Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8583 del 26/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 26/03/2021, (ud. 21/01/2021, dep. 26/03/2021), n.8583

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30494-2019 proposto da:

F.LLI B. SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE, 28, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO BUONFIGLIO, rappresentata e difesa

dagli avvocati MARIO MARTELLI, GIOVANNI CALICETI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2128/3/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE dell’EMILIA ROMAGNA, depositata l’11/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 21/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE

CATALDI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La F.lli B. s.r.l. ha impugnato un avviso di accertamento, in materia d’Iva, relativo al periodo di imposta 2008, con il quale l’Agenzia dell’entrate – a seguito di processo verbale nel quale era stato riscontrato l’utilizzo, da parte della contribuente, di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti – è stata recuperate a tassazione la maggiore imposta dovuta.

La Commissione tributaria provinciale di Bologna ha parzialmente accolto il ricorso della contribuente e la Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, con la sentenza n. 2128/3/2018, depositata l’11 settembre 2019, ha accolto l’appello dell’Ufficio.

Il giudice di appello ha ritenuto che l’Ufficio avesse assolto all’onere della prova sia in ordine all’insussistenza di struttura organizzativa dei soggetti emittenti, sia in ordine alla consapevolezza della contribuente di essere coinvolta in una frode Iva.

La CTR ha apprezzato, in ordine alla natura “cartiera” delle società fornitrici, la circostanza che esse fossero prive di beni strumentali e di strutture idonee a svolgere le attività commerciali, oltre a fare capo alle medesime persone. E la stessa CTR ha anche evidenziato l’anomala circostanza – rispetto alla normalità degli scambi commerciali e dell’oculata valutazione del rischio d’impresa, anche in considerazione del fatto che si trattava del primo rapporto commerciale tra le società- che il pagamento delle merci fatturate fosse avvenuto “incontestatamente” prima della consegna di queste ultime.

In particolare, poi, in ordine all’inesistenza delle operazioni ed alla consapevolezza della contribuente, il giudice a quo ha valorizzato le dichiarazioni rese dai soci delle società fornitrici, relative sia al fatto che queste ultime erano state da loro costituite con l’unico fine di emettere fatture per operazioni inesistenti; sia alla circostanza che dalle stesse società veniva restituita alla contribuente cessionaria, che era una delle utilizzatrici delle “cartiere”, l’Iva pagata sulle relative fatture, previa una detrazione del compenso concordato per l’operazione, pari al 3% della stessa imposta.

Propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, la società contribuente; resiste con controricorso l’Ufficio.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con l’unico motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115 e 116 c.p.c.; del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39; del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109; del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 21 e 54; e degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., per non avere la CTR adeguatamente valutato se la prova presuntiva offerta dall’Ufficio in ordine alle operazioni assunte inesistenti fosse dotata di sufficiente pregnanza indiziaria. Deduce la ricorrente che il giudice d’appello avrebbe omesso di esaminare gli argomenti e gli elementi di prova offerti dalla parte contribuente, anche in ordine al pagamento delle forniture con mezzi tracciabili e non anticipato, limitandosi a condividere le posizioni dell’Ufficio.

Lamenta poi la ricorrente che sarebbe mancata la prova della sua consapevolezza e del suo coinvolgimento nella frode, oltre che dei soggetti terzi interponenti e reali fornitori, diversi dai cedenti indicati nelle fatture.

Il ricorso è inammissibile sotto diversi aspetti, ciascuno sufficiente alla relativa declaratoria.

1.1. Invero la ricorrente, pur denunciando formalmente la pretesa violazione di una serie di norme in tema di accertamento delle imposte dirette e indirette, di fatturazione e di distribuzione dell’onere della prova, mira, nel complesso e nella sostanza del mezzo, ad una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito, sulla base dell’esame delle deduzioni e delle prove addotte dalle parti, a ritenere provati sia l’inesistenza soggettiva delle operazioni che il consapevole coinvolgimento della contribuente nella frode commessa dai suoi fornitori.

Dunque la ricorrente, pur deducendo, apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI, 4 luglio 2017, n. 8758).

