Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8658 del 29/03/2021
Cassazione civile sez. II, 29/03/2021, (ud. 13/07/2020, dep. 29/03/2021), n.8658
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23936/2019 proposto da:
E.F., rappresentato e difeso dall’Avvocato CLAUDIA PEZZONI
ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in PARMA, P.le
J.F. RAVENET 1;
– ricorrente –
contro
MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,
rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello
Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è
domiciliato;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 3122/2019 del TRIBUNALE di BOLOGNA depositato
il 4/07/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
13/07/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
Fatto
FATTI DI CAUSA
E.F., originario di (OMISSIS), nella parte meridionale della Nigeria, proponeva ricorso avanti al Tribunale di Bologna avverso il provvedimento della competente Commissione Territoriale di diniego della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, chiedendo il riconoscimento della protezione sussidiaria o, in subordine, il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
In particolare, il ricorrente (di religione cristiana e di etnia (OMISSIS)) forniva un assai analitico racconto, che si sintetizza, dichiarando di avere frequentato la scuola per 12 anni, di avere i genitori e due sorelle a (OMISSIS), con i quali ha ancora contatti, e di avere lavorato come fashon designer. Esponeva, quindi, di avere lasciato il proprio paese di origine il (OMISSIS), per la situazione economica ivi esistente e per le insistenze che le persone giovani, come egli stesso, subivano da parte di diverse sette al fine di costringerli ad entrare a farvi parte e per le aggressioni e le minacce di cui erano vittime in caso di loro rifiuto. Il ricorrente narrava altresì di avere ricevuto personalmente pressioni e minacce di morte da parte di esponenti della setta (OMISSIS), e di non essersi rivolto alla Polizia in quanto molti suoi appartenenti erano anche membri di tale setta; e di avere seguito il consiglio della madre di non fare ingresso in tale setta dal momento che, precedentemente, nel (OMISSIS), il fratello vi aveva fatto parte e poi era morto. Sempre su consiglio materno, dunque, il ricorrente si era determinato ad abbandonare il paese di origine, pagando il viaggio ad un trfficante grazie ai propri risparmi. Il richiedente esprimeva altresì il timore, in caso di rientro nel paese di origine, di essere perseguitato e di subire pressioni dai membri della setta.
Con Decreto n. 3122/2019 depositato il 4/07/2019, il Tribunale rigettava il ricorso.
Avverso tale decreto il richiedente propone ricorso per cassazione sulla base di sette motivi; resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione del provvedimento di diniego”, in quanto le dichiarazioni rese dal ricorrente appaiono più che circostanziate e prive di qualsivoglia contraddittorietà.
1.1. – Il motivo è inammissibile.
1.2. – Anche ad ipotizzare che il ricorrente abbia inteso fare riferimento alla lesione del superato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va posto in rilievo che questa Corte (Cass. sez. un. 8053 del 2014) ha affermato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle pronunce impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 4.07.2019) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).
Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è specifica adeguata indicazione.
Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014; ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).
1.3. – A ciò va aggiunto (in termini generali) che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevitabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze non riferibili al provvedimento impugnato, e quindi non chiaramente individuabili (Cass. n. 11603 del 2018). Le proposte censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).
2. – Il ricorrente censura, con il secondo motivo, la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c. comma 1, lett. a)”; con il terzo la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9 e 14 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), b) e c), commi 4 e 5 e art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c. 1 comma lett. a)”; con il quarto la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, comma 1, lett. e) e f), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 lett. a)”; con il quinto motivo (ripetendo l’intestazione del terzo) la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9 e 14 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a), b) e c), commi 4 e 5 e art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c. 1 comma lett. a)”; con il sesto motivo, la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in tema di regime probatorio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, lett. a)”; infine, con il settimo motivo, il ricorente deduce la “violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 33 della Convenzione di Ginevra 1951 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, lett. a)”.
2.1. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e della formulazione, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.
2.2. – Anch’essi sono inammissibili.
2.3. – In primo luogo, va rilevato come il ricorrente, nel formulare i singoli motivi, abbia fatto costantemente esplicito e voluto richiamo ad un mezzo di impugnazione inesistente (art. 360 c.p.c., comma 1, lett. a), in riferimento al quale ha motivato le varie ipotesi di censurata violazione e falsa applicazione di norme di diritto, le quali sono ascrivibili al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2.4. – Orbene, anche ammettendo che tale confusione non costituisca ex se ragione di inammissibilità dei motivi, giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).
Va dunque ribadito (in termini generali) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.
Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).
2.5. – Le censure si risolvono, dunque, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dal giudice di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata (anche qualora come nella specie tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, esclusivamente nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5); quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).
Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).
3. – Il ricorso è inammissibile. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2021