Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8626 del 03/04/2017


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Cassazione civile, sez. I, 03/04/2017, (ud. 30/01/2017, dep.03/04/2017),  n. 8626

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22338/2012 proposto da:

INTESA SANPAOLO S.p.a. (P.I. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via

Bissolati n. 76, presso l’avvocato Gargani Benedetto, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Iodice Domenico,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

R.I., R.G., R.M., elettivamente

domiciliati in Roma, Via Panama n. 26, presso l’avvocato Pieretti

Maria Cristina, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

Ledda Alberto, giusta procura per Notaio Dott. M.A. di

NOVARA – Rep. n. (OMISSIS);

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1433/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 13/08/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/01/2017 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato D. IODICE che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per i controricorrenti, l’Avvocato G. NATALE, con delega

verbale, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale CARDINO

Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo,

assorbiti gli altri motivi.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione notificato il 23 febbraio 2006, R.I., M. e G. convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Vercelli Intesa Sanpaolo s.p.a. deducendo di essere titolari di un deposito amministrato aperto a loro nome presso Banca Sanpaolo (poi Intesa Sanpaolo) dal padre R.R., al quale era stata rilasciata procura per operare su detto deposito a nome dei figli. Rilevavano che avevano effettuato investimenti aventi ad oggetto quantità considerevoli di obbligazioni di Stato argentine e che, in particolare, nel novembre 2001, il predetto, dopo aver acquistato, a seguito della dismissione di titoli argentini, obbligazioni (OMISSIS) alle quali era stato assegnato da Moody’s un rating di tripla A, le aveva poi rivendute per riacquistare bond argentini per un controvalore di Euro 1.800.000,00, ai quali era stato attribuito il rating della tripla C; tali titoli erano stati successivamente rivenduti ricavandone Euro 516.413,41. Esponevano, inoltre, che Restano aveva apposto le firme apocrife degli attori sui relativi ordini. Secondo gli istanti la banca aveva violato le regole di condotta di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998 , artt. 21 e segg. (t.u.f.) e dagli artt. 26 e segg. reg. Consob n. 11522/1998, nonchè quelle più generali previste dagli artt. 1175 e 1176 c.c.; gli attori rilevavano, inoltre, che l’operazione era stata conclusa sul mercato non regolamentato e che dalle offering circulars emergeva che le obbligazioni in questione erano destinate solo agli investitori speculativi, in grado di sostenere rischi speciali: si dolevano quindi che, nonostante ciò, la banca avesse consentito investimenti non adeguati, omettendo di fornire informazioni al cliente.

Si costituiva la banca, la quale sosteneva che nessuna inadempienza le era addebitabile, non essendo, tra l’altro, prova del necessario nesso causale tra le condotte asseritamente illecite e il danno.

Esperite le prove testimoniali ed espletata la consulenza tecnica grafica, il Tribunale di Vercelli respingeva le domande proposta dagli attori.

2. La sentenza era impugnata dai Restano e, nella resistenza di Intesa Sanpaolo, la Corte di appello di Torino, pronunciava, in data 13 agosto 2012, sentenza con cui, in riforma della decisione di prime cure, condannava la banca al pagamento della somma di Euro 431.446,86 oltre rivalutazione e interessi. La pronuncia era motivata sulla scorta del rilievo per cui l’operazione risultava inadeguata, risultando evidente la sua rischiosità, tanto più in considerazione dell’imminenza del default e delle notizie di segno negativo che circolavano nel periodo. D’altro canto, ha aggiunto il giudice distrettuale, la connotazione di inadeguatezza dell’operazione non costituiva esimente per la banca, mancando l’autorizzazione scritta, espressamente finalizzata a consentire l’esecuzione dell’operazione da parte dell’investitore, nonostante gli indici che sconsigliavano di porla in atto.