Al riguardo, questa Corte ha più volte affermato il principio secondo il quale “in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità”, se non nei limiti del vizio di motivazione come indicato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 195/2016; Cass. n. 26110/2015), nel caso di specie non denunciato. Ed è stato quindi affermato che “Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (Cass. n. 7394/2010).

Pertanto, laddove la deduzione della violazione di legge sia solo formale, l’oggetto del ricorso non è più l’analisi e l’applicazione delle norme, bensì l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerente alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315), il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, nei limiti nei quali quest’ultimo sia consentito (Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2019, n. 31546; Cass., Sez. U., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054).

1.2. Inammissibile è anche, in particolare, la denuncia della pretesa violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., proposta contestualmente dalla ricorrente, senza peraltro un’adeguata differenziazione delle relative censure, sebbene tra loro ontologicamente differenti e non conciliabili.

Infatti, “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).

Nè comunque, nel caso di specie, vi è stata inversione dell’onere della prova, che il giudice di appello ha imputato all’Ufficio, dando atto che quest’ultimo lo ha assolto, in ordine all’inesistenza di struttura organizzativa dei soggetti emittenti ed alla consapevolezza della contribuente cessionaria di avere preso parte alla frode.

Del tutto generica, e quindi inammissibile, è inoltre la pretesa violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., di fatto limitata all’evocazione di tali parametri normativi.

1.3. Quanto poi alla pretesa violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., la relativa censura è inammissibile, in quanto “In sede di legittimità è possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., solo allorchè ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso.” (Cass., Sez. 6 – 3,Ordinanza n. 3541 del 13/02/2020), fattispecie che non è stata denunciata e che comunque non ricorre nel caso di specie.

Nè, comunque, può essere censurata in sede di legittimità la scelta operata dal giudice del merito – ai fini della valutazione della pregnanza di un determinato elemento indiziario, come anche di un coacervo di elementi – circa la scelta e la valutazione degli elementi, rientrando tali attività (di apprezzamento e di valutazione dell’idoneità degli elementi presuntivi) nei poteri del giudice del merito, incensurabili in sede di legittimità, se sorretti da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass., Sez. VI, 14 novembre 2019, n. 29540; Cass., Sez. LH, 16 maggio 2017, n. 12002). Così come è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., Sez. VI, 17 gennaio 2019, n. 1234).

Ferme tali premesse, deve peraltro rilevarsi che ulteriore ragione di inammissibilità deriva dalla circostanza che il motivo neppure attinge interamente il ragionamento inferenziale attraverso il quale il giudice a quo ha ritenuto che l’Amministrazione avesse assolto all’onere probatorio, giacchè nel corpo del motivo non si contesta specificamente la rilevanza indiziaria delle dichiarazioni (in ordine al ruolo svolto dalla contribuente nel contesto delle operazioni controverse) rese dai terzi che hanno costituito le società fornitrici. In questo modo, la censura rimane astratta non solo con riferimento a tale specifico elemento, ma anche al contributo che esso arreca alla valutazione di sintesi del complesso degli ulteriori dati, che possono rafforzarsi e trarre vigore l’uno dall’altro, in un rapporto di vicendevole completamento, ai fini dell’affermazione della presunzione semplice.

1.4. Tanto meno è ammissibile la censura, proposta sotto il profilo della pretesa violazione di legge, secondo la quale il giudice di appello non avrebbe preso in esame mezzi di prova dedotti da parte contribuente, atteso che il giudice del merito è tenuto ad evidenziare le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragare la decisione adottata, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi. (Cass., Sez. V, 30 gennaio 2020, n. 2153).

2. L’unico motivo del ricorso è quindi inammissibile.

Ferma dunque tale conclusione, deve darsi atto, per completezza, che comunque esso è anche infondato.

Invero, secondo questa Corte, “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto.” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020).

Nello stesso senso, si è detto che “In tema di detrazione dell’IVA correlata ad operazioni inesistenti, la prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte giustizia 22 ottobre 2015, C-277/14), può essere fornita dall’Amministrazione anche mediante presunzioni – come espressamente prevede il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2 – valorizzando, nel quadro indiziario, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata alla predetta esecuzione, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione.” (Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020; conformi Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019; Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018; Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018).

