Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 863 del 16/01/2017

Cassazione civile, sez. lav., 16/01/2017, (ud. 27/10/2016, dep.16/01/2017),  n. 863

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13821-2014 proposto da:

T.L. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE ANGELICO 70, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNA PANSINI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CRISPINO

IPPOLITO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.I.S.P.A. S.P.A.;

avverso la sentenza n. 1067/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO

depositata il 20/05/2013 r.g.n. 2569/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/10/2016 dal Consigliere Dott. LORITO MATILDE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI FRANCESCA, che ha concluso per l’inammissibilità in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Palermo con sentenza n. 3187/2010 respingeva le domande proposte da T.L. nei confronti della CISPA s.p.a. intese a conseguire, previo riconoscimento della intercorrenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata in relazione ad un contratto di collaborazione coordinata e continuativa stipulato fra le parti dal 3/1/2001 al 31/12/2005, e la illegittimità del recesso posto in essere dalla società con missiva del 28/12/2005.

Detta pronuncia veniva confermata con sentenza resa pubblica il 20/5/2013 dalla. Corte distrettuale la quale, a fondamento del decisum, ed in estrema sintesi, osservava come il quadro probatorio di natura documentale e testimoniale delineato in prime cure, escludesse la configurazione fra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato, mancando la prova della ricorrenza degli elementi qualificativi della sottoposizione al potere direttivo della parte datoriale e del pieno inserimento del lavoratore nell’assetto organizzativo aziendale. Di qui l’infondatezza di ogni doglianza inerente alla illegittimità del licenziamento intimato ed alle ulteriori questioni inerenti al preteso inquadramento nella categoria di quadro o di dirigente ed alla regolarizzazione della posizione assicurativa e previdenziale.

Avverso tale decisione il T. interpone ricorso per cassazione sostenuto da due motivi illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

La società intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Ci si duole che la Corte distrettuale abbia omesso ogni pronuncia in ordine alla istanza di annullamento del provvedimento impugnato (recesso della CISPA s.p.a. del 28/12/2005), sollevata in sede di gravame sotto il profilo della sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 1. La società aveva infatti disposto un recesso ad nutum avvalendosi della disposizione citata e dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza 5/12/2008 n. 399 all’esito del quale il contratto di collaborazione coordinata e continuativa doveva ritenersi rinnovato per mancata disdetta ai sensi dell’art. 2 del contratto inter partes in data 3/1/2001.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2222 c.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, omesso esame in ordine, ad un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Il ricorrente critica la sentenza impugnata per aver proceduto ad una errata determinazione dei criteri generali idonei all’inquadramento della prestazione lavorativa nell’ambito delle astratte categorie del lavoro autonomo e del lavoro subordinato, e ad un errato accertamento in fatto – sia delle difese articolate dalla società, che dei dati istruttori acquisiti – consequenziale alla applicazione di siffatti criteri, quale oggettiva ricaduta sul piano fattuale degli erronei canoni in diritto applicati.

3. Ragioni di ordine logico – giuridico inducono ad esaminare con priorità, detto secondo motivo.

Il motivo è privo di fondamento.

Occorre premettere che, nella giurisprudenza di questa Corte, l’elemento della subordinazione non costituisce un dato di fatto elementare, quanto piuttosto una modalità di essere del rapporto, potenzialmente desumibile da una serie di circostanze, richiedenti una complessiva valutazione che è rimessa al giudice del merito. Questi a tal fine, non può esimersi, nella qualificazione del rapporto di lavoro, da un concreto riferimento alle sue modalità di espletamento ed ai principi di diritto ispiratori della valutazione compiuta, allo scopo della sussunzione della fattispecie nell’ambito di una specifica tipologia contrattuale. Se immune da vizi giuridici e supportato da un’adeguata motivazione, tale (apprezzamento si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. Cass. 26/8/2013 n. 19568,Cass. 16/6/2006 n. 13935).

4. Nello specifico la Corte distrettuale ha modulato il proprio iter argomentativo muovendo da corretti principi in tema di sussumibilità della fattispecie nelle generali categorie della locatio operis ovvero della locatio operarum, conformi a diritto perchè coerenti con i dicta giurisprudenziali di questa Corte secondo cui, in generale, elemento indefettibile del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non gi; soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggiarsi del rapporto (vedi in tali sensi, ex plurimis, Cass. 1/12/2008 n. 28525, Cass. 27/2/2007 n. 4500).

