Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8638 del 07/05/2020

Cassazione civile sez. II, 07/05/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 07/05/2020), n.8638

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17977-2015 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 50,

presso lo studio dell’avvocato RITA ROSSIELLO, e rappresentato e

difeso dall’avvocato FEDERICO PARTELE giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

FE.GI., FE.ST., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato JACOPO

FILIPPO TROIANI, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato AUGUSTO DE BENI giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA n. 304,

depositata il 4/2/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/10/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Con citazione del 18 novembre 1999, F.G. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verona, Fe.St. e Gi., quali eredi di Fe.Vi., affinchè fosse accertato l’avvenuto trasferimento in suo favore della quota della piena proprietà indivisa di un mezzo dell’immobile sito in (OMISSIS), meglio descritto in citazione, per effetto della scrittura privata del febbraio 1983.

Si costituivano i convenuti che si opponevano alla domanda deducendo che in realtà era intervenuta solo la sottoscrizione di due preliminari di compravendita, i quali non consentivano di ritenere trasferita all’attore la proprietà del bene.

Con separato atto di citazione, Fe.St. e Gi. convenivano in giudizio dinanzi allo stesso Tribunale il F., per sentirlo condannare al rilascio del bene, atteso che risultava prescritto il diritto al trasferimento della proprietà, avendo quindi maturato il diritto anche al pagamento di un’indennità per l’occupazione del bene.

Riunite le due cause, il Tribunale con la sentenza n. 3634 dell’11 dicembre 2006 rigettava la domanda attorea, rilevando che la scrittura invocata dal F. era in realtà una bozza di futuro preliminare e che il successivo preliminare non era mai stato adempiuto.

Inoltre, l’attore non aveva provato di aver interrotto la prescrizione estintiva del diritto a chiedere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre.

Aggiungeva poi che secondo la prospettazione attorea, questi avrebbe acquistato da un comproprietario una porzione individuata di un immobile ancora in comunione, sicchè le domande di accertamento del trasferimento della proprietà e di pronuncia ex art. 2932 c.c. sarebbero state comunque inammissibili, posto che l’attore al più avrebbe potuto chiedere lo scioglimento della comunione. Inoltre, poichè ricorreva un’ipotesi di vendita di bene parzialmente altrui, e poichè il preliminare difettava della volontà di uno dei comproprietari, questo contratto si era formato in maniera invalida.

La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza n. 304/2015 del 4 febbraio 2015 ha rigettato l’appello principale del F. ed, accogliendo l’appello incidentale, ha condannato l’attore al pagamento della somma di Euro 39.000,00 a titolo di indennità di occupazione oltre alla somma di Euro 250,00 mensili per il protrarsi dell’occupazione successivamente alla sentenza e sino alla data di liberazione dell’immobile.

Quanto all’appello principale, rilevava che era corretta la qualificazione che il Tribunale aveva offerto della scrittura privata invocata dal F., non potendo essere considerato alla stregua di un contratto di compravendita ma di una bozza di preliminare, e ciò alla luce della condotta tenuta dai contraenti che avevano successivamente concluso ben due contratti preliminari, il che permetteva di affermare che in realtà non avevano in alcun modo inteso trasferire in quella sede il diritto di proprietà sul bene.

Quindi, dopo avere rilevato che l’appellante aveva abbandonato la domanda relativa alla natura simulata dei successivi contratti preliminari, riteneva che fosse corretto il rigetto della domanda di accertamento dell’avvenuto trasferimento della proprietà.

Quanto al secondo motivo dell’appello principale, i giudici di secondo grado osservavano che in realtà l’attore non aveva avanzato anche domanda ex art. 2932 c.c., sicchè il tema della prescrizione del relativo diritto scaturente dai preliminari era stato affrontato ai soli fini della resistenza alla domanda di rilascio formulata nel secondo giudizio dai Fe..

Anche su tale punto la sentenza di primo grado andava confermata, in quanto non era stata fornita alcuna prova circa l’avvenuta interruzione del termine di prescrizione decennale.

