Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8623 del 15/04/2011

Cassazione civile sez. trib., 15/04/2011, (ud. 10/12/2010, dep. 15/04/2011), n.8623

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9989/2006 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrenti –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA COLA DI

RIENZO 86 presso lo studio dell’avvocato MANUELA GIUSEPPINA LAMANTEA,

rappresentato e difeso dall’avvocato MALFATTO Bartolomeo, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 151/2004 della COMM. TRIB. REG. di PERUGIA,

depositata il 08/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/12/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 24.3.2006 è stato notificato ad A.A. un ricorso del Ministero delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata l’8.2.2005), che ha accolto l’appello del contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Perugia n. 823/08/2001, che aveva rigettato il ricorso del medesimo contribuente contro l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) relativo ad Irpef 1991.

Il 9 maggio 2006 è stato notificato al Ministero ed all’Agenzia ricorrenti il controricorso del contribuente.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 10.12.010, in cui il PG ha concluso per l’accoglimento parziale del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con avviso di accertamento notificato il 15.12.1997 l’Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Perugia ha rettificato ai fini TRPEF la dichiarazione di A.A. relativa all’anno 1991, accertando un reddito di partecipazione pari ad L. 4.602.680.000, in aumento rispetto al dichiarato pari a L. 33.568.000, per conseguenza della rettifica effettuata a carico di tale “ss di Piselli R. e M.”, di cui l’ A. era socio al 50%) ed ha irrogato all’ A. le conseguenti sanzioni. Il contribuente ha richiesto di avvalersi della definizione agevolata – a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55 – ma l’Ufficio finanziario ha frapposto un diniego che il contribuente ha impugnato, in una con le ulteriori ragioni fatte valere nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado (che non sono state poi riproposte in appello), e che è rimasta l’unica questione controversa in questo grado di giudizio.

Il contribuente, totalmente soccombente in primo grado, è rimasto vittorioso in appello, ottenendo l’integrale annullamento dell’avviso di accertamento.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è motivata con riferimento all’interpretazione che del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55 (vigente all’epoca di adozione del provvedimento impositivo per cui è causa) è corretto fare a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1978 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del terzo comma della predetta disposizione, limitatamente alle parole: “Se la violazione è stata constatata in occasione di accessi, ispezioni e verifiche eseguiti ai sensi dell’art. 33”. Secondo la Commissione Regionale, tale sentenza – di genere c.d. additivo – implicherebbe di necessità la generalizzata applicazione dell’istituto della definizione agevolata (versamento del sesto del massimo della pena pecuniaria) ad ogni tipo di violazione, sia quelle previste al secondo e sia quelle previste dal terzo comma del menzionato art. 55. La Commissione ha perciò accolto l’appello sul presupposto che illegittimamente non fosse stato consentito al contribuente di definire la sanzione mediante il pagamento del sesto del massimo edittale.

4. Il ricorso per cassazione.

4. Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico (ma complesso) motivo d’impugnazione e, dichiarato il valore della causa nella misura di circa Euro 2.300.000,00, si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni conseguente statuizione, anche in ordine alle spese processuali.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Questione preliminare.

Preliminarmente necessita rilevare l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero delle Finanze.

Quest’ultimo non è stato parte del processo di appello (instaurato dopo il 1 gennaio 2001 – data di inizio dell’operatività delle Agenzie fiscali – dal solo Ufficio locale dell’Agenzia) sicchè non ha alcun titolo che lo legittimi a partecipare al presente grado.

Sussistono giusti motivi, in considerazione del fatto che la giurisprudenza di questa Corte in tal senso si è formata in epoca successiva alla proposizione del ricorso, per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

6. Il motivo d’impugnazione.

Il primo ed unico (ma complesso) motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 55, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La parte ricorrente assume che l’interpretazione che del predetto art. 55, è stata fatta da parte della Commissione Regionale non è corretta poichè la giusta portata dell’effetto additivo della menzionata sentenza della Corte Costituzionale è stata chiarita dalla stessa Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 304 del 25.7.2001 in cui è stato evidenziato che le violazioni per le quali l’art. 55, comma 3, prevede l’oblazione sono “quelle di carattere esclusivamente formale, che non danno luogo ad accertamento di maggiore imposta”.