3. A tale pronuncia Intesa Sanpaolo ha opposto un ricorso per cassazione articolato in quattro motivi. Resistono con controricorso R.I., M. e G.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1838 e 2697 c.c., oltre che dell’art. 21 t.u.f., degli artt. 99, 112 e 115 c.p.c. e del D.Lgs. n. 5 del 2003, artt. 4 e 7; lamenta, altresì, la nullità della sentenza o del procedimento. Espone che la Corte di appello aveva disatteso i propri rilievi circa il fatto che il denaro utilizzato dal defunto R.R. per l’acquisto delle obbligazioni argentine proveniva dal conto corrente intestato al medesimo e alla di lui moglie; rileva, altresì, che lo stesso giudice distrettuale aveva mancato di considerare come gli appellanti non avevano alcun diritto, tantomeno jure successionis, sulle somme giacenti sul conto corrente in questione. Inoltre, il giudice distrettuale aveva ritenuto che “l’allegazione di una mancanza in concreto del danno dedotto in causa dagli appellanti”, in considerazione della provenienza delle somme, investite nell’acquisto dei titoli, dal conto corrente cointestato ai genitori dei R. si incentrasse su specifiche circostanze di fatto, da introdursi tempestivamente nel processo. La banca, aveva d’altro canto dedotto che la domanda risarcitoria doveva essere respinta per difetto di un fatto costitutivo, e cioè del danno risarcibile attinente alla sfera patrimoniale degli appellanti. La Corte di merito aveva però trascurato di considerare che il regime delle preclusioni di cui al D.Lgs. n. 5 del 2003, artt. 4 e 7, si riferiva alle sole eccezioni proprie e non, quindi, a quelle rilevabili d’ufficio. Inoltre la sentenza era comunque viziata in quanto il giudice distrettuale aveva ritenuto che il rilievo della banca circa la mancanza del danno fosse infondato nel merito. Si leggeva nella sentenza impugnata che il deposito dei titoli costituiva base sufficiente per l’azionabilità di pretese risarcitorie in caso di perdite, a nulla rilevando la provenienza e, in ipotesi, anche la natura gratuita dell’elargizione delle somme impiegate nell’acquisto delle obbligazioni. Nondimeno, la controversia aveva ad oggetto il danno derivante da un’operazione di investimento che, secondo quanto ritenuto dalla Corte piemontese, la banca avrebbe dovuto astenersi dall’eseguire: ma se la banca si fosse astenuta dall’eseguire l’operazione, il corrispettivo per l’acquisto dei titoli sarebbe rimasto del conto corrente dei genitori degli odierni controricorrente, i quali non avrebbero neppure beneficiato del controvalore ricavato dalla vendita dei titoli argentini.

1.1. – Sul punto la sentenza non merita cassazione.

La Corte di appello, con riguardo alla questione oggetto del motivo, ha osservato che, pur non potendosi dubitare del fatto che le somme occorse per l’acquisto dei titoli provenissero dal conto corrente cointestato ai genitori dei R., e pur aderendo alla tesi secondo cui gli odierni controricorrenti non avevano dimostrato il titolo successorio in relazione a detto rapporto, “il deposito dei titoli costituisce base sufficiente per l’azionabilità di pretese risarcitorie in caso di perdite, a nulla rilevando la provenienza e in ipotesi la natura anche gratuita dell’elargizione delle somme impiegate nell’acquisto delle obbligazioni”. In tal modo, la Corte di merito ha attribuito valore dirimente all’anteriorità logica che rivestiva, nella complessa operazione posta in atto, l’erogazione, ai controricorrenti, della somma poi destinata all’acquisto dei titoli: ha cioè inteso affermare che R.R. aveva beneficiato i figli di un’attribuzione patrimoniale consistente nella somma di denaro impiegata nell’investimento in bond argentini, i quali erano poi confluiti nel deposito amministrato di cui erano titolari gli stessi controricorrenti. Tale ricostruzione – corroborata dal rilievo per cui il padre degli odierni ricorrenti in quella circostanza agì in rappresentanza dei figli (acquistando quindi i titoli in nome e per conto di costoro: cfr. sentenza impugnata, pag. 11) – non è specificamente censurata e, del resto, nemmeno lo potrebbe essere, nel suo nucleo fattuale: diversamente, si ammetterebbe il sindacato della Corte di legittimità su di un accertamento riservato al giudice del merito. In tale prospettiva, il danno conseguente all’operazione deve ritenersi incidente sulle sfere patrimoniali di R.I., M. e G.; il mancato acquisto dei titoli da parte del padre di tali soggetti avrebbe quindi evitato una perdita economica ai controricorrenti: perdita concernente una parte della somma che il padre aveva voluto erogare ai medesimi (e che fu poi indirizzata all’acquisto, da parte dei ricorrenti – rappresentati nell’occasione dallo stesso genitore – delle obbligazioni argentine: e cioè all’acquisto di titoli destinati a perdere, di lì a poco, gran parte del loro valore).