Infatti, non era stata prodotta la comparsa di risposta dell’attore presentata nel diverso giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Verona avente il NRG 4550/1991, il che impediva di verificare se il tenore delle sue difese implicasse anche il compimento di un atto interruttivo nei confronti delle controparti.

Quanto invece alla difesa spiegata in quella sede dall’intervenuto Fe.Vi. nella comparsa del 6 maggio 1992, secondo la sentenza di appello, non poteva evincersi nella stessa il riconoscimento da parte del Fe. di essere obbligato al trasferimento della proprietà, nè risultava che l’avv. S. avesse reso dichiarazioni circa la sussistenza di atti o fatti idonei a concretare atti interruttivi della prescrizione, che in ogni caso andrebbero provati.

Infine, la Corte distrettuale riteneva fondato l’appello incidentale, volto ad ottenere la condanna al rilascio del bene ed al pagamento di un’indennità di occupazione senza titolo.

Infatti, una volta escluso il trasferimento della proprietà, e stante la maturata prescrizione del diritto all’esecuzione in forma specifica del preliminare, il F. risultava occupante sine titulo del bene, di cui andava ordinata la liberazione. Tuttavia la condanna al pagamento di un’indennità di occupazione doveva essere limitata al solo periodo successivo alla proposizione della domanda, in quanto per il passato l’attore aveva occupato il bene in buona fede, essendone stato immesso nel godimento da parte dello stesso dante causa dei convenuti.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso F.G. sulla base di sei motivi.

Fe.Gi. e Fe.St. hanno resistito con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1367,1369 e 2697 c.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Lamenta il ricorrente che erroneamente i giudici di merito hanno qualificato la prima scrittura privata come una bozza di contratto preliminare, attribuendo portata risolutiva al contenuto delle successive scritture, intercorse tra le stesse parti, nelle quali erano contenuti i reciproci impegni a vendere ed ad acquistare il bene oggetto di causa.

In realtà le espressioni letterali contenute nella prima scrittura depongono in maniera univoca per un trasferimento immediato della proprietà del bene, come confermato anche dal fatto che il ricorrente si era immediatamente insediato nel godimento del bene per viverci con il proprio nucleo familiare.

La decisione è inoltre affetta da evidenti vizi logici per assenza di una motivazione adeguata o sufficiente.

Rileva il Collegio che il motivo si palesa inammissibile nella parte in cui denuncia la ricorrenza del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 facendo riferimento al testo della norma non più vigente ed inapplicabile alla fattispecie ratione temporis, trattandosi di ricorso proposto avverso sentenza pubblicata in data successiva all’11 settembre 2012.

Quanto invece alla dedotta violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, si rileva che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Con specifico riferimento poi alla ricognizione circa la natura definitiva o meno della volontà delle parti, si è ribadito che (cfr. Cass. n. 14006/2017) costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l’intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 c.c. e ss. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata (conf. Cass. n. 23142/2014, secondo cui la qualificazione del contratto come preliminare o definitivo si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice di merito, il quale, nell’interpretazione del contratto, ove il dato letterale sia equivoco, può ricorrere al criterio di cui all’art. 1362 c.c., comma 2 (comune intenzione delle parti), assegnando rilievo anche all’avvenuta esecuzione delle prestazioni).

I giudici di merito, a fronte di espressioni letterali che pur si prestavano a far intendere il carattere definitivo del trasferimento, hanno tuttavia propeso per la diversa conclusione secondo cui la prima scrittura costituiva un passaggio procedimentale in vista della successiva conclusione del vero e proprio preliminare.

Trattasi di operazione contrattuale che ormai deve reputarsi del tutto lecita, alla luce dell’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza n. 4628/2015, hanno affermato che la stipulazione di un contratto preliminare di preliminare (nella specie, relativo ad una compravendita immobiliare), ossia di un accordo in virtù del quale le parti si obblighino a concludere un successivo contratto che preveda anche solamente effetti obbligatori (e con l’esclusione dell’esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento) è valido ed efficace, e dunque non è nullo per difetto di causa, ove sia configurabile un interesse delle parti, meritevole di tutela, ad una formazione progressiva del contratto, fondata su una differenziazione dei contenuti negoziali, e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.

