Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8618 del 03/04/2017


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Cassazione civile, sez. I, 03/04/2017, (ud. 30/09/2016, dep.03/04/2017),  n. 8618

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24197/2015 proposto da:

S.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato CORRADO V. GIULIANO, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

B.E., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE TOMASELLI, giusta procura in calce al

ricorso;

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro

tempore, ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA, in persona del Presidente

pro tempore, MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro

tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

contro

MINISTERO DEGLI AFFARI REGIONALI E DELLE AUTONOMIE LOCALI, TUTTE

PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA

CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1292/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 09/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza depositata in data 9 settembre 2015 la Corte d’appello di Palermo, disattendendo l’appello principale e quello incidentale proposti da S.G. e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha confermato l’ordinanza con la quale il Tribunale di Palermo aveva accolto il ricorso proposto da B.E. e aveva dichiarato il S. sospeso dalla carica di deputato dell’Assemblea regionale siciliana, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, art. 8, con decorrenza dalla data di notifica, da parte del Commissario dello Stato al Consiglio regionale del provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 dicembre 2003.

2. La Corte territoriale ha iniziato col precisare: a) che il S. si era insediato quale deputato della 16^ legislatura dell’Assemblea regionale siciliana il 5 dicembre 2012; b) che il Presidente del Consiglio dei Ministri, preso atto della condanna del S. in relazione al reato di cui all’art. 323 c.p., aveva disposto la sua sospensione dalla carica di deputato, facendo decorrere il periodo di diciotto mesi dal 5 gennaio 2013, ossia dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 235 del 2012.

Per quanto ancora rileva, esaminando il merito della questione, la Corte d’appello ha ritenuto: a) che la disposta sospensione non avesse natura sanzionatoria, ma rappresentasse una misura operante sul piano amministrativo, al fine di salvaguardare, in via cautelare, le medesime esigenze assicurate dalla previsione della incandidabilità e della decadenza; b) che era ragionevole la diversità di disciplina in tema di elettorato passivo stabilita per le assemblee rappresentative nazionali e per quelle di regioni ed enti locali; c) che correttamente il giudice di primo grado aveva fatto decorrere la sospensione, in ciò modificando il Provvedimento originario, dalla data di notifica di quest’ultimo, anzichè dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 235 del 2012, giacchè la contraria interpretazione avrebbe finito per rendere meramente virtuale una parte del periodo di sospensione, in contrasto con l’esigenza di effettività dell’istituto; d) che la soluzione accolta era coerente con il rilievo che il provvedimento di sospensione era costitutivo dell’efficacia della misura e impediva che, nei casi di ritardo nell’emanazione del menzionato provvedimento, la sospensione potesse dispiegare i suoi effetti per un periodo inferiore a quello stabilito dalla legge.

3. Avverso tale sentenza, il S. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. Resistono con controricorso il Bandiera nonchè la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e l’Assemblea regionale siciliana. Nell’interesse del S. nonchè della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Interno e dell’Assemblea regionale siciliana sono state depositate memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente esaminata la questione, prospettata con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., dell’intervenuta cessazione della materia del contendere.

Secondo il ricorrente, tale conseguenza scaturirebbe dall’annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione, disposto dalla sentenza della 6^ sezione di questa Corte del 21 dicembre 2015, con riguardo alla decisione della Corte d’appello di Catania, che aveva confermato la condanna del S., in relazione al reato di cui all’art. 323 c.p..

Il rilievo è privo di fondamento.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la cessazione della materia del contendere presuppone, da un lato, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l’interesse alla richiesta pronuncia di merito e, dall’altro, che le parti formulino conclusioni conformi. Ne consegue che l’allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, a cui spetterà l’eventuale dichiarazione dell’avvenuto soddisfacimento del diritto azionato ovvero la pronuncia sul merito dell’azione (v., ad es., Cass. 16 marzo 2015, n. 5188).

Ora, nel caso di specie, anche in ragione degli interessi di rilievo pubblicistico sottesi alla controversia, appare necessario rilevare, nell’esercizio della doverosa verifica del venir meno delle ragioni della controversia, che l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per intervenuta prescrizione del reato non comporta il superamento delle ragioni che avevano indotto il Bandiera a promuovere il ricorso del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, ex art. 22.