5. I giudici dell’impugnazione hanno altresì congruamente rimarcato come, ai fini considerati, debba farsi riferimento al concreto atteggiarsi del rapporto stesso e alle sue specifiche modalità di svolgimento, potendo il richiamo alla iniziale volontà delle parti, cristallizzatasi nella redazione del contratto di lavoro, valere come elemento di valutazione ai fini dell’identificazione della natura del rapporto solo se ed in quanto le concrete modalità di svolgimento dello stesso lascino margini di ambiguità e/o di incertezze (cfr., al riguardo in tali termini Cass. 9/6/2000 n. 7931 cui adde Cass. 19/5/2001 n. 6868).

Non hanno, peraltro, mancato di osservare come, nelle ipotesi in cui si riscontri una accentuata flessibilità dei confini tra lavoro subordinato ed altre specifiche tipologie di rapporti lavorativi (ad esempio: degli esercenti professioni intellettuali), il criterio fondamentale per l’accertamento della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro è costituito dall’esistenza di un potere direttivo del datore di lavoro che, pur nei limiti imposti dalla connotazione professionale della prestazione, abbia un’ampiezza di estrinsecazione tale da consentirgli di disporre, in maniera piena, della stessa nell’ambito delle esigenze proprie della sua organizzazione produttiva (cfr. Cass. 3/3/2009 n. 5079).

6. Alla stregua di siffatti corretti criteri ermeneutici, la Corte di merito ha proceduto alla analitica disamina sia del tenore del contratto di collaborazione coordinata e continuativa stipulato fra le parti, sia delle deposizioni testimoniali raccolte, pervenendo, in estrema sintesi, con approccio congruo sotto il profilo logico, alla conclusione che l’oggetto del rapporto inter partes concerneva “la realizzazione di una specifica attività Apromozione, organizzazione e coordinamento della rete commerciale), e non la generica messa a disposizione delle sue energie lavorative”, non essendo emerso che le prestazioni rese dal ricorrente, quanto alla organizzazione del proprio lavoro, fossero sottoposte a direttive dei responsabili della società tali da determinarne una effettiva limitazione.

7. Per il resto, deve considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile nella fattispecie, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19881). Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

Nella specie il ricorrente si limita a proporre, inammissibilmente, una diversa lettura ed interpretazione delle risultanze testimoniali, di guisa che, anche sotto tale profilo, la doglianza va disattesa.

8. Infondato è altresì il primo motivo.

Affinchè si configuri il vizio di omessa pronuncia non è sufficiente la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto.

Ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico – giuridica della pronuncia (vedi in tali sensi, fra le tante, Cass. 10/5/2007 n. 10696, Cass. del 4/10/2011 n. 20311 cui adde Cass. 20/9/2013 n. 21613).

9. Nello specifico, la doglianza formulata dal T. appare logicamente incompatibile con l’assetto motivazionale che connota la sentenza impugnata.

La Corte ha infatti proceduto allo scrutinio della vicenda sottoposta al, suo esame, interpretando la domanda attorea come volta a conseguire l’accertamento della natura subordinata del rapporto inter partes.

Precipitato giuridico dell’esercizio di siffatto potere discrezionale conferito al giudice di merito secondo la costante interpretazione resa da questa Corte (cfr. Cass. 24/7/2012 n. 12944), è da ritenersi l’incompatibilità dell’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza – interamente modulato sulla negazione della qualificazione del rapporto inter partes in termini di subordinazione – con il motivo di appello concernente la declaratoria di illegittimità del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 1, che postulava, per contro, la sussistenza fra le parti di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa; incompatibilità, questa, che risulta suffragata dalla formulazione della doglianza in grado di appello, con cui sono stati ricollegati anche alla deduzione della sopravvenuta incostituzionalità della norma di cui al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 86, comma 1, gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dal L. n. 300 del 1970, art. 18, in relazione ai licenziamenti dichiarati illegittimi.

In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Nessuna statuizione va emessa in punto spese, non avendo la Cispa s.p.a. svolto attività difensiva.

Occorre, infine, dare atto della sussistenza delle condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento a titolo di contributo unificato dell’ulteriore importo pari a quello versato per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2017

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