Perciò non sarebbe irragionevole che il legislatore abbia previsto un trattamento sanzionatorio diverso e più favorevole rispetto alle violazioni di carattere sostanziale (che “danno luogo ad accertamenti di imposta in rettifica o d’ufficio”), disciplinate per contro dalla diversa norma recata dal comma 2 della stessa disposizione di legge.

In via di subordine rispetto all’integrale rigetto dell’appello, e volendo condividere la contestata interpretazione dell’art. 55, sposata dalla Commissione Regionale, quest’ultima avrebbe dovuto, comunque, limitare l’effetto di annullamento (erroneamente esteso a tutto il provvedimento impositivo) alla sola parte del provvedimento afferente l’irrogazione delle pene pecuniarie: e ciò vuoi per il limitato effetto devolutivo dell’appello, concentrato esclusivamente in relazione alla questione delle sanzioni; vuoi perchè ciò di cui concretamente si doleva il ricorrente era appunto di non avere avuto possibilità di avvalersi dell’oblazione, sicchè l’accoglimento della sua richiesta avrebbe potuto consistere soltanto nella riduzione delle sanzioni ad una somma pari al sesto del massimo.

Il motivo di censura è fondato e deve essere accolto in relazione al primo dei dedotti profili.

La disposizione del menzionato art. 55 – prima dell’intervento ablativo-additivo della Corte Costituzionale – era la seguente:

“art. 55 – Applicazione delle pene pecuniarie.

Le pene pecuniarie previste per la violazione degli obblighi stabiliti dal presente decreto e dalle norme relative alle singole imposte sui redditi sono irrogate dall’ufficio delle imposte.

Per le violazioni che danno luogo ad accertamenti in rettifica o d’ufficio l’irrogazione delle sanzioni è comunicata al contribuente con lo stesso avviso di accertamento.

Per le violazioni che non danno luogo ad accertamenti l’ufficio delle imposte può provvedere in qualsiasi momento con separati avvisi da notificare entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione. Se la violazione è stata constatata in occasione di accessi, ispezioni e verifiche eseguiti ai sensi dell’art. 33, la pena pecuniaria non può essere irrogata qualora, nel termine di trenta giorni dalla data del relativo verbale, sia stato eseguito versamento diretto all’esattoria di una somma pari ad un sesto del massimo della pena”.

Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 55, comma 3, della predetta disposizione, limitatamente alle parole “Se la violazione è stata constatata in occasione di accessi, ispezioni e verifiche eseguiti ai sensi dell’art. 33”, la Corte Costituzionale ha messo in evidenza che essa dava luogo a “diversità di trattamento”.

Diversità che il Giudice delle leggi ha riscontrato sia nell’ambito delle violazioni, accertate fuori o in ufficio, della disciplina delle imposte sui redditi, sia tra le violazioni del D.P.R. n. 600 del 1973 e quelle del D.P.R. n. 633 del 1972. Quest’ultima disparità, secondo la Corte Costituzionale, “non può essere giustificata neppure dalla diversa natura dei tributi, diretti (imposte sui redditi) e indiretto (Iva), disciplinati dai rispettivi decreti presidenziali, e si spiega solo con un difetto di coordinamento dell’intervento legislativo, rimasto limitato, in sede di correzione e di adeguamento alla normativa comunitaria, al solo tributo indiretto”.

La Corte Costituzionale ha anche precisato, nella motivazione della medesima sentenza dianzi citata, che sarebbe spettato “ai giudici comuni stabilire se il termine di trenta giorni per effettuare l’oblazione, previsto nello stesso comma 3, possa decorrere non solo dalla data del verbale di constatazione ma anche, quando è il caso, dalla notifica dell’avviso di accertamento”. E ciò con evidente riferimento alle differenti modalità di irrogazione previste nelle due distinte ipotesi previste dalla disposizione di legge, a seconda che le constatate violazioni “diano luogo ad accertamenti” ovvero che “non diano luogo ad accertamenti”.

Rispetto ad un quadro di riferimento normativo così connotato, per effetto ed a seguito dell’intervento manipolativo della Corte Costituzionale, l’indirizzo interpretativo di questa Corte si è caratterizzato univocamente nel senso della più ampia applicabilità dell’istituto della definizione agevolata, in termini tali che esso fosse da considerarsi riferibile – al di là del dato testuale – “a tutte le violazioni…incluse quelle che danno luogo ad accertamenti in rettifica o d’ufficio” (e perciò quelle disciplinate dall’art. 55, comma 2, anzitrascritto”. In questi termini si sono pronunciate Cassazione civile, sez. trib., 04 giugno 2007, n. 12978; Cassazione civile, sez. trib., 30 luglio 2002, n. 11230, entrambe vertenti in fattispecie nelle quali le sanzioni risultavano irrogate a mezzo di avviso di accertamento di maggiori imposte.

