Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8664 del 29/03/2021

Cassazione civile sez. II, 29/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 29/03/2021), n.8664

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24546/2019 proposto da:

T.L.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato STEFANIA

SANTILLI, presso il cui studio a Milano, via Lamarmora 42,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi

12, domicilia per legge;

– resistente –

avverso il DECRETO del TRIBUNALE DI MILANO depositato il 16/7/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 22/9/2020 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con il decreto in epigrafe, ha respinto il ricorso con il quale T.L.G., nato in (OMISSIS), aveva impugnato il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale da lui presentata.

T.L.G., con ricorso notificato il 6/8/2019, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione del decreto, dichiaratamente comunicato il 16/7/2019.

Il ministero dell’interno ha depositato atto di costituzione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. In via preliminare, il ricorrente ha richiesto alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. con L. n. 46 del 2017, per violazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., nella parte in cui prevede che le disposizioni previste dall’art. 6, comma 1, lett. g), che hanno introdotto la nuova disciplina processuale in materia di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, si applicano a tutti i procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto, nonostante che, ai sensi dell’art. 21, comma 2, le nuove modalità di svolgimento dell’audizione in sede amministrativa trovino applicazione alle domande di protezione internazionale introdotte dal centottantesimo giorno dalla entrata in vigore del decreto, con la conseguenza che il nuovo rito processuale, che si caratterizza per la mera eventualità dell’udienza per l’audizione del ricorrente e per la mancanza della possibilità di proporre appello nel merito, trova applicazione anche se il procedimento amministrativo si sia svolto con il vecchio rito.

1.2. Il ricorrente, in particolare, ha dedotto, innanzitutto, la rilevanza della questione, avendo proposto la domanda di protezione internazionale prima del 17/8/2017, per cui l’audizione si è svolta secondo la procedura in vigore prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 13 del 2007 e, dunque, senza l’applicazione delle nuove cautele dallo stesso introdotte, come la videoregistrazione del colloquio con la commissione. D’altra parte, ha aggiunto il ricorrente, avendo proposto il ricorso al tribunale dopo il 17/8/2017, il processo si è svolto con il nuovo rito, con la conseguente preclusione del grado d’appello.

1.3. Il ricorrente, inoltre, ha segnalato la non manifesta infondatezza della questione sul rilievo che l’applicazione delle sole modifiche del rito giudiziale, e cioè di un procedimento camerale quasi esclusivamente cartolare e senza appello, anche nei casi in cui non siano state attuate le nuove garanzie amministrative, come la videoregistrazione del colloquio innanzi alla commissione, viola gli artt. 3,24 e 111 Cost., non essendo garantito al richiedente che il giudice non può prendere visione del colloquio avuto in sede amministrativa ovvero, in caso contrario, di essere sentito dal giudice.

2.1. La questione è manifestamente infondata ed è, in ogni caso, irrilevante.

2.2. Questa Corte, intanto, ha già avuto modo di affermare che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 1, non essendovi alcun dubbio che il procedimento camerale, da sempre impiegato anche per la trattazione di controversie su diritti e status, sia idoneo a garantire l’adeguato dispiegarsi del contraddittorio con riguardo al riconoscimento della protezione internazionale, neppure potendo riconoscersi rilievo all’eventualità della soppressione dell’udienza di comparizione, sia perchè essa è circoscritta a particolari frangenti nei quali la celebrazione dell’udienza si risolverebbe in un superfluo adempimento, tenuto conto dell’attività in precedenza svolta, sia perchè il contraddittorio è comunque pienamente garantito dal deposito di difese scritte (Cass. n. 17717 del 2018).