2. – Il secondo mezzo censura la sentenza per l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, anche in relazione all’art. 116 c.p.c. e prospetta, quindi, cumulativamente, i vizi di cui dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5. Lamenta l’istante come la Corte territoriale avesse “liquidato” l’intera istruttoria orale esperita ritenendola irrilevante in quanto essa sarebbe stata incentrata sulle caratteristiche dell’investitore, ritenute non determinanti ai fini della decisione. Alla prova suddetta, assunta in primo grado, era stato quindi attribuito altro valore rispetto a quello in relazione al quale era stata dedotta ed ammessa. Tale prova confermava, infatti, che l’investitore considerasse il default argentino un “incidente di percorso” e che R., lungi dall’essere animato da intenti meramente conservativi, intendesse dar corso ulteriore alle attività speculative cui già si dedicava.

2.1 – La censura non ha fondamento.

Essa si risolve in una critica rivolta alla lettura, da parte della Corte distrettuale, delle risultanze di causa. Come è ben noto, tuttavia, spetta in via esclusiva al giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357). Nè il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 17 luglio 2001, n. 9662).

Inoltre, in base alla previsione dell’art. 360, n. 5, nella versione applicabile alla fattispecie, successiva alla modificazione della norma apportata con D.Lgs. n. 40 del 2006, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve riguardare un fatto “”controverso e decisivo per il giudizio” e ciò implica che la motivazione della quaestio facti sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che sia tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione (così Cass. 20 agosto 2015, n. 17037). Nella fattispecie, invece, la motivazione della sentenza si regge sulla mancata autorizzazione scritta all’esecuzione dell’ordine da parte dell’investitore (pag. 14 della sentenza): investitore che non è stato considerato operatore qualificato, e ciò sulla base di un giudizio (espresso a pag. 12 della pronuncia) non sottoposto a censura.

3. – Il terzo motivo ha ad oggetto doglianze fondate sulla violazione o falsa applicazione dell’art. 21 t.u.f. e art. 29 reg. Consob n. 11522/1998 e sull’omesso esame di fatti decisivi. La sentenza viene censurata nella parte in cui ha ritenuto sussistente la violazione, da parte della banca, degli obblighi informativi in materia di operazioni non adeguate. La Corte di merito – secondo la ricorrente – aveva ritenuto che R. fosse consapevole del default dell’Argentina; non aveva ritenuto poi di soffermarsi sulla pretesa violazione degli obblighi informativi di cui all’art. 28, comma 2Consob n. 11522/1998. La pronuncia non poteva essere condivisa là dove affermava che tale consapevolezza non escludesse l’inadeguatezza, obbiettiva e soggettiva, dell’operazione: ciò che aveva indotto il giudice distrettuale a ritenere applicabile al caso concreto la fattispecie di cui all’art. 29 reg. cit.. La Corte – aggiunge l’istante – aveva trascurato di considerare plurime e comprovate circostanze che, ove prese in esame, avrebbero dovuto far concludere nel senso che R. era un investitore “speculativo”: sicchè, in definitiva, l’operazione oggetto di causa era pienamente coerente con il suo profilo di rischio. Era escluso, d’altro canto, che alla locuzione “operazione non adeguata”, contenuta nell’ordine, potesse attribuirsi un rilievo confessorio per la banca, dal momento che essa era riferibile all’investitore che detto ordine aveva sottoscritto e, comunque, aveva ad oggetto la formulazione di un giudizio, e non l’affermazione di scienza e verità di un fatto storico.

