso il concetto attinente alla mera reversione del profitto con quello del danno, confusione, questa, che condurrebbe all’estensione del limite della giurisdizione contabile al di fuori dei suoi confini istituzionali.

A riprova di quanto sopra affermato può ritenersi che se l’ipotesi di responsabilità erariale fosse attivata dal mero inadempimento dell’obbligo di denuncia di percezione di compensi corrisposti da terzi al pubblico dipendente, a prescindere dal danno che dall’inadempimento potrebbe derivare, sarebbe perfino dubbia la possibilità per l’amministrazione di richiedere il versamento dei compensi, ossia l’adempimento della obbligazione, prescindendo dall’interessarne la Procura della Corte dei conti; ma, soprattutto, non sarebbe dubbio che il debitore non avrebbe alcuna tutela giurisdizionale, dato che non potrebbe adire, egli, la Corte dei conti, presso la quale il processo (di responsabilità erariale) inizia esclusivamente ad istanza della Procura: se ne dovrebbe concludere che il dipendente, debitore del versamento dei compensi, può rivolgersi soltanto al giudice delle controversie relative al suo rapporto di lavora.

Deve allora statuirsi, in conformità a quanto già affermato con la summenzionata ordinanza n. 19072 del 28.9.2016 delle Sezioni Unite di questa Corte, che la responsabilità di cui trattasi, se limitata all’inadernpmento dell’obbligo di denuncia, senza dedurre l’esistenza di conseguenze dannose per l’amministrazione di appartenenza, non può sottrarsi alle ordinarie regole di riparto di giurisdizione e quindi, trattandosi di rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, alla giurisdizione del giudice ordinario; solo se ad essa si accompagnino profili di danno (danno da immagine; danno da sottrazione di energie lavorative per essersi compiuta, l’attività oggetto di denuncia, in costanza di rapporto di lavoro), allora potrà dirsi interessata la giurisdizione contabile.

2. Col secondo motivo i ricorrenti denunziano i seguenti vizi:-Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 degli artt. 112 e 113 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1 e comma 2, primo periodo, in combinato disposto con l’art. 3 Cost. – Omessa pronuncia sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7 T.U.P.I. (testo unico del pubblico impiego) nella parte in cui prevede una duplicazione del sistema sanzionatorio (disciplinare ed amministrativo) a carico del pubblico dipendente – Motivazione apparente sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7 TUPI nella parte in cui prevede una duplicazione del sistema sanzionatorio (in capo al percettore nonchè all’erogante ai sensi del comma 9) a tutela del medesimo interesse legittimo – Illegittimità delle trattenute – Richiesta di sospensione del giudizio.

I ricorrenti lamentano, in concreto, l’omissione di pronunzia in merito alla dedotta questione di incostituzionalità della norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, per violazione dell’art. 3 Cost., sollevata nel ricorso introduttivo, nella parte in cui prevede una duplicazione del sistema sanzionatorio (disciplinare ed amministrativo) a carico del pubblico dipendente, nonchè una motivazione apparente in ordine al rigetto della questione di costituzionalità della stessa norma nella parte in cui questa prevede una duplicazione del sistema sanzionatorio in capo al percettore oltre che all’erogante ai sensi del nono comma, quantomeno nel caso in cui quest’ultimo fosse a conoscenza della qualità di pubblico dipendente del primo. Nel contempo i medesimi invocano la sospensione del procedimento, essendo pendente il giudizio di legittimità costituzionale della norma in questione.

2.1. Osserva la Corte che il motivo è infondato in quanto i giudici d’appello si sono espressi in merito alla sollevata questione di incostituzionalità respingendo il relativo motivo e fornendo una spiegazione niente affatto apparente, contrariamente a quanto asserito dagli odierni ricorrenti, per cui non sussistono i lamentati vizi di omessa pronunzia e di motivazione apparente.

La Corte territoriale ha, infatti, precisato che la disposizione di cui – all’art. 53, comma 7 citato D.Lgs. non prevede alcuna duplicazione di risarcimento, ma solo la legittimazione dell’amministrazione a ricevere il pagamento delle spettanze maturate in capo al suo dipendente il quale abbia collaborato col privato, con la particolarità che, ove quest’ultimo non abbia versato i compensi all’amministrazione, il pubblico dipendente gli succede nella relativa posizione di obbligato a tale adempimento. La posizione del pubblico dipendente, quale percettore di somme non autorizzato a riceverle, è poi parificata dalla Corte di merito a quella di qualunque altro soggetto che abbia ricevuto un pagamento soggettivamente indebito, tenuto, come tale, a restituirlo al vero creditore, per cui rispetto a tale situazione risulta irrilevante, secondo il collegio di seconde cure, la previsione dell’ulteriore sanzione che il comma 9 della citata norma di cui all’art. 53 pone a carico del privato che abbia fruito della collaborazione non autorizzata.