Nella specie, per individuare la comune intenzione dei contraenti, la cui ricostruzione, come detto, è demandata in esclusiva al giudice di merito, si è tenuto conto, oltre che delle espressioni letterali di cui alla scrittura (e ciò anche a tacere circa il fatto che, ove ritenuta essere un atto definitivo traslativo, incorrerebbe evidentemente nella nullità per l’assenza delle menzioni di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 17), della successiva condotta degli stessi contraenti che, a prescindere dal loro comportamento materiale, hanno rinnovato in ben due occasioni la loro volontà negoziale, manifestando in maniera ben più esplicita come il loro intento fosse quello non già di trasferire illico et immediate la proprietà dei beni, ma piuttosto di obbligarsi a farlo (si veda in tal senso il richiamo ai preliminari del 26/2/1983 e del 30/8/1984 che i medesimi contraenti posero in essere per lo stesso immobile).

Appare quindi evidente come il motivo aspiri ad una diversa rivalutazione dei fatti di causa, più appagante per la parte rispetto a quella offerta dal giudice di merito, ma senza che le critiche mosse, anche in relazione alla padronanza delle regole di ermeneutica negoziale, denotino di per sè l’implausibilità della soluzione interpretativa alla quale è approdata la Corte distrettuale.

Il motivo va quindi rigettato.

3. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1352,1351,2934,2935,2033 c.c., nonchè degli artt. 1453 e 1463 c.c.

Si rileva che la consegna del bene era avvenuta in favore del ricorrente nell’ambito e nel quadro del contratto preliminare concluso nel 1983, per il quale la sentenza gravata ha ritenuto essere intervenuta la prescrizione del conseguente obbligo di trasferire la proprietà del bene.

Ne deriva che, una volta venuta meno l’efficacia del preliminare, sarebbero venute meno anche le prestazioni accessorie, come appunto quella di godimento del bene.

Ne consegue anche che risulta erronea la decisione gravata nella parte in cui, pur riscontrando la prescrizione delle obbligazioni scaturenti dal preliminare, ha limitato la condanna del ricorrente al pagamento dell’indennità di occupazione, per il solo periodo successivo a quello della proposizione della domanda da parte dei Fe., dovendo invece retroagire l’obbligo di pagamento dell’indennità al momento dell’immissione nel godimento del bene o al più a quello in cui è maturata la prescrizione.

Il motivo è inammissibile per l’evidente difetto di interesse ad impugnare.

Ed, invero, pur dovendosi condividere il richiamo della difesa del ricorrente a quanto affermato da questa Corte a Sezioni Unite (cfr. Cass. n. 7930/2008), secondo cui nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori, dal che deve trarsi il corollario che (cfr. Cass. n. 16629/2013) in caso di sopravvenuta inefficacia di un contratto preliminare di compravendita, a seguito della prescrizione del diritto da esso derivante alla stipulazione del contratto definitivo, ciò comporta, per il promissario acquirente che abbia ottenuto dal promittente venditore la consegna e la detenzione anticipate della cosa, l’obbligo di restituzione, a norma dell’art. 2033 c.c., della cosa stessa e degli eventuali frutti (“condictio indebiti ob causam finitam”), e non un’obbligazione risarcitoria per il mancato godimento del bene nel periodo successivo al compimento della prescrizione (quanto alle conseguenze derivanti dalla risoluzione del preliminare si veda Cass. n. 6575/2017), la tesi sostenuta in ricorso perviene alla conclusione secondo cui l’indennità di occupazione sia dovuta non già a far data dalla proposizione della domanda da parte dei Fe. (9/1/2002), ma da quella in cui era maturata la prescrizione decennale avuto riguardo al termine fissato per la stipula del definitivo (15 giugno 1983) e quindi a partire dal 16 giugno 1993.