In realtà, l’accertamento della decorrenza della misura della sospensione assume rilievo, con riguardo alla posizione degli interessati e alle posizioni giuridiche connesse alla titolarità del pubblico ufficio, sia per il periodo iniziale, sia per verificare se l’eventuale sentenza di rigetto dell’impugnazione sia intervenuta nel termine di diciotto mesi di cui al D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 8, comma 3.

2. Ciò posto, con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, per avere la Corte territoriale ritenuto che il giudice ordinario abbia il potere di modificare il provvedimento amministrativo di sospensione, con riguardo alla sua decorrenza.

La doglianza è infondata.

Come di recente ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, con l’ordinanza 28 maggio 2015, n. 11131, alla stregua di un orientamento consolidato, in materia di contenzioso elettorale amministrativo, sono devolute al giudice ordinario le controversie concernenti l’ineleggibilità, la decadenza e l’incompatibilità, in quanto volte alla tutela del diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato passivo; nè la giurisdizione dei giudice ordinario incontra limitazioni o deroghe per il caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perchè anche in tale ipotesi la decisione verte non sull’annullamento dell’atto amministrativo, bensì sul diritto soggettivo perfetto inerente all’elettorato attivo o passivo.

Nel caso di specie, l’accertamento della posizione soggettiva dell’interessato passa attraverso la verifica della rispondenza a legge della decorrenza della sospensione dalla carica indicata nell’atto amministrativo, con la conseguenza che il giudice ordinario non ha affatto travalicato i suoi poteri individuando, alla luce del sistema normativo, una data diversa da quella indicata nell’atto stesso.

a. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, artt. 7 e 8, sempre con riferimento alla decorrenza del provvedimento di sospensione, in quanto – osserva il ricorrente -, il provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri si limita ad accertare i presupposti della sospensione, che opera di diritto. Diversamente opinando, si attribuirebbe all’organo amministrativo il potere discrezionale di determinare i tempi di applicazione della sospensione.

La doglianza è destituita di fondamento.

Non è la disciplina vigente, così come interpretata dalla sentenza impugnata, a introdurre elementi di incertezza, incompatibili con la mera funzione di accertamento delle cause di sospensione, ma la realtà, che richiede inevitabili tempi di verifica di queste ultime o che si può caratterizzare per artificiose dilatazioni di tali tempi.

La corretta esegesi accolta dalla Corte territoriale, al contrario, proprio perchè neutralizza siffatte variabili, risulta assolutamente in linea con la finalità della disciplina, destinata a proteggere, a fronte della diffusa illegalità nella pubblica amministrazione, gli interessi costituzionali protetti dall’art. 54 Cost., comma 2 e art. 97 Cost., comma 2.

Essa, infatti, consente di evitare, in caso di ritardo nell’emanazione dell’atto amministrativo di accertamento della causa di sospensione, che una parte di quest’ultima resti confinata sul piano virtuale, in contrasto con le esigenze di effettività dell’istituto.

Proprio perchè l’interpretazione qui recepita consente, nei limiti della durata della carica, di garantire che la sospensione operi concretamente per tutta la durata indicata dal legislatore, deve ritenersi che essa – e non quella propugnata dal ricorrente – sia la più rispondente alla automaticità della misura interinale della quale si discute.

Proprio in tale prospettiva si coglie la qualificazione dell’atto amministrativo come costitutivo dell’efficacia della sospensione, secondo quanto ritenuto da Cass. 8 luglio 2009, n. 16062, a proposito della sospensione di diritto dalla carica di consigliere comunale, a seguito di sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti previsti dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 59, comma 1, lett. a).

4. Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 8, in particolare denunciando l’illegittimità costituzionale della norma, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., dal momento che la L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 64, lett. m), aveva demandato al legislatore di “disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui all’art. 63 in caso di sentenza definitiva di condanna”.

La questione è manifestamente infondata.

Come di recente confermato da Corte Cost. 16 dicembre 2016, n. 276, della L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 64, lett. m), va interpretato nel senso che il periodo che segue “decadenza di diritto” (ossia, “dalle cariche di cui al comma 63 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica”) si riferisce solo alla decadenza e non alla sospensione.