2.3. Nè, del resto, può rilevare il fatto che il decreto che definisce il procedimento non è reclamabile per ragioni di fatto se non altro perchè, com’è noto, il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalmente sancito (Cass. SU n. 15399 del 2003; Cass. SU n. 22610 del 2014), pur in caso di provvedimenti a carattere decisorio (Cass. n. 10190 del 2000; Cass. n. 6225 del 2010). Il rito camerale previsto dalla legge, del resto, pur escludendo il doppio grado di cognizione di merito (oltretutto non riconosciuto dalla Costituzione quale necessaria garanzia del diritto di difesa), assicura comunque il valido esercizio di tale diritto attraverso l’esperibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.. In tal senso, in effetti, si è più volte pronunciata, con riguardo al rito in esame, questa Corte lì dove, in particolare, ha affermato (Cass. n. 27700 del 2018; conf., Cass. n. 31480 del 2018) che “… essendo il principio del doppio grado di giurisdizione privo di copertura costituzionale, il legislatore può sopprimere l’impugnazione in appello al fine di soddisfare specifiche esigenze, massime quella della celerità, esigenza decisiva per i fini del riconoscimento della protezione internazionale, dovendosi, altresì, considerare, per la verifica della compatibilità costituzionale della eliminazione del giudizio di appello, che il ricorso di cui trattasi è preceduto da una fase amministrativa destinata a svolgersi dinanzi ad un personale dotato di apposita preparazione, nell’ambito del quale l’istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraversi il colloquio destinato a svolgersi dinanzi alle Commissioni territoriali, di guisa che la soppressione dell’appello si giustifica anche per il fatto che il giudice è chiamato ad intervenire in un contesto in cui è stato già acquisito l’elemento istruttorio centrale – per l’appunto il detto colloquio -, al fine dello scrutinio della fondatezza della domanda di protezione, il che concorre a far ritenere superfluo il giudizio di appello”: a prescindere, si può aggiungere, dalla circostanza che tale colloquio – come nel caso di audizione svolta nel vigore della disciplina anteriore alle modifiche al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, apportate dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. c), conv. con L. n. 46 del 2017, in relazione a quanto previsto dello stesso D.L. n. 13 cit., art. 22, comma 2 – non sia stato videoregistrato.

2.4. D’altra parte, il principio secondo cui, in mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente disporre lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 11, lett. a), configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento a consentire il pieno dispiegamento del contraddittorio (Cass. n. 17717 del 2018; Cass. n. 32318 del 2018), non può che trovare applicazione in tutti i casi in cui, nel procedimento regolato dalla predetta norma, la videoregistrazione non sia, appunto, disponibile: indipendentemente dal fatto che l’audizione si è svolta nel vigore della disciplina anteriore alle modifiche al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, apportate dal D.L. n. 13 del 2017, art. 6, comma 1, lett. c), conv. con L. n. 46 del 2017, in relazione a quanto previsto dello stesso D.L. n. 13 cit., art. 22, comma 2; peraltro, come emerge dal decreto impugnato (p. 2), il giudice incaricato della trattazione del procedimento ha fissato l’udienza per la comparizione delle parti ed ha provveduto all’audizione del richiedente.

2.5. Questa Corte, comunque, ha chiarito che l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, non comporta automaticamente la necessità di dar corso alla audizione del richiedente, come affermato dalla giurisprudenza comunitaria la quale, in effetti, pronunciandosi in ordine all’interpretazione degli artt. 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32/CE del 26/7/2013, ha precisato che l’obbligo di consentire al richiedente di sostenere un colloquio personale, prima di decidere sulla domanda di protezione internazionale, grava esclusivamente sull’autorità incaricata di procedere all’esame della stessa, e non si applica pertanto nei procedimenti d’impugnazione, in quanto l’obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, imposto al giudice competente dall’art. 46, par. 3, della direttiva dev’essere interpretato tenendo conto della stretta connessione esistente tra la procedura d’impugnazione e quella di primo grado che la precede, nel corso della quale dev’essere consentito al richiedente di sostenere il colloquio personale, con la conseguenza che il giudice può decidere di non procedere all’audizione nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in occasione del procedimento di primo grado (cfr. Corte di Giustizia UE, 26/07/2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko). Nel caso in esame, in effetti, come emerge dal decreto impugnato (p. 2), il richiedente, ascoltato dal giudice, con alcune aggiunte o precisazioni, ha sostanzialmente confermato quanto già dichiarato innanzi alla commissione territoriale.

3.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6 e 14, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU e art. 2697 c.c., nonchè la violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni del richiedente fissati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha respinto la domanda di protezione proposta dal richiedente ritenendo che le dichiarazioni rese dallo stesso non erano attendibili.

3.2. Il tribunale, però, così facendo, ha osservato il ricorrente, non si è attenuto ai parametri normativi previsti dal D.Lgs. n. 251 cit., art. 3, poichè il giudizio avrebbe dovuto essere compiuto in modo unitario e non frazionato, confrontando le dichiarazioni con le informazioni disponibili sul Paese, senza prospettare scenari alternativi frutto di personali congetture o ipotesi, dando al ricorrente la possibilità di spiegare eventuali incongruenze ed integrare le dichiarazioni generiche ed applicando la regola secondo cui, in caso di dubbio, le dichiarazioni del richiedente devono considerarsi credibili.

