Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8660 del 29/03/2021

Cassazione civile sez. II, 29/03/2021, (ud. 13/07/2020, dep. 29/03/2021), n.8660

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22900/2019 proposto da:

A.K.E., rappresentato e difeso dall’Avvocato

MARIO MARCUZ, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

BOLOGNA, VIA MARCONI 43;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 3002/2019 del TRIBUNALE di BOLOGNA depositato

il 7/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/07/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso depositato in data 22.03.2018, A.K.E., cittadino del (OMISSIS), proponeva opposizione avanti al Tribunale di Bologna avverso il provvedimento della competente Commissione Territoriale, notificatogli il 21.2.2018, di diniego della domanda di riconoscimento della protezione internazionale e negata anche la protezione umanitaria.

Il ricorrente dichiarava di essere (OMISSIS), originario di (OMISSIS), di religione cristiana ed etnia (OMISSIS); di aver lasciato il 10.11.2013 il Ghana, dove vivono ancora i genitori, due sorelle e tre fratelli, la moglie e un figlio nato l'(OMISSIS), che vive con la famiglia della moglie; di aver raggiunto l’Italia il 25.8.2015, dopo una permanenza di un anno e otto mesi in Libia; di aver studiato in Ghana per tredici anni conseguendo il diploma della (OMISSIS); di aver trovato lavoro in un negozio di telefonia dove lavorava con altri colleghi, con i quali, un giorno, dopo tre mesi in cui non ricevevano lo stipendio, si era recato a casa del datore di lavoro per minacciarlo; di essersi accorto, poco dopo, di aver dimenticato a casa di quell’uomo la sua bicicletta e di essere tornato a prenderla, ricordandogli ancora che avrebbe dovuto pagare; di aver appreso il giorno successivo che il datore di lavoro era morto e che i suoi familiari avevano denunciato lui e i suoi colleghi; di essere fuggito su consiglio della propria madre, temendo di essere arrestato dalla polizia; di aver saputo poi da suo padre che era arrivata a casa una lettera di convocazione della polizia e che i suoi colleghi erano stati arrestati, trovandosi tuttora in carcere, pur non essendo state concluse le indagini; da ciò la decisione di abbandonare il Ghana.

Con decreto n. 3002/2019, depositato i data 27.6.2019, il Tribunale di Bologna rigettava la domanda.

Avverso tale pronuncia il richiedente propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi; l’intimato Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. Onere probatorio attenuato”, poichè le circostanze da lui richiamate sulla situazione del Ghana sono acclarate e riscontrate dalla stampa e dai rapporti delle più importanti organizzazioni internazionalmente riconosciute, che tutelano i diritti umani, le quali ripetutamente denunciano la situazione di grave lesione dei diritti umani fondamentali perpetrata in danno ai carcerati dalle autorità ghanesi. Inoltre, si sottolinea che il Ghana prevede ancora la pena di morte per reati quali l’omicidio.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente censura la “Violazione art. 360 c.p.c., n. 5 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4 – Principio di verosimiglianza. Contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia”, giacchè, sia in sede di audizione personale quanto in sede di udienza dinnanzi al Tribunale, egli ha reso dettagliate informazioni in merito alla propria vicenda personale, anche e soprattutto in relazione alle motivazioni che lo hanno determinato alla fuga. Quanto al procedimento penale in Ghana, il ricorrente avrebbe fornito ogni possibile informazione a lui nota.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi sono inammissibili.

2.2. – Va, anzitutto, rilevato che se è vero che le lacune probatorie del racconto del richiedente asilo non comportano necessariamente inottemperanza al regime dell’onere della prova, potendo essere superate dalla valutazione che il giudice del merito è tenuto a compiere delle circostanze indicate del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. da a) ad e), (Cass. n. 15782 del 2014, n. 4138 del 2011), è pure vero che l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude che egli abbia l’onere e di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. n. 27503 del 2018).

Sotto altro profilo, va rilevato che il ricorrente confonde l’onere di allegazione con quello della prova, e questa Corte ha di recente ribadito (Cass. n. 3016 del 2019) che solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto l’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel suo Paese straniero di origine si registrino fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda, in altri termini, la cooperazione istruttoria si colloca non sul versante dell’allegazione, ma esclusivamente su quello della prova (Cass. n. 29605 del 2019).

Il Tribunale di Bologna ha dunque rigettato la domanda del ricorrente in quanto il medesimo non aveva compiuto un ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, avendo egli reso dichiarazioni prive di circostanze o elementi di dettaglio a contestualizzare e a dare concretezza ai fatti narrati proprio in relazione al principale evento che avrebbe determinato la sua fuga, ossia la pendenza del procedimento penale (o, meglio, delle indagini) per la morte del suo datore di lavoro, della quale lui e i suoi colleghi sarebbero stati ingiustamente accusati. Ed invero, proprio a tale ultimo riguardo, nonostante l’approfondita audizione in giudizio, il ricorrente non era stato in grado di fornire alcun elemento di dettaglio, in particolare in merito allo stato del procedimento o a specifici atti giudiziari adottati nei suoi confronti.

Nella specie, il giudizio di non credibilità è stato assunto dal Tribunale in base alla rilevata inverosimiglianza del racconto. Va, quindi, rilevato che la valutazione di non credibilità del racconto costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, ed insindacabile in sede di legittimità, e che la valutazione di credibilità soggettiva costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento: le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, quando, come nella specie, siano assunte alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018), salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 871 del 2017).

Se il vizio motivazionale non è più predicabile, in esito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (erroneamente scelto come paradigma dei due motivi di censura), che limita il controllo sulla motivazione al minimo costituzionale (qui pienamente rispettato), va rilevato che il “serio indizio” della fondatezza del timore di subire persecuzioni o danno grave in caso di rientro in Patria, posto dall’invocato del D.Lgs. n. 251, art. 5, comma 4, presuppone che persecuzioni o minacce siano già accertate come subite dal richiedente, e tale dato non ricorre nella specie.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione art. 360 c.p.c., n. 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Permesso di soggiorno per motivi umanitari”, poichè, nella fattispecie, sussisterebbe la vulnerabilità del ricorrente, oggetto di pesanti minacce alla propria incolumità da parte di uno Stato che nega i diritti fondamentali dei detenuti e costretto ad abbandonare il proprio paese in condizioni di povertà, effettuando un viaggio estremamente pericoloso con concreto rischio della propria vita. Quanto all’integrazione del ricorrente, il medesimo dimostra una volontà di integrarsi nel tessuto sociale italiano anche economicamente, venendo assunto con contratto a tempo indeterminato con il conseguimento di un reddito dignitoso.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.1. – In ordine alta verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha violato il suddetto principio nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (non applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

4.2. – Quanto infine al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

A tal riguardo il motivo appare inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

5. – Il ricorso è dunque inammissibile. Nulla per le spese nei riguardi del Ministero dell’Interno, che non si è difeso. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2021

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