Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8641 del 07/05/2020

Cassazione civile sez. II, 07/05/2020, (ud. 19/11/2019, dep. 07/05/2020), n.8641

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3989-2016 proposto da:

M.U., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PACUVIO,

34, presso lo studio dell’avvocato CHIARA ROMANELLI, che lo

rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., M.R., MA.GI.,

MA.GA., M.A., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA MICHELE MERCATI 42, presso lo studio dell’avvocato CARLO ALFREDO

ROTILI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE

PARRAVICINI giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2946/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 07/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/11/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Sentito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore

Generale, Dott. MISTRI CORRADO, che ha concluso per

l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del primo, del

terzo e del quinto motivo, e per il rigetto del secondo e del quarto

motivo di ricorso;

Udito l’avvocato Chiara Romanelli per il ricorrente e l’avvocato

Michele Parravicini per i controricorrenti.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. M.U. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Como i germani Gi., Ga., A., R. e G. affinchè, previa dichiarazione di apertura della successione del padre m.g., deceduto il (OMISSIS), fosse accertato che l’atto concluso dal de cuius con il figlio R. in data 31/5/2001 aveva natura di negotium mixtum cum donatione, accertandosi quindi l’avvenuta lesione della propria quota di legittima, con la riduzione degli atti lesivi ed il conseguente scioglimento della comunione ereditaria.

Con separato atto di citazione M.R. aveva evocato l’attore dinanzi allo stesso Tribunale affinchè fosse condannato al rilascio dei beni siti in (OMISSIS), in quanto occupati sine titulo.

Riuniti i giudizi, si costituivano i convenuti A., Ga. e G. che chiedevano in via riconvenzionale la condanna di U. al rilascio dei beni loro spettanti del pari illegittimamente occupati dall’attore.

All’esito di una complessa attività istruttoria, il Tribunale con la sentenza n. 588 del 17/4/2013 rigettava la domanda di riduzione dell’attore e condannava quest’ultimo al rilascio dei beni in favore dei convenuti, ed alla condanna al risarcimento del danno da occupazione illegittima, secondo le somme riportate in dispositivo.

Il Tribunale dopo avere accertato che M.U. era stato beneficiato, unitamente alla moglie, della donazione di un appartamento e di un box, ancorchè all’apparenza oggetto di una compravendita con il de cuius, preso atto della varie donazioni effettuate in vita dal de cuius, anche in maniera simulata, nei confronti degli altri figli, individuato il valore della massa sulla quale calcolare la quota di legittima spettante all’attore, pari ad 1/6 dei due terzi, rilevava che il valore delle donazioni ricevute in vita era superiore all’importo della quota di riserva, il che imponeva il rigetto della sua domanda.

L’attore aveva però indebitamente occupato alcuni dei beni che il testatore aveva attribuito agli altri figli, senza che tale occupazione potesse essere giustificata dall’avvenuta proposizione della domanda di riduzione, i cui effetti si producono solo in caso di effettivo accoglimento della domanda da parte del giudice adito, sicchè M.U. doveva essere condannato al rilascio dei beni occupati in favore degli effettivi proprietari, nonchè al risarcimento del danno da illegittima occupazione.

Avverso tale sentenza ha proposto appello M.U., cui hanno resistito gli appellati.

La Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 2946 del 7 luglio 2015 ha rigettato l’appello quanto al mancato accoglimento dell’azione di riduzione, riformando la decisione di prime cure solo in relazione all’ammontare delle somme dovute a titolo di risarcimento del danno da illegittima occupazione.

2. Avverso tale sentenza M.U. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui resistono con controricorso gli intimati.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 537,554,555,556,1100 e 1101 c.c. e dell’art. 115 c.p.c.

Si contesta il rigetto della domanda di riduzione, assumendosi che non sarebbe stato adeguatamente valutato che in realtà l’abitazione ed il garage erano stati acquistati dal ricorrente a seguito di un contratto di compravendita concluso con il de cuius, essendo quindi priva di fondamento l’affermazione secondo cui si tratterebbe di una donazione. Nell’atto di vendita risulta anche la quietanza del venditore in merito al pagamento del prezzo non potendosi quindi trascurare ai fini della decisione tali emergenze documentali.

Ancora si evidenzia che l’acquisto è stato effettuato dal ricorrente in pari quota con il coniuge F.R.A., ma i giudici di merito hanno considerato come donazione l’intera proprietà del bene, trascurando che una quota era in realtà di proprietà della moglie.

Il motivo è infondato.