3.1. – Nemmeno tale motivo merita accoglimento.

Il carattere inadeguato dell’operazione non è stato specificamente contestato e, del resto, risulta riconosciuto espressamente dalla banca ricorrente (tanto che essa ha rilevato di aver informato il cliente dell’inadeguatezza dell’operazione: ad es. pagg. 36 s. del ricorso).

Il fatto che il cliente possa essere consapevole dell’inadeguatezza dell’operazione non esime l’intermediario dagli obblighi informativi – salvo non si sia in presenza di un operatore qualificato -, onde trova applicazione, nei confronti della banca, il disposto dell’art. 28 reg. reg. Consob n. 11522/1998.

Inoltre, e soprattutto, la suddetta evenienza non esclude che l’intermediario si astenga dall’effettuazione dell’investimento, così come stabilito dall’art. 29, comma 3 reg. cit..

Può osservarsi che l’acquisita conoscenza dell’inadeguatezza dell’operazione da parte dell’investitore costituisce una delle condizioni presupposte dell’obbligo di astensione degli intermediari autorizzati, giacchè questi ultimi, in base alla disposizione regolamentare sopra richiamata, ove ricevano da un investitore disposizioni relative a un’operazione inadeguata, “lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione” e, qualora l’investitore intenda comunque dar corso all’operazione, essi non possono procedervi, salvo l’ordine sia impartito per iscritto o, in caso di ordini telefonici, questi siano registrati su nastro magnetico o supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. E’ escluso, pertanto, che l’intermediario possa procedere all’acquisto, senza aver prima ricevuto una richiesta documentata nei termini indicati da parte dell’investitore, il quale deve essere previamente informato dell’inadeguatezza dell’operazione. A maggior ragione, l’operazione non può aver luogo se sia il cliente a rappresentarsi tale inadeguatezza in modo autonomo (indipendentemente, quindi, dall’attività informativa dell’intermediario).

Quel che discrimina, e rende inoperante l’obbligo dell’intermediario di astenersi dall’effettuare operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensioni, se non a seguito di un ordine impartito per iscritto dall’investitore in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute, è la natura qualificata dell’operatore: ma, come avvertito, il profilo in questione è estraneo alla controversia sottoposta all’esame di questa Corte e, comunque, non è investitore qualificato chi abbia in precedenza investito in titoli a rischio (Cass. 19 gennaio 2016, n. 816; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22147; Cass. 25 giugno 2008, n. 17340).

L’ulteriore censura formulata nel corpo del motivo, e incentrata su annotazioni presenti sull’ordine di investimento (pag. 32 del ricorso) è priva, poi, di autosufficienza, in quanto parte ricorrente manca di riprodurre il contenuto del documento di cui trattasi, e ciò in difformità dell’insegnamento per cui i documenti richiamati nel ricorso per cassazione debbono essere trascritti nella loro integrità in modo da consentire alla Corte una compiuta valutazione circa la loro decisività (sul punto cfr. Cass. 28 febbraio 2006, n. 4405; in senso sostanzialmente conforme, tra le tante: Cass. 28 giugno 2006, n. 14973; Cass. 8 settembre 2006, n. 19305; Cass. 20 febbraio 2007, n. 3920; Cass. 16 febbraio 2007, n. 3651; Cass. 11 giugno 2007, n. 13619; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48).

