Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8620 del 07/05/2020

Cassazione civile sez. lav., 07/05/2020, (ud. 09/01/2020, dep. 07/05/2020), n.8620

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9433/2016 proposto da:

B.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE

MAZZINI 55, presso lo studio dell’avvocato LORENZO BIANCHI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

GRUPPO HASSAN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 25,

presso lo studio dell’avvocato MARCO BIGNARDI, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente

avverso la sentenza n. 7551/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/11/2015, R.G.N. 8813/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle domande proposte da B.C. nei confronti della s.r.l. Gruppo Hassan, accertava l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro qualificato dalla natura dirigenziale, in relazione al periodo 10/1/2003-11/11/2008, rigettava le domande attinenti al precedente periodo dedotto in lite (2001-2003) ed in accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava il ricorrente al pagamento della somma di Euro 29.977,72 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, per la risoluzione del rapporto per giusta causa.

Con sentenza resa pubblica il 27/11/2015, la Corte distrettuale, adita da entrambe le parti, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigettava integralmente il ricorso originario proposto dal B. e quello incidentale spiegato dalla società convenuta.

Nel proprio incedere argomentativo il giudice del gravame condivideva gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza il quale aveva accertato il difetto di titolarità passiva della società convenuta nel periodo anteriore al 1/10/2003, giacchè dalla documentazione versata in atti non era desumibile l’intervenuta incorporazione da parte della s.r.l. Gruppo Hassan, delle società per le quali il ricorrente aveva prestato la propria attività a far tempo dal maggio 2001. Reputava, poi, inammissibili le argomentazioni formulate per la prima volta in grado di appello, con le quali intendeva dimostrare che le diverse società per le quali aveva lavorato in detto periodo, fossero riconducibili ad un unico soggetto economico, in quanto si trattava di circostanza non dedotta in primo grado, corredata da ulteriore e nuova documentazione.

La Corte, peraltro, in accoglimento delle censure formulate dalla società, così riformando la sentenza di prime cure e procedendo ad un rinnovato scrutinio delle acquisizioni probatorie, riteneva che fra le parti non fosse intercorso un rapporto di lavoro subordinato, bensì un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, tacitamente rinnovabile in mancanza di disdetta scritta. Si trattava di un accordo stipulato in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 276 del 2003, che aveva mantenuto efficacia sino al 27/2/2007 quando il Gruppo Hassan aveva conferito al B., l’incarico di consulente acquisti settore calzature ed abbigliamento. Tanto sul rilievo che, secondo l’art. 86 D.Lgs. cit., avrebbe dovuto mantenere efficacia non oltre un anno dalla entrata in vigore del decreto (24/10/2004); ma la norma era stata dichiarata incostituzionale, sicchè la durata del rapporto poteva ritenersi protratta ulteriormente sino alla sua effettiva disdetta. In ogni caso, argomentava la Corte, non risultavano allegati, da parte ricorrente, elementi idonei a dimostrare la sottoposizione al potere direttivo da parte datoriale.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione B.C. sulla base di tre motivi illustrati da memoria ex art. 380 bis c.p.c..

Resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo si stigmatizza la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno dichiarato inammissibile la questione – sollevata dal ricorrente solo in grado di appello – attinente alla intervenuta incorporazione delle società per le quali aveva lavorato in epoca anteriore all’anno 2003, nella s.r.l. Gruppo Hassan, sotto il profilo della violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5.

Si deduce che il contestato profilo di novità rimarcato dalla Corte distrettuale – poteva configurarsi solo in relazione alla visura catastale prodotta, ma certamente non in relazione alla “argomentazione” in sè, essendo stata la domanda proposta sin dal primo grado di giudizio nei confronti della odierna società controricorrente, con la precisazione che quest’ultima non aveva mai “contestato il proprio assoluto difetto di legittimazione passiva”…

Si prospetta altresì violazione dell’art. 112 c.p.c., giacchè l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile ex officio; nello specifico, tuttavia, si deduce che la controparte non aveva formulato alcuna eccezione al riguardo, in sede di memoria di costituzione. Nell’ottica descritta la statuizione con la quale era stata dichiarata inammissibile la pretesa azionata in relazione al periodo 2001-2003, era da reputarsi viziata da ultrapetizione.

2. La censura va disattesa per plurime concorrenti ragioni.

Essa risulta innanzitutto formulata mediante tecnica redazionale inappropriata, recando promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, senza adeguatamente specificare quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono invece essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dell’art. 360 c.p.c., comma 1, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016).

In realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione (che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto) posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso, positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. 15/12/2014 n. 26307; Cass. 24/10/2007 n. 22348). Sicchè il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario de sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

Nella specie, nonostante l’invocazione solo formale di violazioni o false applicazioni di norme (art. 115 c.p.c.), nella sostanza la censura investe l’accertamento compiuto dai giudici del merito in ordine alla inammissibilità del motivo di gravame con il quale era stata investita la statuizione di difetto della titolarità passiva in capo alla società appellata, emessa dal Tribunale in relazione al periodo anteriore al gennaio 2003, proponendo una lettura delle risultanze istruttorie diversa da quella fornita dal giudice del gravame e non consentita nella presente sede.

Peraltro, s’impone l’evidenza del difetto di specificità del motivo, che non reca la indicazione del contenuto degli atti su cui si fonda e della sede in cui risultino prodotti (visura ritenuta dalla Corte di merito tardivamente prodotta), nè del tenore degli atti processuali (ricorso di primo grado e memoria di costituzione) sui quali il motivo risulta modulato.

E’ bene, al riguardo, rammentare che, secondo i condivisi dicta di questa Cortè, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (vedi Cass. 13/11/2018 n. 29093).

La ricordata carenza non consente alla Corte di verificarne ex actis la fondatezza della critica e la circostanza, in coerenza con la tesi prospettata dal medesimo ricorrente, alla cui stregua compete esclusivamente all’attore la allegazione e la prova della titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio.

E detti principi rinvengono applicazione anche allorquando venga sollevata questione in relazione alla violazione della legge processuale, come nel caso di specie, in cui il ricorrente ha prospettato la violazione dell’art. 112 c.p.c. (senza peraltro, indicare le conseguenze che da detta violazione sarebbero scaturite, cfr. Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931), con riferimento ad una difformità fra il chiesto ed il pronunciato, per avere la Corte di merito rilevato la questione attinente alla concreta titolarità del rapporto che non era stata formulata dalla società nella memoria di costituzione di primo grado.

Invero, il riconoscere al giudice di legittimità il potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale non comporta certo il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino errores in procedendo. Ciò vuoi dire non solo che i vizi del processo non rilevabili d’ufficio possono esser conosciuti dalla Corte di cassazione solo se, e nei limiti in cui, la parte interessata ne abbia fatto oggetto di specifico motivo di ricorso, ma anche che la proposizione di quel motivo resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della Corte. Nemmeno in quest’ipotesi viene meno, in altri termini, l’onere per la parte di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, ora tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (vedi in motivazione Cass. S.U. 20/5/2012, nonchè Cass. 17/1/2014 n. 896, Cass. 30/9/2015 n. 19410).

3. Il secondo motivo concerne l’interpretazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, offerta dal giudice del gravame, in relazione alla quale si prospetta violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5.

Si critica la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., non avendo nessuna delle parti mai dedotto la rinnovazione del rapporto dal 2003 al 2007, come affermata dalla Corte di merito, nè essendo mai stata sollevata la questione della applicabilità alla fattispecie, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, al contratto di collaborazione coordinata e continuativa di durata annuale (“rinnovabile annualmente in mancanza di esplicita disdetta scritta)”, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 399/2008.

4. Al di là di ogni questione in ordine alla applicabilità alla fattispecie del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c. – in base al quale il giudice ha la possibilità di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè la pronunzia si collochi entro i limiti di cui all’art. 112 c.p.c. (vedi Cass. 24/7/2012 n. 12943) – anche tale motivo palesa le medesime carenze di specificità e di anomalia della tecnica redazionale riscontrati per il motivo precedente, che ne rendono palese l’inammissibilità, non essendo riportato, neanche nelle parti salienti, il contenuto degli atti processuali che hanno scandito il giudizio di merito.

5. Quanto al profilo con il quale si contestano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte in tema di accertamento della insussistenza dei requisiti della subordinazione in relazione al rapporto inter partes, si tratta di censura non ammissibile nella presente sede.

E’ noto invero che, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (vedi Cass. 5/11/2009 n. 23455, Cass. 4/5/2011 n. 9808). Con il ricorso per cassazione la parte non può, invero, rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (ex plurimis, vedi Cass. 7/12/2017 n. 29404).

Nello specifico, la Corte di merito ha congruamente espresso le ragioni del proprio convincimento dando atto della mancanza di allegazione e di prova da parte ricorrente, in ordine agli elementi qualificativi del rapporto in termini di locatio operarum.

6. Del pari inammissibile è il terzo motivo con il quale si prospetta violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, in riferimento alla domanda di risarcimento danni conseguente alla giusta causa di dimissioni dal rapporto inter partes, questione ritenuta assorbita dalla Corte distrettuale, per il mancato riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato.

Per contestare la congruità della decisione, di per sè scerva da vizi di ordine logico-giuridico, il ricorrente avrebbe dovuto specificamente riportare il contenuto degli atti e delle domande ivi contenute onde consentire lo scrutinio sulla rilevanza e decisività delle questioni prospettate.

In definitiva, alla stregua delle considerazioni sinora esposte, il ricorso, sotto tutti i profili delineati, non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.

Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020

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