3.3. Il tribunale, al contrario, ha considerato credibile il contesto di provenienza e la nazionalità del richiedente ma non anche le generalità dello stesso sulla base della sola circostanza della mancata esibizione del passaporto, senza applicare il beneficio del dubbio. Non ha verificato, inoltre, la normativa vigente nel contesto di provenienza in materia di incidente stradale e di poteri di polizia. Il giudizio del tribunale, poi, ha aggiunto il ricorrente, non è stato integrato su circostanze ritenute decisive ed è, piuttosto, il frutto di un pregiudizio sulle scelte personali del ricorrente.

3.4. Il giudizio di credibilità, che non dev’essere il frutto delle opinioni soggettive del giudice, si snoda, ha proseguito il ricorrente, attraverso una fase interna, e cioè di logicità ed assenza di contraddizioni nel racconto, ed una fase esterna, che verifica la coerenza della narrazione con le informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente ed acquisendo, anche d’ufficio, le informazioni in relazione alla situazione del Paese d’origine, in correlazione ai motivi di persecuzione ed ai pericoli addotti, ed alla specifica condizione del richiedente, con particolare riguardo alla sua condizione sociale ed alla sua età.

3.5. Il richiedente, ha aggiunto il ricorrente, non si è mai contraddetto, sia innanzi alla commissione sia in sede giudiziale, narrando la sua storia ed offrendo la sua collaborazione. Il suo racconto è plausibile nel senso che narra fatti storici verosimili in quanto cronologicamente ordinati e sequenziali e non fantastici o surreali, rispondendo alle domande senza ritardo, senza lacune o dubbi. Il tribunale, se vi erano dubbi o lacune nel racconto, avrebbe dovuto offrire al ricorrente la possibilità di fornire chiarimenti mentre nessuna domanda gli è stata rivolta sulla dinamica del sinistro e la denuncia presentata contro di lui dalla famiglia della ragazza.

3.6. La credibilità della sua narrazione, d’altra parte, è suffragata dall’articolo di stampa che il ricorrente ha depositato in edizione cartacea integrale e che documenta la sua storia pubblicando anche una foto del richiedente, le cui dichiarazioni sono coerenti rispetto al Paese d’origine.

3.7. Il tribunale, quindi, ha proseguito il ricorrente, lì dove ha ritenuto la mancanza di credibilità del richiedente senza svolgere alcuna verifica sul contesto di provenienza e del relativo sistema di polizia e senza utilizzare gli elementi risultanti dalle COI, non ha applicato del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, a norma del quale, in particolare, la domanda di protezione dev’essere esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate in ordine alla situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente.

3.8. Il tribunale, pertanto, se avesse correttamente applicato i criteri di legge, avrebbe concluso per la sussistenza del rischio individuale, in capo al richiedente, di incorrere in una persecuzione da parte di agenti non statuali o, in mancanza, del rischio di subire in patria la tortura o altra forma di trattamento inumano o degradante.

4.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione della Convenzione di Ginevra del 28/7/1951, ratificata con la L. n. 722 del 1954, della direttiva 2004/83/CE, attuata con il D.Lgs. n. 251 del 2007 ed, in particolare, degli artt. 2, 7, 8 e 14 citato decreto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, il quale presuppone una persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale od opinione politica, ritenendone l’insussistenza nel caso di specie.

4.2. Così giudicando, tuttavia, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha considerato che, in realtà, ai fini della protezione internazionale, i motivi di persecuzione possano essere anche di natura privata, per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, come la famiglia, così come i responsabili della persecuzione possono essere anche soggetti non statuali qualora lo Stato non voglia o non possa impedirne il compimento.

4.3. Il tribunale, pertanto, aveva l’obbligo ufficioso di verificare, innanzitutto, l’esistenza di leggi che vietano le faide familiari ed, in secondo luogo, se tali atti siano consapevolmente tollerati dalle autorità poichè l’esistenza di leggi che vietano le faide non implica di per sè che gli individui siano adeguatamente protetti, accertando, infine, nell’ambito del suo dovere di cooperazione istruttoria, se vi fosse la volontà e l’effettiva capacità delle forza di polizia, dei tribunali e delle altre autorità statali di individuare, perseguire e punire i responsabili delle faide.