I giudici di merito, ai fini della verifica della denunziata lesione di legittima, hanno doverosamente provveduto alle operazioni di riunione fittizia, onde stabilire quale fosse il relictum al netto dei debiti, cui andava cumulato il donatum al fine di individuare l’esatto ammontare della quota di riserva.

Inoltre, in applicazione della previsione di cui all’art. 564 c.c., comma 2, hanno reputato necessario imputare alla quota dell’attore le donazioni eventualmente ricevute in vita dal de cuius, onde verificare se, all’esito di tale operazione, residuasse effettivamente una lesione della quota di riserva. I giudici di merito, senza essere sottoposti ai limiti della prova della simulazione per le parti del contratto di cui all’art. 1417 c.c., atteso l’avvenuto esercizio dell’azione di riduzione, per la quale la prova della simulazione può avvenire anche mezzo presunzioni o prova testimoniale, con accertamento in fatto hanno ritenuto che fosse stata offerta la prova della natura oggettivamente simulata della vendita degli immobili in favore del ricorrente, pervenendo alla conclusione che in realtà alcun prezzo era stato corrisposto e che si trattava di una donazione, atteso il mancato pagamento del prezzo da parte degli acquirenti.

Ancorchè alle dichiarazioni contenute in un testamento non possa attribuirsi valenza confessoria nei confronti anche del legittimario che agisca in riduzione (cfr. Cass. n. 11737/2013), atteso che questi riveste la qualità di terzo rispetto al de cuius, allorquando esercita l’azione di riduzione, la sentenza di appello, senza però assegnare portata risolutiva alla dichiarazione testamentaria del de cuius di avere alienato due unità immobiliari ai figli U. e R. senza ricevere alcun corrispettivo, ha però evidenziato come in realtà il ricorrente non avesse fornito alcuna prova di avere effettivamente provveduto al pagamento del corrispettivo.

Nè a tal fine può darsi rilievo, come invece sostiene parte ricorrente, alla presenza nell’atto della dichiarazione di quietanza del venditore, atteso che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 5326/2017) qualora l’azione di simulazione si fondi su elementi presuntivi che, in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 2697 c.c., indichino il carattere fittizio dell’alienazione, l’acquirente ha l’onere di provare l’effettivo pagamento del prezzo, potendosi, in mancanza, trarre elementi di valutazione circa il carattere apparente del contratto.

Nè tale onere probatorio può, tuttavia, ritenersi soddisfatto dalla dichiarazione relativa al versamento del prezzo contenuta nel rogito notarile, in quanto il creditore, ovvero nel caso di specie gli altri legittimari interessati a vedere accertata la donazione di cui si assume l’onere di imputazione, che agisce per far valere la simulazione è terzo rispetto ai soggetti contraenti (conf. Cass. n. 1413/2006, nonchè quanto alla irrilevanza della dichiarazione di versamento del prezzo contenuta nell’atto impugnato, Cass. n. 22454/2014; Cass. n. 12955/2014).

Infine, si è assegnata portata assolutamente risolutiva alla dichiarazione confessoria resa dallo stesso ricorrente in un diverso giudizio, con la quale si riconosceva che l’abitazione ed il garage erano stati acquistati tramite una vendita simulata.

Alla luce di tale ampia ed argomentata motivazione, si appalesa evidente come sia del tutto priva di fondamento la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., e che, quanto alla prova della natura simulata della vendita de qua, il motivo si risolva in una non consentita aspirazione ad una diversa ricostruzione dei fatti di causa, in violazione del principio secondo cui tale accertamento compete in via esclusiva al giudice di merito.

Ma del pari privo di fondamento risulta il motivo nella parte in cui assume che erroneamente i giudici di appello non avrebbero tenuto conto del fatto che, anche a voler ritenere intervenuta una donazione, beneficiaria della stessa sarebbe stata per la quota del 50% la moglie del ricorrente.

L’affermazione però non si confronta con l’effettivo tenore della sentenza gravata e con le stesse regole che la legge impone per il calcolo della quota di riserva.

Ed, infatti, ai fini della riunione fittizia, a differenza di quanto invece previsto per la collazione, nel donatum che deve essere cumulato al relictum, vanno considerate tutte le donazioni effettuate in vita dal de cuius, anche quindi a soggetti che non rivestano la qualità di coeredi ovvero di soggetti tenuti alla collazione ex art. 737 c.c.

Una volta quindi accertato che l’atto di vendita dell’appartamento e del garage in favore dei coniugi M. – F. era simulato, e che lo stesso in realtà mascherava una donazione, correttamente ai fini della riunione fittizia andava considerato l’intero valore dei beni donati, anche per la parte pervenuta quindi alla moglie del ricorrente.

