Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8604 del 07/05/2020

Cassazione civile sez. I, 07/05/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 07/05/2020), n.8604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7723/2019 proposto da:

J.P., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria

Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Giuseppe Brigante, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 21/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/02/2020 dal Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnato per cassazione il decreto del Tribunale di Ancona del 21 gennaio 2019. Con quest’ultima pronuncia è stato negato che al ricorrente, J.P., proveniente dalla Nigeria, potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed è stato altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha notificato controricorso, ma ha depositato un “atto di costituzione” in cui non è svolta alcuna difesa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo oppone la nullità del decreto per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 1, comma 11, lett. a), e comma 13 e artt. 737,135 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6.

Il secondo motivo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il terzo mezzo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost., L. n. 881 del 1977, art. 11,D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32 e art. 35 bis, comma 11, lett. a) e dell’art. 16 dir. n. 2013/32/UE, nonchè degli artt. 2, 3 di una imprecisata legge, anche in relazione all’art. 115 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 6, 7 e 14 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 3, art. 19, comma 2.

Il quarto motivo prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 13 CEDU, 47 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 46 dir. 2013/32/UE.

2. – Il Tribunale ha in sintesi affermato: che il racconto del richiedente non era credibile, non avendo l’odierno istante circostanziato le vicende narrate, avendo fornito indicazioni contraddittorie riguardo al fatto che egli parlava la lingua hausa, avendo lo stesso ritrattato più volte, avanti alla Commissione, le proprie affermazioni ed avendo infine fornito irragionevoli spiegazioni circa le tradizioni e le prassi in uso presso la propria gente, le quali, tra l’altro, non trovavano conferma nelle fonti; che non emergevano elementi da cui desumere la sussistenza di una grave e individuale minaccia nei confronti del richiedente, giacchè questi aveva riferito di un solo episodio di esposizione al rischio e quanto da lui narrato non era comunque attendibile; che dalle informazioni acquisite doveva escludersi che i territori posti a sud della Nigeria fossero coinvolti in un conflitto armato implicante in grado di violenza talmente generalizzato da costituire per i civili un rischio rilevante a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 360, n. 5; che non si ravvisavano condizioni individuali di elevata vulnerabilità, giacchè ove pure le situazioni rappresentate dal richiedente fossero state credibili, esse non avrebbero comportato l’impossibilità di soddisfare i bisogni primari in caso di rimpatrio; che, in ogni caso, nel paese di provenienza non erano segnalati pericoli incidenti sui diritti umani e, infine, il richiedente non aveva dato prova di aver intrapreso un percorso di integrazione sociale e lavorativa in Italia.

2.1. – Il primo motivo è infondato.

Il ricorrente denuncia a più riprese, nel corpo del motivo di censura, la carenza argomentativa di cui sarebbe affetto il provvedimento impugnato: e ciò emerge, del resto, fin dalla rubrica dell’articolo, in cui si fa menzione non già di violazioni o false applicazioni di legge, quanto, piuttosto, di un vizio di “nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Come è noto, nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Il provvedimento impugnato non presenta alcuna di tali radicali carenze: il percorso argomentativo seguito dal Tribunale è perfettamente comprensibile; nè ricorre nella fattispecie un’apparenza di motivazione, per tale dovendosi intendere quella motivazione che, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232). Nemmeno può pretendersi di misurare la motivazione con le risultanze documentali acquisite al giudizio, giacchè, come si è detto, il vizio motivazionale prescinde dal raffronto tra il provvedimento impugnato e le risultanze probatorie.

2.2. – Il secondo motivo è pure infondato.

Viene lamentato il mancato esame del certificato di nascita prodotto dall’istante, il quale attesterebbe che J.P. sarebbe originario del Borno State: regione la cui situazione sociale, economica e politica non è stata presa in considerazione dal giudice di prime cure.