6.1. Il primo ed il secondo motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati.

6.2. In tema di protezione internazionale, infatti, l’accertamento del giudice del merito deve avere preliminarmente ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

In materia di protezione internazionale, in effetti, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, ed, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora lo stesso, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 (Cass. n. 8367 del 2020, in motiv.; Cass. n. 15794 del 2019; conf., Cass. n. 19197 del 2015).

La valutazione in merito all’attendibilità o meno delle dichiarazioni rese dal richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (Cass. n. 27503 del 2018) che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

6.3. Nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che i plurimi e gravi elementi di vaghezza, di incertezza e di incoerenza che il racconto del ricorrente presentava, non consentivano di attribuire carattere di plausibilità alle vicende narrate dal richiedente. Ora, a fronte di tale apprezzamento del quale il decreto impugnato indica compiutamente tutte le ragioni (v., p. 6 – 10) – il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, nell’accertamento circa l’attendibilità della sua narrazione, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, ancorchè oggetto di discussione processuale tra le parti, nè, infine, la loro decisività ai fini di una diversa pronuncia a lui favorevole, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione, in sede di legittimità, del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, in effetti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione.

6.4. Peraltro, com’è noto, l’inattendibilità del racconto del richiedente, così come (oramai incontestabilmente) accertata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass. n. 15794 del 2019).

6.5. Nel caso di specie, del resto, il tribunale ha ritenuto che i fatti narrati dal richiedente non fossero rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, in mancanza tanto del presupposto della persecuzione subita nel proprio Paese d’origine, quanto dei motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica che, al predetto fine, devono necessariamente essere alla base della temuta persecuzione. Si tratta, com’è evidente, di un apprezzamento fattuale, non censurato dal ricorrente, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa uno o più fatti decisivi specificamente indicati, a fronte del quale la decisione conseguentemente assunta dal giudice di merito, certamente non illogica e contraddittoria rispetto ai dati accertati, si sottrae alle censure svolte in ricorso.

6.6. Il decreto del tribunale non integra, in ogni caso, l’invocata violazione di legge.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce, infatti, il “rifugiato” come il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non possa, o a causa di tale timore, non voglia, avvalersi della protezione di tale Paese e non possa o, a causa di siffatto timore, non voglia farvi ritorno, ferme le cause di esclusione di cui all’art. 10.

Il primo elemento costitutivo della definizione di rifugiato e requisito essenziale per il riconoscimento del relativo status è costituito, quindi, dal fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (Cass. n. 14157 del 2016; Cass. n. 18353 del 2006).

Il secondo elemento fattuale necessario per il riconoscimento dello status di rifugiato è, invece, la persecuzione, in relazione alla quale rilevano gli atti od i motivi di persecuzione.

Gli atti di persecuzione, a norma del D.Lgs. n. 251 cit., art. 7, devono alternativamente: a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell’art. 15, paragrafo 2, della CEDU; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lett. a).

Essi possono, tra l’altro, assumere la forma di: – atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; – azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; – rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; – azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10, comma 2; – atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

I motivi di persecuzione sono indicati nel D.Lgs. n. 251 cit., art. 8, che li definisce in relazione a: a) “razza”: riferita, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico; b) “religione”, che include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonchè le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte; c) “nazionalità”, che non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato; d) “particolare gruppo sociale”, che è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perchè vi è percepito come diverso dalla società circostante; e) “opinione politica”: si riferisce alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’art. 5 e alle loro politiche o ai loro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.

6.7. Nel caso di specie, però, nessuno di tali presupposti è stato, come detto, accertato, in fatto, dal tribunale la cui pronuncia, pertanto, si sottrae alle censure svolte sul punto dal ricorrente. Le liti tra privati, come quella dedotta dal richiedente, riconducibile alla “diversità religiosa di due famiglie”, non possono essere, in effetti, addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007. Come questa Corte ha già chiarito, si tratta, invero, di “vicende private”, estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma solo con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (Cass. n. 9043 del 2019).

6.8. Nè rileva, a fronte dei fatti allegati dal richiedente così come incontestatamente esposti nel decreto impugnato, il dedotto inadempimento da parte del giudice di merito al dovere di cooperazione istruttoria se non altro perchè il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e cioè di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente, essendo evidente che il giudice, mentre è tenuto a verificare anche d’ufficio se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, non può, per il resto, essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente medesimo, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal comma 5 del D.Lgs. n. 251 del 2007, già citato art. 3 (Cass. n. 29358 del 2018, in motiv.) che, però, nella specie, ha avuto, come detto, esito negativo.