Tuttavia, avendo la sentenza gravata contenuto la condanna al solo periodo successivo alla domanda dei convenuti, il motivo è inammissibile in quanto, in assenza peraltro di impugnazione incidentale dei controricorrenti sul punto, sollecita l’adozione di un provvedimento di condanna ben più oneroso per il ricorrente principale che vedrebbe retroagire di svariati anni l’obbligo di versare l’indennità di occupazione, il che rende evidente come sul punto difetti la soccombenza della parte e quindi il suo interesse ad impugnare.

4. Il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2935,2943,2944 e 2946 c.c. quanto alla soluzione raggiunta in merito alla prescrizione del diritto dell’attore concernente l’obbligazione di trasferimento scaturente dal contratto preliminare.

Sulla questione, che è stata esaminata ai limitati fini di valutare la fondatezza della domanda di rilascio del bene (non avendo il ricorrente censurato l’affermazione dei giudici di appello secondo cui non sarebbe stata validamente proposta una domanda ex art. 2932 c.c.), si richiama anche in questa sede il contenuto della comparsa di risposta di Fe.Vi., redatta dall’avv. S. e recante la data del 6 maggio 1992, comparsa depositata in un diverso giudizio, assumendosi che in tale atto sarebbe dato rinvenire una serie di riconoscimenti del diritto, idonei quindi ad interrompere la prescrizione.

Non risulta invece adeguatamente contrastata l’affermazione dei giudici di appello secondo cui non potrebbe darsi rilievo al contenuto dell’atto di costituzione del F. sempre in quel giudizio, per l’omessa produzione dello stesso atto in questo processo.

Anche tale motivo va disatteso.

Ed, invero, in disparte la carenza del requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, nella parte in cui la parte non si perita di riprodurre con sufficiente precisione, e per le parti di immediato interesse, il contenuto della comparsa di risposta del Fe. richiamata in motivo, la censura si risolve anche in parte qua in un’evidente critica all’apprezzamento di fatto compiuto dal giudice di merito che ha ritenuto, sulla scorta dell’interpretazione della detta comparsa, che la stessa non contemplasse alcun riconoscimento da parte di Fe.Vi. del diritto vantato dal ricorrente.

Inoltre la parte non si avvede (e quindi non la sottopone a critica adeguata) dell’ulteriore affermazione della Corte d’Appello che ritiene che le affermazioni contenute nella comparsa de qua al più siano riferibili al difensore del Fe. (implicitamente negando che alle stesse possa attribuirsi valenza confessoria), sottolineando come anche l’esistenza di eventuali ammissioni del difensore non esime la parte interessata dal fornire riprova della corrispondenza al vero delle stesse.

5. L’ordine logico delle questioni impone poi la preventiva disamina del quinto motivo di ricorso che investe direttamente il tema dell’ammissibilità dell’appello incidentale in virtù del quale è stata accolta la domanda di rilascio e di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione.

Con il motivo in esame si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 113 e 114 c.p.c., nonchè degli artt. 166,167,342,343 e 347 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Esclusa l’ammissibilità della denuncia del vizio di motivazione per le ragioni già esposte in occasione della disamina del primo motivo di ricorso, quanto alla violazione di legge, e precisamente della ricorrenza di un error in procedendo, la difesa del F. evidenzia che gli attuali controricorrenti si erano costituiti in appello, proponendo altresì appello incidentale, con comparsa di risposta depositata in data 12/6/2007, a fronte della prima udienza fissata con l’atto di appello per la data del 28/6/2007.

Ne consegue che, poichè ai fini della tempestività dell’appello incidentale, occorreva la costituzione degli appellati almeno venti giorni prima dell’udienza indicata in citazione, non rilevando che la prima udienza fosse stata poi celebrata in data successiva, trattandosi nella specie di differimento d’ufficio, che non è idoneo a differire anche il termine di costituzione dell’appellato, la Corte d’Appello avrebbe dovuto rilevare d’ufficio l’inammissibilità del gravame incidentale, essendole precluso l’esame nel merito.

Il motivo è fondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 3081/2017), ai sensi dell’art. 343 c.p.c., comma 1, l’appello incidentale si propone, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, e poichè tale costituzione deve avvenire almeno venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione, ovvero differita d’ufficio dal giudice giusta l’art. 168-bis c.p.c., comma 5, ove il giudice si avvalga di tale facoltà di differimento il termine per la proposizione dell’appello incidentale va calcolato assumendo come riferimento la data dell’udienza differita, e non quella originariamente indicata nell’atto di citazione.