Il vizio denunciato, oltre ad essere riferito non ad un fatto, ma ad un documento, è privo di decisività, ove si consideri che quel che rileva non è il luogo di nascita del ricorrente, quanto piuttosto l’area della Nigeria da cui lo stesso è migrato; sul punto, il decreto impugnato dà atto che l’odierno istante proviene dall’Edo State: e ciò riflette un accertamento di fatto devoluto al giudice del merito, non sindacabile in questa sede.

2.3. – Il terzo motivo è inammissibile.

Esso consta di plurime censure di violazione della legge sostanziale e processuale trattate confusamente. E’ da rilevare, in proposito, che l’articolazione di un singolo motivo in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, costituisce ragione d’inammissibilità dell’impugnazione quando la sua formulazione non consente o rende difficoltosa l’individuazione delle questioni prospettate (Cass. 17 marzo 2017, n. 7009); in particolare, l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato, come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26790). Il motivo è inoltre ambiguo e carente di autosufficienza. In esso sembra difatti sia prospettato un vizio processuale per la mancata audizione del ricorrente (anche se la censura è svolta facendo impropriamente riferimento alla giurisprudenza di questa S.C. circa la necessità di procedere alla fissazione dell’udienza in caso di mancata disponibilità della videoregistrazione del colloquio avanti alla commissione territoriale): la doglianza è peraltro svolta senza indicare gli atti del procedimento di merito da cui sarebbe possibile evincere la circostanza della mancata fissazione dell’udienza o della mancata audizione (pagg. 35 ss. del ricorso); viene poi dedotto, in contraddittorietà con la censura appena richiamata, che lo stesso istante sarebbe stato bensì sentito, ma da un giudice onorario, e non dal giudice relatore ed estensore del provvedimento: e anche qui manca alcun richiamo agli atti processuali che darebbero conto di tale evenienza (pag. 39 del ricorso). Mette conto di rilevare, in proposito, che la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181): la prospettazione di tali errori non esclude, infatti, che preliminare ad ogni altro esame sia quello concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando ne sia stata positivamente accertata l’ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (così Cass. 13 marzo 2018, n. 6014: cfr. pure: Cass. 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 8 giugno 2016, n. 11738; Cass. 30 settembre 2015, n. 19410).

2.4. – Il quarto motivo è inammissibile.

Esso parrebbe lamentare il mancato adempimento, da parte del giudice del merito, del dovere di cooperazione istruttoria. La censura, oltre ad essere del tutto generica, manca di misurarsi col provvedimento impugnato, il quale reca una puntuale ricognizione della situazione della Nigeria, specificamente attuata, secondo quanto si legge nel provvedimento impugnato (pag. 3), in conformità dell’art. 8.2 della dir. 2011/95/UE circa il compito dello stato membro di acquisire informazioni precise e aggiornate da fonti pertinenti quali l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Ufficio Europeo di sostegno per l’asilo: ricognizione condotta all’evidente scopo di rendere una decisione sulla domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c). Il ricorrente manca, del resto, finanche di indicare quali siano le informazioni che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso. E la censura svolta si palesa comunque non concludente avendo riguardo ad alcune delle forme di protezione invocate. Infatti, “la riferibilità soggettiva e individuale del rischio di subire persecuzioni o danni gravi rappresenta un elemento costitutivo del rifugio politico e della protezione sussidiaria dell’art. 14, ex lett. a) e b), escluso il quale dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva, non può riconoscersi il relativo status” (Cass. 17 giugno 2018, n. 16925, in motivazione). In altri termini, ove vengano in questione le ipotesi del rifugio politico e della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e lett. b), in cui rileva, se pure in diverso grado, la personalizzazione del rischio oggetto di accertamento (cfr. Cass. 20 marzo 2014, n. 6503; Cass. 20 giugno 2018, n. 16275), non vi è ragione di attivare i poteri di istruzione officiosa se questi sono finalizzati alla verifica di fatti, situazioni, o condizioni giuridiche che, in ragione della non credibilità della narrazione del richiedente, devono reputarsi estranei alla vicenda personale di questo.

3. – Il ricorso è conclusivamente respinto.

4. – Non avendo il Ministero svolto vere e proprie difese, non vi sono spese da liquidare in favore della parte vittoriosa in giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2020

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