Nella seconda delle due menzionate decisioni, in particolare, la Corte Suprema ha motivato le ragioni del proprio convincimento evidenziando che solo in apparenza la pronuncia ablativa della Corte Costituzionale poteva considerarsi afferente alle fattispecie regolate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55, comma 3, atteso che la Corte Costituzionale aveva riferito “la diversità di trattamento, priva di giustificazione” sia alle “violazioni accertate fuori o in ufficio” relative alla disciplina delle imposte sui redditi sia alle violazioni di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58 (come modificata dal D.P.R. n. 24 del 1979, art. 1), norma che si caratterizza per la medesima struttura di quella applicata nella controversia in esame, con l’unica differenza che nella prima norma la previsione della possibilità di definizione in via breve delle violazioni è estesa a tutti i tipi di violazioni, ivi incluse quelle che danno luogo a rettifica o ad accertamento dell’imposta. La medesima pronuncia in questione ha anche evidenziato che la “possibilità di generalizzare la definizione agevolata delle violazioni, era proprio la ratio decidendi posta a base della decisione della Corte Costituzionale n. 364 del 1987, al di là della non felice formula contenuta nel dispositivo”.

Senonchè questo Collegio non può condividere le ragioni poste a fondamento dei richiamati precedenti di questa Corte Suprema e segnatamente l’assunto secondo cui la conclusione circa la massima estensione dell’istituto della definizione agevolata nel periodo di vigenza del menzionato art. 55 sarebbe imposta dalla esatta corrispondenza tra le ragioni valorizzate dalla Corte Costituzionale, la fattispecie concreta presa a riferimento nella controversia all’esame del giudice remittente e la lettera del dispositivo della pronuncia dichiarativa dell’illegittimità della norma.

Vale a smentire questa ricostruzione proprio l’inciso contenuto nella sentenza n. 364/87 della Corte Costituzionale in ordine alla rimessione ai giudici comuni della ulteriore questione circa lo “stabilire se il termine di trenta giorni per effettuare l’oblazione, previsto nello stesso terzo comma, possa decorrere non solo dalla data del verbale di constatazione ma anche, quando è i caso, dalla notifica dell’avviso di accertamento”. A proposito di ciò occorre qui segnalare che nella disciplina apprestata dal D.P.R. n. 600 del 1973, era previsto che il verbale di constatazione redatto in occasione di accessi ispezioni o verifiche dovesse essere comunicato al contribuente a norma del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 6, richiamato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, comma 1, e che altrettanto non era imposto per le violazioni constatate in ufficio.

In tal modo, implicitamente, il giudice delle leggi ha inteso evidenziare che le differenze procedimentali implicate dalle due differenti discipline allora vigenti in tema di IVA ed in tema di imposte dirette avrebbero necessariamente implicato un’ulteriore riflessione in ordine alla portata (generalizzabile o meno) dell’istituto della definizione agevolata delle sanzioni anche in tema di imposte dirette, “quando è il caso” e cioè allorchè l’attività di irrogazione sia esercitata a mezzo di avviso di accertamento, senza la “mediazione” della diretta constatazione, come appunto accade in riferimento alla violazioni che danno luogo ad accertamenti in rettifica o d’ufficio.

D’altronde, nessuno dei due citati precedenti di questa Corte ha tenuto conto del fatto che la medesima Corte costituzionale, nella successiva ordinanza 25 luglio 2001, n. 304 (con la quale è stata dichiarata la “manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 55, comma 2, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., nella parte in cui esclude, per le sanzioni irrogate a seguito di “violazioni che danno luogo ad accertamenti in rettifica o d’ufficio”, la possibilità di oblazione prevista invece dal comma 3 dello stesso art. 55, per le sanzioni relative alle “violazioni che non danno luogo ad accertamenti”) ha peculiarmente accentuato il rilievo della “non omogeneità delle violazioni rispettivamente previste dai commi secondo e terzo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55”.