Tuttavia, ai fini dell’imputazione e quindi della verifica se fosse stata comunque lesa la quota di riserva, la sentenza ha compiuto tale verifica non già sull’intero valore dei beni interessati dalla donazione, ma solo sulla quota del 50%, come reiteratamente affermato in sentenza.

Alla stessa pag. 15 (che a detta del ricorrente conterrebbe l’errore denunciato), la Corte distrettuale ricorda che sfuggiva all’appellante che sin dal 5 supplemento di CTU la valutazione del donatum in favore di U. era stata corretta, tenuto conto che la quota del 50% del bene alienato era di proprietà della moglie.

Tale considerazione viene poi riproposta a pag. 24, dove si rammenta che nella valutazione delle donazioni fatte a R. ed U. si era tenuto conto di quanto donato ai rispettivi coniugi.

Il motivo deve quindi essere rigettato.

4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 537 c.c., dell’art. 230 bis c.c. e della L. n. 203 del 1982, art. 17.

Si contesta quanto sostenuto a pagg. 16 e 17 dai giudici di appello circa il fatto che il compendio immobiliare nel quale si svolgeva l’attività dell’azienda agricola inizialmente intrapresa dal de cuius, e poi proseguita con la partecipazione dei figli R. ed U., fosse rimasto di proprietà esclusiva dello stesso de cuius.

Si assume che tale conclusione contrasta con i dati fattuali emergenti dagli atti di causa.

Si ricava, infatti, che all’azienda agricola esercitata in origine solo dal padre, aveva iniziato a collaborare sin dal 1963 anche il ricorrente, e che nel 1976 venne aperta la posizione IVA dell’azienda sotto forma di ditta individuale in comunione tacita familiare, salvo poi essere trasformata nel 1986 in società semplice con i soci g., U. e R..

Si deduce quindi che già a far data dal 1976 U. e R. facevano parte della società, così che poichè le strutture aziendali di carattere immobiliare erano state costruite un anno prima del 1986, tali immobili erano parte integrante dell’azienda.

Si aggiunge che in ogni caso al ricorrente, in quanto impegnato nell’attività dell’impresa familiare, spetterebbe un’indennità ai sensi della L. n. 203 del 1982.

Anche tale motivo è evidentemente destituito di fondamento.

I giudici di appello, nel rispondere ad analoghe critiche mosse alla sentenza di primo grado hanno ritenuto che la liberalità effettuata in favore dei figli U. e R., mediante il conferimento a titolo gratuito nella società semplice, della quale erano inizialmente soci il padre ed i due figli, riguardasse la sola parte mobiliare della preesistente comunione tacita familiare (e cioè bestiame, fieno, macchinari ed attrezzature agricole).

Tale conclusione trovava conferma anche nel successivo atto del 7 maggio 1997 con il quale il ricorrente cedeva al fratello (essendo già qualche anno prima uscito il padre dalla società semplice) la propria quota societaria, laddove, alla luce della stima effettuata da agronomo appositamente nominato dai due fratelli, Dott.ssa P.D., risultava che l’azienda aveva ad oggetto il solo compendio mobiliare, atteso gli immobili erano di proprietà del padre g. che non li aveva mai conferiti nel patrimonio della società (salvo poi trasferirli in parte al figlio R. ed in parte alle figlie, con successivo atto del 31 maggio 2001).

Al fine poi di giustificare l’esclusione dall’impresa familiare delle componenti immobiliari, la sentenza gravata ha evidenziato che (circostanza sulla quale concorda lo stesso ricorrente) tutte le attività edilizie sono anteriori alla costituzione della società semplice avvenuta nel 1986, senza che possa spiegare alcun rilievo il fatto che già a far data dal 1976 R. ed U. fossero stati associati dal genitore nell’attività agricola, atteso che quella familiare costituisce pur sempre un’impresa individuale che appartiene solo al titolare, vantando gli associati solo il diritto ad una quota di utili, e mancando in ogni caso la prova che i beni immobili in questione siano stati edificati attingendo dalla liquidità aziendale.

A fronte di tale motivazione, e sostanzialmente incontestata la ricostruzione delle vicende storiche compiuta dal giudice di appello, la critica del ricorrente risulta evidentemente inidonea a contrastare la correttezza della soluzione in diritto raggiunta dalla Corte distrettuale.