7.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 26 lett. g) e art. 14 e la motivazione apparente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha respinto la domanda di protezione sussidiaria proposta dal richiedente.

7.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, il tribunale ha erroneamente escluso che nel Paese d’origine del richiedente vi fosse una situazione di instabilità tale da comportare una minaccia grave alla vita o alla persona dello stesso.

7.3. Il tribunale, innanzitutto, non ha specificato quale sia stata la fonte di informazione che ha utilizzato, con la conseguente violazione del principio del contraddittorio, non essendo possibile il controllo sulla sua attendibilità, nè ha esaminato le fonti prodotte dal ricorrente.

7.4. Il tribunale, inoltre, avrebbe dovuto svolgere, anche in via ufficiosa, tutti gli accertamenti finalizzati ad acclarare l’effettiva condizione del Paese d’origine del richiedente aggiornate non al novembre del 2017 ma al luglio del 2019. La città di provenienza del richiedente, e cioè (OMISSIS), si trova, infatti, sullo storico confine tra la regione anglofona e quella francofona nel quale, come emerge dalla una COI prodotta in giudizio, è esploso nel gennaio del 2017 un sanguinoso conflitto. Dopo la stesura della COI (novembre 2017), del resto, si sono verificati fatti gravissimi dei quali il tribunale ha omesso l’esame nonostante abbiano carattere decisivo e siano stati dal ricorrente sottoposti alla sua valutazione, e cioè la ripresa degli attacchi terroristici di (OMISSIS) contro la popolazione civile e gli arresti di massa arbitrariamente compiuti dalla polizia.

7.5. Il tribunale, in definitiva, ha concluso il ricorrente, ha omesso di esaminare in concreto la situazione oggettiva presente nel Paese e nella regione di provenienza del richiedente nonchè la sua situazione personale e la capacità delle autorità statuali di fronteggiare la violenza diffusa, individuale e collettiva, presente nel Paese.

8.1. Il motivo è infondato.

8.2. Il tribunale, invero, ha escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria quale misura applicabile al cittadino straniero che non possegga i requisiti per ottenere lo status di rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi per ritenere che, se ritornasse nel paese d’origine, correrebbe il rischio effettivo di subire un grave danno e che non può o non vuole, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di tale Paese.

8.3. Il tribunale, in particolare, ha ritenuto di non poter ravvisare, in fatto, una situazione concretamente riconducibile alla previsione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sul rilievo che, in Camerun – come emerge dalla relazione in data 16/12/2017 della Commissione nazionale per il diritto di asilo unità COI, costituita presso il Ministero dell’interno (v. il decreto impugnato, p. 12, n. 2) – non sussiste, pur a fronte di fenomeni di insurrezione da parte del gruppo jihadista (OMISSIS) e delle proteste della minoranza anglofona, alcun conflitto armato interno o internazionale.

8.4. Ritiene, al riguardo, la Corte che, a fronte di tale accertamento in fatto, che ha riguardato tanto le violenze perpetrate da (OMISSIS), quanto le manifestazioni di proteste operate dalla minoranza anglofona, non censurato dal ricorrente per omesso esame di uno o più fatti decisivi specificamente dedotti, la decisione assunta dal giudice di merito si sottrae alle censure svolte in ricorso.

In effetti, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h) e, in termini identici, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

Il D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di “c)… minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Nel caso di specie, come visto, non è risultato, in punto di fatto, che il ricorrente, in caso di rientro in patria, possa ricevere una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in ragione della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Ed è, invece, noto, che, in materia di riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, per cui il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. n. 9090 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018).

8.5. Del tutto infondata è, infine, la censura concernente la mancata indicazione, nel decreto impugnato, della fonte di informazione utilizzata dal tribunale ed, in ogni caso, la sua risalenza nel tempo.

Intanto, come detto, il decreto indica espressamente la fonte di informazione utilizzata, e cioè la relazione in data 16/12/2017 della Commissione nazionale per il diritto di asilo – unità COI, costituita presso il Ministero dell’interno (v. il decreto impugnato, p. 12, nt. 2), riproducendone il contenuto (v. il decreto, p. 11 e 12).