Ed infatti nella predetta pronuncia la Corte Costituzionale ha opportunamente puntualizzato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55, comma 3, prevede(va) la possibilità di oblazione solo per quelle violazioni “di carattere esclusivamente formale”, che non danno luogo ad accertamenti di maggiore imposta. Ne ha poi dedotto, nell’esercizio dei poteri che le competono, che “non può ritenersi irragionevole che il legislatore – nell’esercizio della ampia discrezionalità di cui gode in materia – preveda per esse un trattamento sanzionatorio diverso e complessivamente più favorevole rispetto alle violazioni di carattere sostanziale, disciplinate dalla norma impugnata, che danno, invece, luogo ad accertamenti di imposta in rettifica o d’ufficio”.

A ciò deve anche aggiungersi – per maggiore chiarezza – che nel sistema delle violazioni inerenti le imposte dirette allora vigente, il D.P.R. n. 600 del 1973, prevedeva apposita disposizione di attenuazione delle conseguenze sanzionatoria in ipotesi in cui esse implichino diretto riflesso sulla determinazione dell’imposta, e cioè l’art. 54, u.c., il quale recita: “Quando il reddito netto è definito per mancata impugnazione dell’accertamento dell’ufficio o per rinuncia al proposto gravame prima che sia intervenuta la decisione della commissione tributaria di primo grado, le pene pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. da 46 a 50 sono ridotte alla metà”. In tal modo il legislatore ebbe espressamente a condizionare il beneficio della riduzione della sanzione all’espressa rinuncia alla tutela giurisdizionale anche con riferimento al provvedimento di accertamento della maggiore imposta, così opportunamente collegando la definizione dell’un aspetto con la definizione dell’altro, diversamente da quanto era stato appositamente previsto per le violazioni “autonomamente rilevanti” nella previsione dell’art. 55, comma 3, appunto perchè non implicanti riflessi sulla determinazione dell’imposta. Si tratta – come è agevole comprendere dal combinato effetto degli artt. 54 e 55 menzionati – di un sistema assai più simile all’istituto della definizione in via breve previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 15 e per questo aspetto chiaramente differente dall’istituto disciplinato dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58 (quale risultante a seguito delle modifiche introdotte dal D.L. 27 aprile 1990, n. 90), il quale consente di definire, con effetti estintivi della sola pena pecuniaria, il mero aspetto sanzionatorio delle violazioni, escludendosi, per intanto, il contestuale pagamento del tributo.

Dirimente poi la circostanza che la Corte delle leggi, quasi a voler attribuire autentica interpretazione al significato della propria precedente pronuncia, abbia avvertito l’esigenza di precisare che nella “sentenza n. 364 del 1987, relativa a diversa norma” con l’espressione “avviso di accertamento” si era voluto “con ogni evidenza indicare l’atto mediante il quale la constatazione, effettuata in ufficio, di una violazione non comportante accertamento di maggiore imposta viene portata a conoscenza del contribuente”.

Detta precisazione è coerente con la circostanza che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 – come già si è detto – pur non imponendolo, non precludeva all’amministrazione – per le violazioni constatate in ufficio, anche se non implicanti accertamento di maggiore imposta- di portarle a conoscenza del contribuente a mezzo di un processo verbale di constatazione prodromico rispetto al provvedimento di irrogazione della sanzione, come alternativa alla facoltà di irrogarle direttamente e contestualmente portarle a conoscenza, a mezzo della notifica dell’avviso di accertamento. In tal modo viene risolta la suggestione cui può avere dato alimento il sintetico riferimento all’avviso di accertamento contenuto nella sentenza della Corte Costituzionale, cui effettivamente, nella maggior parte dei casi, si ricollega un’attività tesa all’ampliamento della base imponibile e perciò stesso dell’imposta dovuta.

In aggiunta alle precise indicazioni provenienti dallo stesso Giudice delle leggi, vi sono altri elementi obiettivi che consentono di ricondurre ad organicità il limitato effetto additivo della pronuncia della Corte, ed anzitutto quello letterale, alla luce del fatto che nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55, l’istituto della definizione in via breve è chiaramente regolamentato in seno allo stesso comma nel quale è contenuta la previsione normativa riguardante le infrazioni che non danno luogo ad accertamento, ciò che determina una non risolubile coordinazione, non superabile attraverso criteri ermeneutici, e giustifica già da sè la conclusione che l’ablazione di parte del testo nel tessuto della norma non può avere avuto l’effetto di estendere l’applicabilità dell’istituto qui in esame anche a fattispecie alle quali l’istituto stesso non era per l’innanzi collegato.