L’argomento speso dall’appellante, secondo cui, vi sarebbe sostanziale continuità tra la comunione tacita familiare (cui risulta assimilabile per espressa scelta del legislatore l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.) in essere a far data dal 1976, ed alla quale avrebbero preso parte il padre ed i due figli U. e R., e la successiva società semplice, nata nel 1986, della quale erano sempre loro tre inizialmente soci, per far discendere da tale continuità che anche gli immobili realizzati prima del 1986 farebbero parte del patrimonio della società, si scontra con la pacifica giurisprudenza di legittimità a mente della quale (cfr. Cass. n. 24560/2015) l’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall’impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile (cfr. Cass. S.U. n. 23676/2014 circa la non compatibilità tra l’istituto in esame e quello societario, stante la specifica regolamentazione, patrimoniale, ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonchè agli incrementi dell’azienda, che sono determinati in proporzione alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione; sempre per la natura individuale dell’impresa familiare si veda anche Cass. n. 7223/2004).

Coerentemente è stato quindi affermato che (Cass. n. 4190/2001) ove i partecipanti ad un’impresa familiare diano vita ad una società, tale trasformazione non libera il familiare imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, dalla responsabilità illimitata per le obbligazioni sorte nel periodo anteriore alla costituzione del soggetto collettivo, così come (Cass. n. 26274/2018) in relazione ad un’azienda compresa in un asse ereditario e gestita dal “de cuius” in forma di impresa familiare, ove un coerede agisca nei confronti degli altri per ottenere una quota di tale azienda, nonchè la conseguente ripartizione degli utili, dà luogo a “mutatio libelli”, vertendosi in tema di diritti eterodeterminati e, dunque, avendo riguardo sia al fatto costitutivo allegato dalla parte che al bene giuridico preteso, la successiva richiesta (formulata, come nella specie, in grado di appello) volta a conseguire, in rapporto alla quantità e qualità del lavoro prestato, gli utili ancora dovuti al momento della cessazione del rapporto di collaborazione, segnata dalla morte del titolare dell’impresa, attese le chiare differenze che il legislatore pone tra le regole dettate per l’impresa di cui all’art. 230 bis c.c. e quelle invece in tema di società.

Inoltre si è affermato che (Cass. n 32698/2018) in tema di impresa familiare, non è configurabile alcuna presunzione che l’immobile acquistato da parte di un familiare partecipante, in nome proprio, durante il periodo di esistenza dell’impresa, configuri bene acquistato con gli utili dell’attività familiare, con la conseguenza che, in applicazione dei principi generali sull’onere probatorio, colui che affermi che detto acquisto sia stato effettuato con gli utili aziendali è tenuto a fornire la prova del proprio assunto (conf. Cass. n. 25158/2010).

Tale carenza di prova è stata già evidenziata dal tribunale e confermata dal giudice di appello, senza che a tale affermazione il ricorrente abbia contrapposto validi elementi di segno contrario, limitandosi a fondare la propria tesi difensiva sulla (inconfigurabile) continuità tra la preesistente impresa familiare e la successiva società.

La pacifica collocazione cronologica dell’attività edilizia legittima quindi la correttezza della conclusione secondo cui gli immobili realizzati prima della creazione della società appartenessero in esclusiva al de cuius, essendo altrettanto incensurabile, alla luce degli accertamenti in fatto compiuti, che tali immobili non fossero stati inclusi tra i beni conferiti (a titolo gratuito in favore degli atri soci) nella neonata società, ben potendone il de cuius quindi disporre successivamente in occasione dell’atto del 2011.

Inoltre, la specifica riconduzione del rapporto di collaborazione prestato dal ricorrente prima del 1986 alla fattispecie di cui all’art. 230 bis c.c. rende evidente l’inconferenza del richiamo alla previsione di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 17 dettata in tema di rapporto di affitto agrario.

5. Il terzo motivo denuncia l’omesso esame ed omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, in merito ai valori attribuiti ai beni dall’Agenzia del Territorio.

La sentenza impugnata avrebbe fatto propri i valori dei beni immobili quali indicati dall’ausiliario di ufficio che però si discostano ed in maniera significativa da quelli indicati dall’Agenzia del territorio.

La sentenza impugnata in relazione all’analoga contestazione mossa in sede di appello aveva risposto che la valutazione del CTU appariva ricollegata alla diversa ubicazione dei terreni ed alle loro condizioni effettive, e che la diversità di valore tra le due stime era da ricondurre anche alle condizioni di vetustà e di mediocre manutenzione della stalla, attesa anche la necessità di dover procedere ad una bonifica della copertura, in quanto realizzata in origine in eternit.

