Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8685 del 08/05/2020

Cassazione civile sez. I, 08/05/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 08/05/2020), n.8685

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2237/2019 proposto da:

M.H.S., rappresentato e difeso dall’avv. Daniela Gasparin,

giusta procura speciale in calce al ricorso, domiciliato presso la

Cancelleria della Prima Sezione civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei

Portoghesi 12 Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4491/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 16/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

31/01/2020 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza depositata il 16.10.2018, ha confermato il provvedimento di primo grado di rigetto della domanda di M.H.S., cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuta la mancanza dei presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, difettando la prova di una persecuzione personale e diretta ai sensi della Convenzione di Ginevra (il richiedente aveva riferito di non voler far ritorno in Bangladesh per le minacce dei suoi creditori e per l’impossibilità di far ricorso alla giustizia, non essendo il suo stato d’origine dotato di un sistema giuridico che permetta di assicurare livelli adeguati di protezione).

Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, la Corte d’Appello di Milano ha evidenziato l’insussistenza del pericolo del ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel paese d’origine.

Infine, il ricorrente non è stato altresì ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una specifica situazione di vulnerabilità personale.

Ha proposto ricorso per cassazione M.H.S. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6, e 7, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame di fatti decisivi e assenza di motivazione.

Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale non ha specificato il motivo per cui il suo racconto non sarebbe credibile oltre che generico, quali contraddizioni sarebbero emerse, quali dichiarazioni discostanti rispetto ai fatti noti.

Il collegio d’appello, nel formulare tale valutazione svincolata da dati fattuali, ha omesso l’esame di fatti decisivi, che erano stati rappresentati nel primo motivo di appello, quali la minaccia alla vita subita ed il timore di subire ripercussioni anche a causa di una denuncia per la quale non si potrebbe difendere.

Infine, evidenzia che il riconoscimento dello status di rifugiato può anche fondarsi sul timore di essere perseguitati da agenti terzi, estranei all’organizzazione dello Stato, quando i soggetti che offrono protezione non vogliono o non possono fornirla e questo era il caso del Bangladesh.

Infine, il ricorrente lamenta che la Corte non ha approfondito le minacce e violenze subite anche in Libia e l’impossibilità per lo stesso di potersi difendere.

2. Con il secondo motivo è stata dedotta violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in relazione agli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale. Omesso esame di fatti decisivi. Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2, 3, 6 e 13 CEDU, art. 47Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 46 dir. n. 2013/32.

3. Il primo ed il secondo motivo, da esaminare unitariamente avendo ad oggetto questioni connesse, sono inammissibili.

Va osservato che la Corte d’Appello, sul rilievo che il ricorrente (come nel ricorso introduttivo) anche nell’atto di appello ha genericamente richiesto il riconoscimento delle varie forme di protezione sulla base della situazione di violenza generalizzata e di instabilità in cui si trova il paese d’origine (vedi pag. 5 sentenza impugnata), ha, in primis, dichiarato il ricorso inammissibile per genericità, e, ad abundantiam, lo ha ritenuto infondato in considerazione della non credibilità del racconto del richiedente.

Quest’ultimo è insorto nel ricorso per cassazione deducendo, in primo luogo, che, in realtà, nel primo motivo d’appello aveva specificamente dedotto le ragioni a fondamento del proprio timore di far rientro in Bangladesh (minacce alla propria vita subite dai propri creditori e impossibilità di far ricorso alla giustizia, non essendo in grado o non volendo l’autorità statale del Bangladesh offrire protezione).

Inoltre, il ricorrente ha invocato la violazione dei parametri normativi per la definizione di danno grave, ed ha, inoltre, contestato la valutazione di non credibilità formulata dal giudici di merito, sia perchè non motivata, sia perchè effettuata in violazione dei parametri normativi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c).

Per quanto concerne la prima doglianza del ricorrente, volta a contrastare la statuizione di aspecificità dell’appello, posto che nella sentenza impugnata non vi è alcun cenno ai motivi che avrebbero indotto il ricorrente ad allontanarsi dal paese d’origine, va rilevato che il ricorso difetta di autosufficienza.

Infatti, è principio consolidato di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 09/07/2013, n. 17041). Ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate – come nel caso di specie – questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 13/06/2018, n. 15430).

Nel caso di specie, il ricorrente non ha adempiuto correttamente al proprio onere di allegazione, limitandosi ad affermare genericamente di aver indicato nel primo motivo d’appello le ragioni per cui era fuggito dal Bangladesh, ma senza indicare esattamente dove tali deduzioni erano state svolte e con quali modalità.

Ne consegue che il ricorrente non è stato in grado di censurare l’affermazione della sentenza impugnata in ordine alla genericità dell’appello.

Essendo, pertanto, stata accertata l’inammissibilità delle censure svolte dal ricorrente sulla statuizione (della sentenza impugnata) di inammissibilità dell’appello, altrettanto inammissibili si appalesano le censure svolte dal ricorrente alla motivazione con cui la Corte di Appello, “ad abundantiam”, si è pronunciata anche sul merito (ritenendo la non credibilità del narrato del richiedente).

In proposito, è orientamento costante di questa Corte che qualora il giudice che abbia ritenuto inammissibile una domanda, o un capo di essa, o un singolo motivo di gravame, così spogliandosi della “potestas iudicandi” sul relativo merito, proceda poi comunque all’esame di quest’ultimo, è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di impugnazione della sentenza da lui pronunciata che ne contesti solo la motivazione, da considerarsi svolta “ad abundantiam”, su tale ultimo aspetto. (Sez. U, Sentenza n. 24469 del 30/10/2013; vedi anche Cass. n. 30393/2017).

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2. Motivazione apparente sulla domanda di protezione umanitaria. Omesso esame di fatti decisivi sulla sussistenza dei requisiti di quest’ultima. Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7,14,16,17 e D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 32, artt. 112,132 e 156 c.p.c., art. 111 Cost..

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello non ha considerato nè la situazione del paese d’origine, caratterizzata dalla permanente violazione dei diritti fondamentali, che, come tale, integra una condizione di vulnerabilità, nè il suo inserimento nel nostro paese.

5. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente ha genericamente dedotto la sistematica violazione dei diritti fondamentali nel paese d’origine senza correlarla minimamente alla sua condizione personale, dolendosi che il giudice di merito non avrebbe svolto la comparazione tra la sua situazione nel paese d’origine e in quello d’accoglienza senza neppur aver allegato elementi idonei a consentire una tale comparazione.

Nè, infine, può rilevare il dedotto livello di integrazione raggiunto nel paese d’accoglienza, elemento che, secondo il costante orientamento di questa Corte, può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

La declaratoria di inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.100,00 oltre spese prenotate a debito (SPAD).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2020

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