Questa Corte, inoltre, ha affermato, con le ordinanze n. 13449 del 2019, n. 13450 del 2019, n. 13451 del 2019 e n. 13452 del 2019, il principio per cui il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione.

Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti in concreto utilizzate dal giudice di merito ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione.

Per il resto, non può che ribadirsi il principio per cui, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, e il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei soli limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 30105 del 2018).

In effetti, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria che in tema di protezione internazionale grava sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere, rimasto inadempiuto nel caso di specie, di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019).

L’istante, invero, si è limitato a riprodurre, in ricorso (p. 3334), il contenuto di una fonte di informazione che, però, riporta fatti (e cioè gli attentati di (OMISSIS) e le proteste della minoranza anglofona) già esaminati dal tribunale dei quali, pertanto, ha finito per richiedere, senza la specifica deduzione di fatti decisivi non esaminati, una inammissibile rivalutazione, tanto più a fronte della dichiarata risalenza delle relative emergenze agli anni 2016 e 2017.

9.1. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, la motivazione apparente e l’omesso esame di fatti decisivi nonchè la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7,14,16 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dell’art. 10 Cost., l’omesso esame circa un fatto decisivo, la mancanza o l’apparenza della motivazione e la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,132 e 156, comma 2, c.p.c. e art. 111 Cost., comma 6, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha respinto la domanda di protezione umanitaria proposta dal richiedente.

9.2. Così facendo, infatti, ha osservato il ricorrente, il tribunale, senza adempiere il suo dovere di cooperazione istruttoria, ha omesso di valutare le condizioni che possono esporre il ricorrente ad una situazione critica nel suo Paese d’origine, esaminando, in particolare, le sue condizioni di vulnerabilità personale con riguardo alle condizioni di salute, all’età, alle condizioni personali e familiari e ad al suo inserimento sociale.

9.3. Il tribunale, al contrario, si è limitato ad un confronto tra la possibilità per il ricorrente di trovare lavoro in Camerun e quella di mantenere quello attuale, dovendo, piuttosto, verificare la condizione attuale del Paese d’origine e la situazione che il richiedente ha raggiunto in Italia, dove ha conseguito il diploma superiore e la patente, ha trovato un’occupazione che perdura ancora oggi, padroneggia la lingua italiana, è ben inserito nel territorio di residenza, ed è in procinto di iscriversi all’Università, ed, all’esito, stabilire se, alla luce delle informazioni utilizzate per esaminare la domanda di protezione sussidiaria, il rientro possa determinare la compromissione dei diritti umani adeguatamente riconosciuti e goduti in Italia.

10.1. Il motivo è infondato.

10.2. La protezione umanitaria, in effetti, è una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017).

I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. 113 del 2018, erano accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

10.3. Nel caso di specie, il tribunale ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta dal ricorrente rilevando, in sostanza, che il richiedente, in considerazione della sua età maggiore e del livello di istruzione conseguito, della mancanza di patologie e dei legami familiari conservati nel suo Paese d’origine, non presenta una situazione di vulnerabilità personale che possa giustificare la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto che, in quanto tale, può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata.

Nel caso di specie, però, ciò non è accaduto: il ricorrente, infatti, a fronte dell’apprezzamento svolto dal giudice di merito in ordine alla sua integrazione socio-lavorativa, non ha specificamente indicato, pur avendone l’onere (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, pur se dedotti in giudizio, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito nè, infine, la loro decisività ai fini di una diversa e a lui favorevole pronuncia.

10.4. Nè, infine, rileva il dedotto svolgimento di un’attività lavorativa. Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (applicabile ratione temporis: cfr. Cass. SU n. 29459 del 2019), al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018).

Tale comparazione presuppone, pertanto, un livello d’integrazione sociale nel Paese di accoglienza che, a sua volta, come ritenuto dal tribunale, non può derivare dal solo svolgimento in quest’ultimo di un’attività lavorativa, cessata peraltro nel maggio del 2019, in difetto di qualsiasi altro elemento di valutazione, che il ricorrente non dimostra di aver specificamente dedotto, essendosi limitato ad una generica mozione protettiva (cfr. Cass. n. 8367 del 2020).

11. I motivi articolati in ricorso si rivelano, quindi, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

12. Nulla per le spese di lite, in difetto di una effettiva attività difensiva da parte del ministero resistente.

13. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2021

 

 

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