Inoltre si è aggiunto che, anche a voler addizionare alla massa fittizia la differenza di valore invocata dal ricorrente, l’aumento della quota di riserva di spettanza di U. sarebbe di entità tale da escludere in ogni caso, tenuto conto di quanto ricevuto in vita dal de cuius, l’esistenza della lesione della quota di legittima.

Poste tali premesse il motivo si palesa inammissibile per più profili.

In primo luogo tale ultima ratio decidendi, rappresentativa dell’inidoneità della censura mossa all’individuazione dei criteri di stima, anche ove ritenuta fondata, a sovvertire l’esito del giudizio di insussistenza della lesione della quota di legittima del ricorrente, non risulta in alcun modo contestata nel motivo in esame.

Ancora, la sentenza lungi dall’avere omesso di prendere in considerazione il dato costituito dalla diversa valutazione dell’Agenzia del Territorio, l’ha invece valutata, ritenendola irrilevante, in quanto inidonea a scalfire le conclusioni dell’ausiliario d’ufficio, il che denota come non ricorra un’ipotesi di omessa disamina, come invece denunciato dalla parte.

Infine, atteso che il giudizio di appello risulta essere stato introdotto in data successiva al 12 settembre del 2012, alla fattispecie risulta applicabile il disposto di cui all’art. 348 ter c.p.c. che all’u.c. prevede che non possa essere denunciato il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel caso in cui la sentenza d’appello abbia confermato la decisione di primo grado sulla base delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto. Nella fattispecie, deve rilevarsi che la riforma della sentenza di primo grado ha interessato solo la determinazione del risarcimento del danno dovuto dal ricorrente per l’occupazione dei beni degli altri coeredi, ma non ha invece toccato la diversa statuizione in punto di rigetto della domanda di riduzione, cui si rivolge anche il motivo in esame.

In relazione a tale domanda, deve quindi reputarsi che essendo il rigetto dell’appello fondato sulle medesime ragioni in fatto poste a sostegno della decisione di prime cure (essendosi sposate le valutazioni dell’ausiliario di ufficio), risulta inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

6. Il quarto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. quanto alla condanna del ricorrente al rimborso delle spese di lite.

Si deduce che ricorrevano tutti i presupposti per disporre la compensazione delle spese di lite, atteso che il contenzioso era complesso ed aveva richiesto ben 7 supplementi di CTU. Il motivo è inammissibile dovendosi dare continuità alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. da ultimo Cass. n. 11329/2019) in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. S.U. n. 14989/2005), e ciò anche a tacere del fatto che la sentenza gravata ha ritenuto che anche le ragioni addotte dal ricorrente (durata dell’istruttoria e litigiosità delle parti) non consentivano di derogare all’applicazione del principio di soccombenza, quanto alle spese del giudizio di primo grado.

7. Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 196 c.p.c. laddove il giudice di secondo grado non ha accolto la richiesta di rinnovazione della CTU. Il motivo che si sviluppa da pag. 29 a 38, si risolve nella riproposizione di parte delle censure già interessate in particolare dal terzo motivo di ricorso, in parte dal secondo, quanto alla mancata attribuzione al ricorrente di una quota di un terzo degli immobili nei quali si svolgeva l’attività di impresa familiare, ed anche dal primo, sostenendosi che l’evidente fondatezza di tali rilievi avrebbe imposto al giudice di disporre il rinnovo delle operazioni peritali.

La lettura delle critiche tradisce in maniera palese il reale obiettivo della parte che è quello di suggerire alla Corte di legittimità una rivalutazione dei fatti di causa, obiettivo però precluso dal codice di rito.

Inoltre deve essere ricordato che (Cass. n. 2103/2019), rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice, sicchè l’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici, essendosi anche chiarito che non è neppure necessaria un’espressa pronunzia sul punto (Cass. n. 22799/2017).

Ma anche a voler accedere all’orientamento più rigoroso (cfr. Cass. n. 5339/2015), sebbene maturato in relazione alla vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo cui il giudice, se non ha l’obbligo di motivare il diniego della richiesta di rinnovazione, che può essere anche implicito, è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicchè l’omesso espresso rigetto dell’istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (conf. Cass. n. 10849/2007), nella fattispecie si rileva che la sentenza d’appello ha fornito ampia ed esauriente risposta alle varie critiche mosse dall’appellante alla sentenza di primo grado, come si rileva dalla disamina dei precedenti motivi di ricorso, contrastando la correttezza delle affermazioni del ricorrente sia con argomenti in diritto che con valutazioni in fatto, connotate, queste ultime, da logicità e coerenza intrinseca.

Anche tale motivo deve quindi essere disatteso, dovendosi quindi pervenire al rigetto del ricorso.

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

9. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020

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