4. – Con il quarto motivo la ricorrente lamenta l’illegittimità della sentenza per violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1222, 1223 e 1227 c.c., nonchè per omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti. Rileva la ricorrente che incombe all’investitore che agisce in giudizio l’onere di dimostrare il danno e, per l’appunto, la sussistenza, nel caso concreto, del nesso di causalità tra l’inadempimento e il danno stesso; la banca, già in fase di appello, aveva osservato come tale nesso di causalità non potesse essere presunto ma dovesse essere accertato in concreto. L’istante indica plurimi fatti, ritenuti decisivi, riferiti alla questione del nesso di causalità, che la Corte di merito avrebbe omesso di esaminare: R. era determinato ad effettuare l’operazione e l’avrebbe posta in atto quand’anche avesse ricevuto ulteriori avvertenze scritte circa la sua inadeguatezza; egli era comunque orientato all’investimento in titoli ad alto rischio; aveva in precedenza investito in obbligazioni argentine; aveva riacquistato le obbligazioni argentine solo una settimana dopo averle vendute, con piena consapevolezza dei rischi ai quali andava incontro; dopo il default aveva continuato a investire ingenti somme nell’acquisto di titoli di un paese “emergente” della stessa area geografica, come il Brasile, connotato dalla stessa instabilità politica e finanziaria dell’Argentina. Rileva poi la banca di aver informato per iscritto il cliente dell’inadeguatezza dell’operazione e di aver fornito allo stesso le avvertenze tese a sconsigliarne l’effettuazione. Osserva, infine, come lo stesso investitore avesse formulato espressa autorizzazione scritta all’esecuzione dell’operazione di cui trattasi.

4.1. – Il motivo deve essere disatteso.

L’ultima delle esposte censure è priva di autosufficienza, non essendo stato riprodotto, nel ricorso, il completo contenuto del documento richiamato. Peraltro, la dichiarazione, nella parte trascritta, si risolve nel giudizio, espresso dal cliente, circa l’adeguatezza di imprecisati investimenti: non si vede quindi come possa tener luogo della conferma scritta dell’ordine di dar corso all’operazione contestata.

Nella restante parte il motivo non appare conferente dovendo essere in definitiva condivisi i rilievi formulati al riguardo dai controricorrenti.

Occorre rammentare, infatti, che la Corte territoriale ha attribuito rilievo decisivo all’assenza di un ordine scritto del cliente idoneo a consentire l’esecuzione dell’operazione nonostante gli indici di inadeguatezza rimarcati dalla banca.

Ora, in una ipotesi siffatta, ai fini risarcitori occorre avere riguardo alle conseguenze della violazione dell’obbligo di astensione: il pregiudizio risarcibile coincide, dunque, con quello determinatosi in ragione della violazione dell’obbligo suddetto, e consiste nella perdita maturata per effetto dell’operazione che l’intermediario, in base alla prescrizione di cui all’art. 29 reg. Consob n. 11522/1998, non avrebbe dovuto porre in essere, rifiutandosi di dare esecuzione all’ordine di investimento impartitogli.

Mette conto di ricordare, in proposito, come le Sezioni Unite di questa Corte abbiano sottolineato, con riferimento ad altro obbligo di astensione gravante sull’intermediario, previsto dalla lett. g) della L. n. 1 del 1991, art. 6, in presenza di una situazione di conflitto di interessi non rivelata al cliente o, comunque, in difetto di autorizzazione espressa del cliente medesimo, che in riferimento alla domanda di risarcimento del danno per operazioni compiute dall’intermediario in situazione di asserito conflitto di interessi dovesse attribuirsi rilievo, per individuare l’esistenza di un danno risarcibile ed il nesso causale tra detto danno e l’illegittimo comportamento imputabile all’intermediario, alle sole conseguenze della mancata astensione dell’intermediario medesimo dal compiere un’operazione non consentita nelle condizioni di cui alla citata disposizione, e non alle conseguenze derivanti dalle modalità con cui l’operazione era stata in concreto realizzata o avrebbe potuto esserlo ipoteticamente da altro intermediario (Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, n. 26724).

5. – Il ricorso è pertanto rigettato, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2017

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