2.2. E’, inoltre, infondata la richiesta di sospensione del procedimento, atteso che la Corte Costituzionale, pronunziandosi nel procedimento richiamato dai ricorrenti sulla dedotta questione di incostituzionalità ai fini dell’invocata sospensione, ha rilevato, con Ordinanza n. 41 del 2015 (udienza del 24.2.2015), la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 53, comma 7, in riferimento all’art. 36 Cost., comma 1, art. 41 Cost., comma 1, e art. 97 Cost., comma 1 nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, “il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalentì. Secondo la stessa Consulta il giudice rimettente ha sollevato la questione sulla base di una duplice e irrisolta prospettiva interpretativa – la prima, fatta propria dalla sentenza oggetto di opposizione nel giudizio a quo, secondo cui l’amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative non autorizzate, a nulla rilevando l’eventuale già avvenuto pagamento; la seconda, frutto di un diverso e recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui in quest’ultima ipotesi l’amministrazione avrebbe titolo per agire direttamente nei confronti del pubblico dipendente – senza optare per l’una o l’altra delle ricostruzioni ermeneutiche indicate, ciascuna delle quali è orientata a un proprio petitum e a una differente soluzione decisoria. Inoltre, con successiva Ordinanza n. 90 del 2015 (udienza del 28.4.2015), la Corte Costituzionale ha avuto modo di tornare sull’argomento dichiarando la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, aret. 53, comma 7, impugnato, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24 Cost., art. 36 Cost., comma 1, e art. 97 Cost., comma 1, in quanto obbliga il dipendente pubblico a restituire all’amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione.

3. Attraverso il terzo motivo i ricorrenti deducono i seguenti vizi:-Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 dell’art. 53, comma 7 TUPI – Illegittimità delle trattenute per intervenuta autorizzazione della P.A. alle prestazioni extralavorative e giudizio positivamente espresso dalla P.A. di compatibilità delle prestazioni, in forza di regime convenzionale decennale con la struttura privata, rese presso la medesima struttura privata con le medesime modalità e senza alcuna interferenza sull’attività lavorativa pubblica.

3.1. Tale motivo è infondato, in quanto non supera il rilievo di fondo per il quale l’espletamento dell’attività resa presso la struttura privata presupponeva, in base alla stessa norma richiamata dai ricorrenti, una autorizzazione espressa da parte dell’amministrazione pubblica di appartenenza. Comunque, si tenta di contrapporre in maniera inammissibile una valutazione di merito in ordine ad una determinata circostanza – quale quella rappresentata dal pregresso regime convenzionale tra la pubblica amministrazione e la citata struttura privata la cui cessazione non sarebbe stata comunicata e che a giudizio dei ricorrenti avrebbe dovuto escludere l’operatività della sanzione di cui trattasi – rispetto all’operazione di apprezzamento dei fatti già adeguatamente svolta dalla Corte territoriale con argomentazione adequatamente motivata ed immune da rilievi di ordine logico-giuridico.

Infatti, la Corte d’appello di Ancona ha spiegato che il comportamento dell’amministrazione che si assumeva costituire un’omissione – in ragione della mancata comunicazione agli interessati del testo delle convenzioni (la cui cognizione avrebbe consentito di apprendere i relativi termini di efficacia) e della cessazione del regime convenzionale – era cosa ben diversa dall’autorizzazione (peraltro necessariamente di forma scritta) prevista dalle citate disposizioni di legge, di cui non poteva ovviamente assumere l’efficacia giuridica.

A. L’oggetto del quarto motivo è costituito dalla violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 3 dell’art. 53, comma 7, TUPI in combinato disposto con la L. n. 689 del 1981, art. 3 nonchè dalla dedotta, illegittimità delle trattenute per elisione dell’elemento soggettivo della sanzione de qua per mancata comunicazione da parte della cessazione del regime convenzionale decennale.

