Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8662 del 29/03/2021

Cassazione civile sez. I, 29/03/2021, (ud. 13/07/2020, dep. 29/03/2021), n.8662

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20500/2019 proposto da:

O.S., rappresentato e difeso dagli avvocati Emilio Serena,

e Laura D’Andrea, del foro di Firenze e domiciliato in Roma, via F.

Corridoni n. 25, presso lo studio dell’avvocato Marco Ciaralli,

ovvero all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato

e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– intimato –

avverso il decreto n. 3698/2019 del Tribunale di Firenze, depositato

il 30/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/07/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– con provvedimento notificato il 25.09.2017 la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Firenze rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria e di ulteriore subordine il diritto costituzionale di asilo;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione O.S., che veniva respinta dal Tribunale di Firenze con Decreto 30 maggio 2019, n. 3698;

– la decisione evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, in quanto anche a voler ritenere credibili le dichiarazioni rese dal ricorrente, non erano tali da comprovare la sussistenza del pericolo addotto attuale e concreto, tenendo conto che in seguito alla denuncia presentata dalla madre del richiedente, in ordine all’episodio narrato (l’essere stato aggredito con il padre da persona mandata da un uomo politico del suo Paese di origine – Nigeria, Benin City sito nell’Edo State – che voleva il terreno di proprietà del genitore per la presenza di un giacimento petrolifero nel sottosuolo) le forze dell’ordine erano intervenute istituendo un team e catturando l’aggressore, l’uomo politico di nome Os.Be., nei cui confronti era stato disposto il divieto di avvicinamento nei suoi confronti, tant’è che non si era potuto appropriare del terreno in questione, che risultava ancora di proprietà della famiglia del ricorrente. Aggiungeva che la specifica situazione della regione di provenienza, alla luce delle più accreditate COI, non evidenziava l’esistenza in Nigeria, nella regione dell’Edo State, di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, sì da esporre la popolazione civile ad un grave pericolo per la vita o l’incolumità fisica per il solo fatto di soggiornarvi. Nè ricorrevano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria essendo stata valutata una situazione nell’Edo State che esclude “una condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani”, nè aveva il richiedente maturato una particolare situazione di integrazione socio – lavorativa in Italia, ostativa al suo rientro in Patria;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione – notificato in data 02.07.2019 – l’ O. affidato a tre motivi;

– il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9 e 12, oltre che del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, per avere il Tribunale tratto il giudizio di non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. In particolare, il ricorrente si duole che il verbale redatto avanti alla Commissione territoriale in data 01.06.2017, in occasione della sua audizione, non presenterebbe le caratteristiche sufficienti a garantire un completo ed esaustivo colloquio del richiedente protezione internazionale per la estrema sinteticità dei contenuti riportati. In altri termini la Commissione territoriale non avrebbe garantito un compiuto esame della sua vicenda personale; lo stesso sarebbe accaduto avanti al Tribunale, che non ha considerato che la persecuzione del ricorrente andrebbe ricompresa nel più ampio fenomeno del grande movimento di land grabbing, ossia lo spossessamento dei proprietari agricoli da parte della classe dominante, soprattutto in considerazione della ricchezza delle risolse naturali sfruttabili nei terreni in questione che si trovano nella regione di Oben.

La censura è totalmente destituita di fondamento, posto che il Tribunale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.

In particolare, ha chiarito che (Ndr: testo originale non comprensibile), in caso di rientro nel Paese di origine il richiedente non correrebbe alcun pericolo attuale e concreto alla sua incolumità, giacchè in seguito alla denuncia presentata dalla madre del ricorrente le forze dell’ordine erano intervenute istituendo un team di ricerca e cattura dell’aggressore, ossia l’uomo politico Os.Be., oltre a disporre un divieto di avvicinamento nei confronti dello stesso con riferimento al terreno di proprietà del padre del richiedente, ragione per la quale non era riuscito ad appropriarsi del fondo, che risultava ancora di proprietà della famiglia dell’ O..

Ha, inoltre, escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutandole nel merito ha in ogni caso ritenuto che le stesse esulassero dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale non essendo l’Edo State un paese interessato da un conflitto armato interno o internazionale;

– con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, per cui il giudice non avrebbe non potuto tenere conto del grave danno determinato, tra l’altro, dalla minaccia grave ed individuale alla vita e alla persona in ipotesi di rimpatrio derivante dalla violenza indiscriminata e dagli abusi di legalità esistenti in Nigeria, essendo stato escluso che il politico possa in futuro agire impunemente. Inoltre non sarebbe stata considerata la grave situazione in cui verserebbe la Libia, paese nel quale l’istante avrebbe vissuto prima di giungere in Italia.

Anche la seconda censura non può trovare ingresso.

Il Tribunale con l’impugnato decreto ha congruamente valorizzato la situazione attuale del Paese di origine che in quanto tale non osta al rientro del richiedente, in difetto della individualizzazione del rischio (v. pag. 7 del provvedimento impugnato). Il giudice di merito, infatti, ha evidenziato che il richiedente proviene da Edo State, zona pacificamente non caratterizzata da episodi di violenza generalizzata, oltre ad avere sottolineato l’intervento dello Stato proprio nella difesa dei diritti dei residenti, come esposto nel primo motivo con riferimento alla cattura dell’aggressore di cui alla vicenda narrata dal ricorrente, ossia l’uomo politico Os.Be..

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente; non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare diverse fonti di informazione, come il sito “(OMISSIS)”, dai quali emergerebbe che la Nigeria è considerato un Paese instabile.

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).

La situazione denunciata in ricorso, pur nella perturbata sua consistenza, non vale ad integrare l’indicato estremo e a censurare in modo concludente la decisione, per essere state esclusi rilievi ad evidenze di sostegno di ipotesi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721).

Quanto, infine, alla doglianza per non avere il giudice del merito considerato la Libia quale paese di provenienza, occorre osservare che il motivo contiene una serie di considerazioni teoriche sul quadro normativo di riferimento e deduce un excursus sulle fonti attestanti la situazione di diffusa violenza e violazione dei diritti umani esistente in Libia, Paese di transito del ricorrente, senza tuttavia tener conto che la questione relativa al trattamento del ricorrente nel predetto Paese risulta del tutto nuova, in quanto l’ O. non deduce di averla proposta nei due gradi del giudizio di merito.

Inoltre l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il Paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale Paese (Cass. n. 31676 del 2018).

Ora, il ricorso non chiarisce quale sia appunto la connessione esistente tra il transito e il contenuto della domanda;

con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione delle norme di diritto relative al riconoscimento della protezione umanitaria, in particolare del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, assumendo che il corretto inquadramento della situazione concreta del richiedente, quale la sua condizione di orfano, privo di mezzi di sostentamento, ed una corretta comparazione con il contesto di vita in Italia con la sua integrazione effettiva, avrebbe comunque dovuto condurre al riconoscimento della tutela umanitaria, perchè egli si ritroverebbe nel Paese di origine privo del riconoscimento di risorse economiche e del godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa.

Il motivo è generico, oltre a non confrontarsi con la ratio decidendi, e come tale inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.

A siffatto rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza, la Nigeria, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta (Ndr: testo originale non comprensibile) genericamente dedotta.

Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, di cui non asserisce alcuna circostanza, considerato che il giudice del merito ha accertato che il richiedente non ha documentato lo svolgimento di alcuna attività lavorativa.

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla per le spese, in difetto di svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero intimato nel presente giudizio di legittimità.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2021

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