Si è altresì specificato che (Cass. n. 28571/2013) in tema di appello incidentale, il differimento del termine ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., comma 4, per la tempestiva proposizione del gravame, nel caso in cui nel giorno fissato con l’atto di citazione il giudice non tenga udienza, non si applica ove il rinvio della prima udienza sia stato disposto direttamente dal Presidente di sezione, trattandosi di disposizione di natura eccezionale non suscettibile di applicazione analogica, con la conseguenza inoltre che (Cass. n. 9351/2003) è inammissibile, siccome tardivo, l’appello incidentale proposto assumendo a parametro temporale di riferimento per il rispetto del termine decadenziale dei “20 giorni prima” (termine il quale, indicato dall’art. 166 c.p.c. per la proposizione della domanda riconvenzionale di I grado, viene poi richiamato, per la proposizione dell’appello incidentale nel giudizio di II grado, dall’art. 343 c.p.c.) non già la data fissata nell’atto di appello, ma quella alla quale (non tenendo in quel giorno udienza il giudice designato) la causa sia stata rinviata d’ufficio ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., comma 4. Ed infatti l’unica fattispecie che giustifica la mancata considerazione dell’originaria data dell’udienza fissata nell’atto di citazione è quella – del tutto distinta contemplata dall’art. 168 bis c.p.c., comma 5 la quale ricorre allorchè il giudice istruttore designato, nei cinque giorni dalla presentazione del fascicolo, ritenga, con proprio decreto motivato, di differire la data della prima udienza; fattispecie nella quale – giusta espressa previsione di cui allo stesso art. 166 c.p.c. – il termine di “20 giorni prima” va appunto computato in riferimento alla data fissata nel decreto del giudice istruttore designato (conf. Cass. n. 8897/2005).

Nella fattispecie in esame, la Corte, con la precedente ordinanza interlocutoria del 24/5/2019, ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio della Corte d’Appello, al fine di verificare le ragioni della mancata coincidenza tra la data della prima udienza indicata con l’atto di citazione in appello e quella di effettivo svolgimento della stessa (avvenuta il 3/7/2007), e rispetto alla prima delle quali sarebbe quindi risultata tardiva la proposizione dell’appello incidentale operata con la comparsa di costituzione del 12/6/2007.

L’acquisizione del fascicolo però ha evidenziato l’assenza di un formale provvedimento di differimento dell’udienza emesso ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., comma 5 risultando quindi che lo slittamento della data della prima udienza sia dipeso dalle ragioni invece contemplate dal comma precedente, il che rende evidente la tardività dell’appello incidentale, tardività il cui rilievo doveva avvenire anche ex officio.

In accoglimento del motivo in esame la sentenza impugnata deve quindi essere cassata in relazione al motivo accolto, ma trattasi di ipotesi di cassazione senza rinvio, dovendo la Corte limitarsi a dare atto che, fermo il rigetto della domanda attorea, deve essere eliminata la condanna al rilascio ed al pagamento dell’indennità di occupazione, in quanto frutto di un accoglimento di un appello incidentale, come detto inammissibile.

6. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99,112 e 345 c.p.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Si rileva che i convenuti in primo grado avevano precisato le conclusioni omettendo qualsiasi riferimento alle richieste di rilascio del bene e di pagamento dell’indennità di occupazione.

A fronte di tale condotta processuale, deve ritenersi che siffatte domande fossero state abbandonate, sicchè correttamente il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi sulle stesse.

Risultava quindi inammissibile la riproposizione della domande de quibus in grado di appello, stante l’intervenuto abbandono da parte dei Fe..

L’accoglimento del quinto motivo rende evidente l’assorbimento del motivo in esame.

7. Il sesto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 177,184,189 c.c. e artt. 102 e 354 c.p.c.

Si evidenzia che l’immobile per cui è causa è stato acquistato dal ricorrente in comunione di beni con la moglie, il che imponeva la partecipazione al giudizio anche di quest’ultima quale litisconsorte necessaria.