4.1. Osserva la Corte che la doglianza concernente l’asserita mancata considerazione dell’elemento soggettivo ai fini sanzionatori è infondato, restando insuperato il dato di fondo rilevato dalla Corte territoriale secondo la quale, pur a voler ammettere la natura sanzionatoria dell’obbligo di versamento dei compensi all’amministrazione di appartenenza, non risultava essere stata allegata dagli appellanti la circostanza di una loro attivazione per evitare l’infrazione, in considerazione del fatto che in tema di violazioni amministrative è sufficiente la semplice colpa per integrare l’elemento soggettivo dell’illecito. Nè può valere il richiamo operato dai ricorrenti, nel tentativo di una inammissibile contrapposizione valutativa dei fatti, all’omessa comunicazione da parte della p.a. della cessazione del preesistente regime convenzionale, avendo la Corte territoriale correttamente escluso, con motivazione adeguata ed esente da rilievi di legittimità, che tale situazione di fatto potesse consentire l’elusione della norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, sulla necessità della previa autorizzazione da parte della pubblica amministrazione di appartenenza ai fini dell’espletamento di incarichi retribuiti.

5. Col quinto motivo vengono denunziati i seguenti vizi:-Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 degli artt. 112, 113 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 119 disp. att. c.p.c., comma 1 e comma 2, primo periodo in combinato disposto e/o analogia con il R.D. n. 1214 del 1034, art. 52, comma 2 – Riduzione della sanzione in considerazione dell’omessa comunicazione da parte della p.a. della cessazione del regime convenzionale decennale con la struttura privata e dell’ottimo rendimento lavorativo dei ricorrenti presso la p.a. senza alcuna interferenza.

5.1. anche tale motivo, che verte sostanzialmente sull’asserita omissione o pronunzia circa la domanda subordinata di condanna dell’azienda ospedaliera alla restituzione dei compensi “nella misura ritenuta di giustizia”, è infondato, in quanto è da ritenere che la Corte d’appello ha implicitamente rigettato la suddetta domanda allorquando ha circoscritto la pronunzia di illegittimità delle trattenute stipendiali ai soli compensi percepiti al netto delle ritenute fiscali e previdenziali già eseguite come per legge.

Invero, qualora ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie non è configurabile il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., che si riscontra soltanto allorchè manchi una decisione in ordine a una domanda o a un assunto che renda necessaria una statuizione di accoglimento o di rigetto. (v. in tal senso Cass. Sez. 2, n. 10001 del 24/6/2003, nonchè Cass. sez. 3, n. 19131 del 23.9.2004, Cass. sez. 3, n. 5485 del 14.3.2006 e Cass. sez. lav. n. 17580 del 4.8.2014).

6. Col sesto motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè dell’illegittima condanna alle spese del primo e secondo grado di giudizio. Secondo i ricorrenti l’accoglimento parziale del gravame, riconducibile alla ravvisata illegittimità delle trattenute stipendiali effettuate al lordo anzichè al netto, avrebbe dovuto comportare la condanna dell’azienda resistente alle spese dei giudizi di merito o, in subordine, la loro compensazione parziale o, in ultima analisi, quella totale, ma giammai avrebbe potuto comportare la loro condanna.

6.1. Si osserva che anche quest’ultimo motivo è infondato: invero, la Corte territoriale ha correttamente applicato il generale principio della soccombenza, mitigandolo, nel contempo, con la decisione di compensazione per metà delle spese d’appello in ragione del parziale accoglimento della domanda. D’altra parte tale statuizione è risultata coerente in punto spese con quella del giudice di primo grado, il quale, pur rigettando la domanda e condannando i ricorrenti alle spese legali, le ha compensate per metà.

In tal modo la Corte d’appello ha fatto corretto e prudente uso dei poteri discrezionali in ordine al governo delle spese, compensandole per metà in ragione del parziale accoglimento del gravame, nei limiti sopra illustrati, ed evitando di porle per il residuo a carico della parte risultata comunque vittoriosa, posto che il principio della soccombenza va applicato tenendo conto dell’esito complessivo della lite.

7. In definitiva, il ricorso va rigettato.

La complessità della questione trattata ed il formarsi del recente orientamento sulla giurisdizione, di cui al precedente sopra citato di queste Sezioni Unite n. 19072 del 28.9.2016, giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1- quater al testo unico di cui a D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2017

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