D’altronde, anche l’approfondimento della costruzione dogmatica dell’istituto della definizione in via breve consente di raggiungere la medesima conclusione, attesa l’elaborazione dottrinale che lo qualifica come strumento per l’attribuzione al trasgressore non già della facoltà di estinzione degli effetti sanzionatori della violazione già commessa, ma bensì della facoltà di condizionamento ed impedimento dello stesso esercizio del potere punitivo, il primo atto del quale è proprio il provvedimento di irrogazione della sanzione. La previsione di una modalità di definizione in via breve posticipata rispetto all’avviso di accertamento in rettifica o d’ufficio, provvedimento con cui l’Amministrazione (secondo la stessa previsione dell’art. 55, comma 2) irroga la sanzione, avrebbe finito col risultare in contraddizione con l’efficacia impeditiva di cui si è detto ed avrebbe imposto di necessità un intervento integrativo esterno (che la pronuncia della Corte Costituzionale non avrebbe potuto sicuramente supplire) per adattare il tessuto dell’art. 55 alla imprescindibilità di una forma di contestazione previa, ciò che certamente non può essere operato in seno all’atto con cui si procede all’irrogazione della pena pecuniaria, pena l’incongruenza del sistema. E pena pure incongruenze “esterne” rispetto all’effetto puramente impeditivo, quali si verificherebbero, per esempio, in relazione ad eventuali nuove violazioni della stessa indole, rispetto alle quali soltanto l’impedimento all’adozione del provvedimento sanzionatorio (ma non anche la sua postuma estinzione) avrebbe efficacia di precludere che si tenga conto di quelle commesse in precedenza.

Da ultimo, non guasta evidenziare che la rilevanza che la pronuncia n. 11230/2002 di questa Corte ha ritenuto di attribuire alla sopravvenuta adozione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 16 e 17 (che hanno integralmente ridisciplinato il sistema, generalizzando la definizione in via breve anche alle ipotesi di sanzioni collegate al maggior tributo) non è argomento che possa inficiare le conclusioni che precedono, poichè non se ne può desumere alcun supporto “esterno” alla tesi che qui si contrasta. Riscrivendo integralmente le modalità operative della definizione in via breve – in un’ottica unitaria e non più legata alle specificità dei diversi tributi – il legislatore non può che avere tenuto presente le esigenze sistematiche della nuova operatività e non può certo avere avuto intenzione di conformarsi all’una o all’altra interpretazione degli effetti prodotti dalla pronuncia ablativo-additiva della Corte Costituzionale, sicchè dalla nuova sistemazione dell’istituto non può ricavarsi alcuna luce per riqualificare a ritroso il sistema previgente.

In definitiva, non par dubbio a questo collegio che l’effetto additivo della pronuncia n. 364/1987 della Corte Costituzionale debba essere limitato alle fattispecie regolate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 55, comma 3, in relazione quindi alle sole ipotesi in cui le violazioni non diano luogo ad accertamenti di maggiore imposta in rettifica o d’ufficio, quale che sia il mezzo prescelto dall’Amministrazione per portare a conoscenza del contribuente il fatto dell’avvenuta constatazione della violazione.

La sentenza impugnata – che non si è conformata ai principi sopra delineati – merita perciò di essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (poichè la parte controricorrente non ha riproposto alcuna questione ulteriore rispetto alla mera contestazione delle censure avversarie), la controversia può essere decisa nel merito, con l’integrale rigetto del ricorso del contribuente avverso l’avviso di accertamento impugnato.

La regolazione delle spese di lite è informata al criterio della soccombenza per quanto concerne il presente grado, mentre possono essere compensate tra le parti le spese dei gradi di merito, in considerazione della novità della questione principalmente controversa e della rilevante complessità del tema.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero delle Finanze e compensa le spese ad esso relative. Accoglie il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata e rigetta integralmente il ricorso del contribuente avverso l’avviso di accertamento. Condanna A. A. a rifondere le spese di lite di questo grado liquidate in complessivi Euro 12.700,00 – di cui Euro 200,00 per esborsi ed il resto per onorario – compensando tra le parti le spese dei pregressi gradi di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2011

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