Il motivo è inammissibile.

In primo luogo si osserva che la necessità o meno della partecipazione del coniuge al processo costituisce questione nuova, sollevata per la prima volta con il motivo in esame, senza che peraltro emerga che la stessa sia stata affrontala in sentenza e senza che si dia atto che fosse stata sollevata nelle fasi di merito.

Peraltro trattasi di questione che implica evidentemente accertamenti in fatto, preclusi in sede di legittimità, occorrendo verificare quale fosse l’effettivo regime patrimoniale esistente tra il ricorrente ed il coniuge.

Nè vale rilevare che la questione, afferendo all’integrità del contraddittorio, sarebbe rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità, posto che l’eventuale rilevanza della partecipazione della moglie del ricorrente al giudizio imporrebbe la produzione di documenti (quali le certificazioni dello stato civile attestanti il detto regime patrimoniale) da ritenersi inammissibile ex art. 372 c.p.c., ancorchè funzionali alla verifica dell’integrità del contraddittorio (cfr. Cass. n. 3024/2012).

La deduzione è altresì infondata nel merito.

Ed, invero, alla luce degli stessi precedenti richiamati da parte ricorrente, risulta evidente che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la necessaria partecipazione al giudizio si impone solo nel caso in cui sia il bene promesso in vendita ad essere assoggettato al regime di comunione legale (cfr. Cass. S.U. n. 17952/2007, secondo cui nell’azione prevista dall’art. 2932 c.c. promossa dal promissario acquirente, per l’adempimento in forma specifica o per i danni da inadempimento contrattuale, nei confronti del promittente venditore che, coniugato in regime di comunione dei beni, abbia stipulato il preliminare senza il consenso dell’altro coniuge, quest’ultimo deve considerarsi litisconsorte necessario del relativo giudizio), laddove nel diverso caso in cui sia il promissario acquirente ad essere coniugato in regime di comunione legale, che a detta del ricorrente si realizzerebbe nella vicenda in esame, l’azione volta all’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre ben potrebbe essere proposta dal solo promissario acquirente (cfr. Cass. n. 1548/2008, secondo cui i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una “res”, non sono suscettibili di cadere in comunione, con la conseguenza che, nel caso di contratto preliminare di vendita stipulato da uno solo dei coniugi, l’altro coniuge non può vantare alcun diritto, non essendo neppure legittimato a proporre la domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.).

Ma ancor più dirimente risulta la considerazione che la sentenza gravata, senza che sul punto sia stata oggetto di censura, ha affermato (cfr. pag. 9) che l’attore non aveva proposto alcuna domanda ex art. 2932 c.c., ma semplicemente quella volta a far accertare il già avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per effetto del quale, ove la domanda fosse risultata fondata, l’acquisto sarebbe avvenuto anche in favore del coniuge, ed in via automatica alla luce di quanto previsto dall’art. 177 c.c., lett. a).

La censura invece appare erroneamente fondata sul presupposto, qui non ricorrente, che si debba pronunciare una sentenza costitutiva di trasferimento della proprietà del bene, il che esclude in maniera radicale ogni possibilità di invocare una situazione di litisconsorzio necessario.

9. Il rigetto del primo motivo di ricorso principale comporta poi l’assorbimento del ricorso incidentale espressamente condizionato all’accoglimento del motivo che investiva la corretta qualificazione della prima scrittura privata.

10. Quanto alle spese di lite, atteso il solo parziale accoglimento del ricorso principale, e tenuto conto della prevalente soccombenza del ricorrente principale, si ritiene di dover confermare la liquidazione delle spese per i gradi di merito come operata nella sentenza gravata, compensando invece le spese del presente giudizio.

11. Non ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e decidendo nel merito, fermo il rigetto della domanda attorea, espunge la condanna al rilascio ed al pagamento dell’indennità di occupazione; dichiara assorbito il quarto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale, e rigetta gli altri motivi del ricorso principale;

Conferma la liquidazione delle spese dei gradi di merito come operata dal giudice di appello e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020

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