Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8605 del 07/05/2020

Cassazione civile sez. I, 07/05/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 07/05/2020), n.8605

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8509/2019 proposto da:

D.A., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Giuseppe Brigante, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 29/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/02/2020 dal Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnato per cassazione il decreto del Tribunale di Ancona del 29 gennaio 2019. Con quest’ultima pronuncia è stato negato che al ricorrente, D.A., proveniente dal (OMISSIS), potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed è stato altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto alcuna difesa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo oppone la nullità del decreto per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 1, 11, lett. a) e comma 13 e artt. 737, 135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6.

Il secondo motivo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il terzo mezzo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost., L. n. 881 del 1977, art. 11,D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32 e art. 35 bis, comma 11, lett. a) e dell’art. 16 dir. n. 2013/32/UE, nonchè degli artt. 2, 3 di una imprecisata legge, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 6, 7 e 14 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 3, art. 19, comma 2.

Il quarto motivo prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 13 CEDU, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 dir. 2013/32/UE.

2. – Il Tribunale ha in sintesi affermato: che le dichiarazioni del richiedente, quand’anche credibili, risultavano confinate nei limiti di una vicenda di vita privata, visto che i timori espressi dallo stesso concernevano la necessità di sostenere la famiglia di origine tuttora in patria; che, in ogni caso, emergeva l’insussistenza di una grave violazione dei diritti umani e che nel paese di provenienza non risultavano segnalate compromissioni all’esercizio dei diritti umani tali da poter essere poste a fondamento di una domanda di protezione umanitaria; che, con riferimento specifico al riconoscimento dello status di rifugiato, l’istante non aveva “allegato di essere affiliato politicamente o di avere preso parte all’attività di associazioni per i diritti civili, nè di appartenere ad una minoranza etnica e/o religiosa, o di altro tipo, oggetto di persecuzione”; che non emergevano circostanze tali da far temere che il ricorrente potesse essere sottoposto a pena capitale o a un trattamento inumano o degradante nel paese di origine, posto che, tra l’altro, nel paese di provenienza erano attive istituzioni che, in caso di effettivo e concreto pericolo, sarebbero state comunque in grado di proteggerlo; che la regione da cui proveniva il ricorrente doveva ritenersi sotto il controllo dell’autorità statuali e non si ravvisava la presenza di un conflitto armato generalizzato e persistente, idoneo a costituire, per i civili residenti, pericolo per la vita o per la loro incolumità; che ai fini della domanda di protezione internazionale non rilevava la persecuzione o il danno grave che fossero posti in atto nel paese di transito, e ciò avendo specifico riguardo a quanto previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g); che in capo alla richiedente non si ravvisavano condizioni individuali di elevata vulnerabilità, giacchè quanto dallo stesso prospettato non comportava l’impossibilità di soddisfare bisogni di vita personale in caso di rimpatrio; lo stesso istante aveva prodotto documentazione medica risalente e non vi erano aggiornamenti del quadro clinico tali da far ritenere aggravata la situazione che faceva capo allo stesso D.; che comunque lo straniero, anche se irregolare, aveva comunque il diritto alle prestazioni sanitarie nelle strutture pubbliche e in quelle private accreditate presso il S.S.N.; che non vi erano ostacoli alla somministrazione, allo stesso straniero, dei trattamenti terapeutici a norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 36.

2.1. – Il primo mezzo è infondato.

Il ricorrente denuncia a più riprese, nel corpo del motivo di censura, la carenza argomentativa di cui sarebbe affetto il provvedimento impugnato: ciò che emerge, del resto, fin dalla rubrica dell’articolo, in cui si fa menzione non già di violazioni o false applicazioni di legge, quanto, piuttosto, di un vizio di “nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Come è noto, nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Il provvedimento impugnato non presenta alcuna di tali radicali carenze: il percorso argomentativo seguito dal Tribunale è perfettamente comprensibile; nè ricorre nella fattispecie un’apparenza di motivazione, per tale dovendosi intendere quella motivazione che, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232). Nemmeno può pretendersi di misurare la motivazione con le risultanze documentali acquisite al giudizio, giacchè, come si è detto, il vizio motivazionale prescinde dal raffronto tra il provvedimento impugnato e le risultanze probatorie.