A tale conclusione conduce il rilievo: a) che sin dall’adozione della L. n. 55 del 1990, l’ordinamento ha sempre previsto la sospensione dalla carica politica per provvedimenti (relativi ai reati ostativi) precedenti la condanna definitiva e la decadenza dalla carica al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna; b) che l’intenzione di innovare radicalmente il regime della sospensione e della decadenza e, in definitiva, di “ammorbidire” gli strumenti di prevenzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione non trova riscontro nella chiara lettera della legge delega, che, al contrario, in altri luoghi, manifesta espressamente tale obiettivo (art. 1, comma 64, lettere a, b, f, h); c) che l’abolizione della sospensione cautelare e della decadenza dalle cariche elettive contrasterebbe sia con la finalità generale della L. n. 190 del 2012, sia con quella specifica del comma 64, perchè segnerebbe un arretramento negli strumenti di prevenzione dell’illegalità nella pubblica amministrazione; d) che la tesi contraria, non favorirebbe l’omogeneità del regime della sospensione con quello dell’incandidabilità ma, al contrario, condurrebbe a una evidente disarmonia, in quanto la condanna definitiva produrrebbe un effetto definitivo (l’incandidabilità), se emessa prima dell’elezione e un effetto provvisorio (la sospensione) se emessa dopo l’elezione; e) che non è plausibile che il legislatore delegante intendesse abolire un istituto (la sospensione cautelare) di cui in diverse occasioni la Corte costituzionale ha riconosciuto la piena legittimità in quanto rispondente a vari interessi costituzionali (v., prima della L. n. 190 del 2012, le sentenze n. 352 del 2008, n. 25 del 2002, n. 141 del 1996 e n. 407 del 1992; dopo la legge delega, le sentenze n. 236 del 2015 e n. 118 del 2013), definendolo anche effetto “fisiologico” della condanna non definitiva (sentenza n. 141 del 1996); f) che, secondo l’interpretazione contraria, il soggetto titolare di carica elettiva, condannato in via definitiva per un reato ostativo, sarebbe sospeso dalla carica e, dunque, potrebbe eventualmente riprendere la propria funzione nel corso dello stesso mandato, se di durata maggiore della sospensione, ma non potrebbe candidarsi alle elezioni successive perchè la condanna definitiva fa scattare l’incandidabilità.

5. Con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 7, comma 1 e art. 8, comma 1, in particolare denunciando il contrasto della previsione con gli artt. 2, 3, 25, 51, 97 Cost. e con gli artt. 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Ciò sia perchè la disciplina comporta l’applicazione retroattiva di una sanzione in assenza di condanna definitiva, sia, in generale, perchè si traduce comunque in una mancanza di certezza delle regole giuridiche in tema di elettorato passivo.

La citata Corte Cost. n. 276 del 2016 ha escluso che la sospensione della quale si discute abbia natura penale, alla luce dei parametri individuati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in particolare confrontandosi con quelli attinenti alla sostanza punitiva della misura e alla gravità del sacrificio imposto. Risultano manifestamente infondati anche i rilievi che investono l’incertezza applicativa delle regole in tema di elettorato passivo, dal momento che, nel caso di specie, una volta escluso che la sospensione rappresenti una sanzione ulteriore per la condotta costituente illecito penale, si tratta solo di prendere atto che il legislatore, con norma che non presenta alcun margine di incertezza interpretativa, ha operato un ragionevole bilanciamento tra il diritto di elettorato passivo e le sopra ricordate esigenze di garantire la moralità pubblica nell’esercizio dell’amministrazione, ritenendo che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva (Corte cost. n. 236 del 2015).

6. Con il quinto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 7, comma 1 e comma 8, comma 1, in particolare denunciando il contrasto della previsione con gli artt. 3, 51, 76 e 77 Cost., con riguardo alla disparità di trattamento, in tema di elettorato passivo, tra componenti del Parlamento nazionale e componenti dell’Assemblea regionale siciliana.

Anche tale questione è stata affrontata da Corte Cost. 276 del 2016, la quale, dopo avere richiamato la propria sentenza n. 407 del 1992, ha ribadito che non appare configurabile, sotto il profilo della disparità di trattamento, un raffronto tra la posizione dei titolari di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali e quella dei membri del Parlamento e del Governo, essendo evidente il diverso livello istituzionale e funzionale degli organi costituzionali ora citati, con la conseguenza che non può ritenersi irragionevole la scelta operata dal legislatore di dettare le norme impugnate con esclusivo riferimento ai titolari di cariche elettive non nazionali.

7. In conclusione, il ricorso va rigettato. In ragione della novità delle questioni trattate ritiene il Collegio che ricorrano i presupposti per la compensazione delle spese.

PQM

Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2017

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