2.2. – Il secondo motivo è pure infondato.

Viene lamentato il mancato esame delle conseguenze dello stato di abbandono per un minorenne, nel contesto dell’attuale situazione sociale, economica e politica del Burkina Faso e la verifica della effettività della protezione statuale in casi siffatti.

Va nondimeno considerato che, per un verso, l’odierno istante, nato nel 1997, non è più minorenne (onde il rischio da lui prospettato, correlato alla minore età, risulta essere non più attuale) e che, per altro verso, il Tribunale, con accertamento di fatto non sindacabile nella presente sede, ha dato atto che nel paese di rimpatrio le istituzioni sono comunque idonee ad assicurare al richiedente la protezione di cui lo stesso necessitasse (pag. 6 del decreto impugnato). Il denunciato mancato esame risulta essere quindi, da un lato, privo di decisività e, dall’altro, insussistente.

2.3. – Il terzo motivo è inammissibile.

Esso consta di plurime censure di violazione della legge sostanziale e processuale trattate confusamente. E’ da rilevare, in proposito, che l’articolazione di un singolo motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, costituisce ragione d’inammissibilità dell’impugnazione quando la sua formulazione non consente o rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate (Cass. 17 marzo 2017, n. 7009); in particolare, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26790). Il motivo è inoltre carente di autosufficienza. In esso sembra difatti sia prospettato un vizio processuale per la mancata audizione del ricorrente (anche se la censura è svolta facendo impropriamente riferimento alla giurisprudenza di questa S.C. circa la necessità di procedere alla fissazione dell’udienza in caso di mancata disponibilità della videoregistrazione del colloquio avanti alla commissione territoriale): la doglianza è peraltro svolta senza indicare gli atti del procedimento di merito da cui sarebbe possibile evincere la circostanza della mancata fissazione dell’udienza o della mancata audizione (pagg. 43 ss. del ricorso). Mette conto di rilevare, in proposito, che la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181): la prospettazione di tali errori non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (così Cass. 13 marzo 2018, n. 6014: cfr. pure: Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 8 giugno 2016, n. 11738; Cass. 30 settembre 2015, n. 19410).

2.4. – Il quarto motivo è inammissibile.

Esso parrebbe lamentare il mancato adempimento, da parte del giudice del merito, del dovere di cooperazione istruttoria. La censura, oltre ad essere del tutto generica, manca di misurarsi col provvedimento impugnato, il quale reca una puntuale ricognizione della situazione del Burkina Faso, specificamente attuata, secondo quanto si legge nel provvedimento impugnato (pag. 3), in conformità dell’art. 8.2 della dir. 2011/95/UE circa il compito dello stato membro di acquisire informazioni precise e aggiornate da fonti pertinenti quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Ufficio Europeo di sostegno per l’asilo: ricognizione condotta all’evidente scopo di rendere una decisione sulla domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c). Il ricorrente manca, del resto, finanche di indicare quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso. E la censura svolta si palesa comunque non concludente avendo riguardo a quei profili della vicenda del ricorrente che hanno natura privata. Infatti, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105) e anche nella protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e lett. b), rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275). Tutto ciò significa che, a fronte di fatti o situazioni che restano confinati nella sfera privata (che non assumono cioè la dimensione della persecuzione o del danno grave, a mente del D.Lgs. n. 251 del 2007) non ha senso dolersi del mancato accertamento officioso della situazione politica, economica e sociale del paese di rimpatrio.

3. – Il ricorso è conclusivamente respinto.

4. – Nulla è ovviamente da statuire in punto di spese.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020

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