Nell’ambito del medesimo orientamento, si è altresì argomentato che “Invero, per questa Corte, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione l’IVA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquisto il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere (in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015, causa C-277/14 PPUK; anche 15 luglio 2015, causa C-159/14 Koela-N; 15 luglio 2015, causa C-123/14 Itales; 13 febbraio 2014 in causa C-18/13 Maks Pen Eood; 21 giugno 2012, in causa C-80/11 e C-142/11, Mahageben et David;), con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873). Pertanto, in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613).” (Cass., 30 dicembre 2019, n. 34723, cit. in motivazione).

Ed ancora, a proposito delle modalità dell’onere imposto all’Amministrazione, è stato chiarito che “Quanto al “tipo” di prova, essa può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova “certa” e incontrovertibile di ogni operazione e di ogni dettaglio di esse.” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21104 del 24/08/2018).

In ordine, poi, alla prova contraria offerta dal contribuente, è stato precisato che “Priva di rilievo è invece sia la prova sulla regolarità formale delle scritture e sull’effettività dei pagamenti, sia quella sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perchè i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, trattandosi le prime di circostanze già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perchè riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (v. Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 428 del 14/01/2015; Cass. n. 29002 del 05/12/2017; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14).” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21104 del 24/08/2018).

La possibilità che l’Amministrazione assolva all’onere della prova, in ordine alla circostanza che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, anche mediante elementi indiziari, è stata dunque già affermata costantemente da questa Corte, anche in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia (cfr. i precedenti sinora citati, tra i quali in particolare Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020, cit., in motivazione, al punto 14, con riferimento a Corte giustizia, 22 ottobre 2015, C-277/14; Cass., 30 dicembre 2019, n. 34723, cit., in motivazione, punto 3.2.; Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21104 del 24/08/2018, cit., in motivazione, al punto 3.2.; in generale, in ordine alla circostanza che la Dir. CE n. 2006/112/CEE, art. 273, non esclude che l’imponibile Iva possa essere accertato ricorrendo a presunzioni semplici, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione, cfr. Cass., 04/04/2019, n. 9453 e Cass. 02/04/2020, n. 7655, con riferimento a Corte giustizia, 05/10/2016, C.-576/15, Maya Marinova ET; Corte giustizia, 20/03/2018, C.-524/15, Luca Menci; Corte giustizia 21/11/2018, C.-648/16, Fortunata Silvia Fontana).

Del resto, la stessa Corte giustizia, 22 ottobre 2015, C-277/14, nei punti 51 e 52, considera che la determinazione delle misure che, in una fattispecie concreta, possono essere ragionevolmente imposte ad un soggetto passivo che intenda esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA per assicurarsi che le sue operazioni non si iscrivano in un’evasione commessa da un operatore a monte dipende, essenzialmente, dalle circostanze di detta fattispecie, e quindi non esclude a priori che lo stesso soggetto passivo possa vedersi obbligato, quando disponga di indizi che consentono di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, ad assumere informazioni sull’operatore presso il quale intende acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità.

La stessa pronuncia pertanto (ferma restando l’imputazione all’Ufficio dell’onere di dimostrare “senza esigere dal soggetto passivo verifiche che non gli incombono, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto”) considera che, in relazione alla specifica fattispecie concreta, non sia irrilevante la presenza di indizi che consentivano al contribuente di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione.

E’ stato poi, in particolare, rilevato che “In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione è tenuta a provare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA, senza che sia necessaria la prova della partecipazione all’evasione (v. Corte Giust. Bonik, C-285/11; Corte Giust, Ppuh, C- 277/14);

– Detta prova può ritenersi raggiunta qualora l’Amministrazione fornisca attendibili indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice, come prevede per l’IVA il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (v. Cass. n. 14237 del 2017; Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 10414 del 2011; Corte Giust. Kittel, C-439/04; Corte Giust. Mahageben e David, C-80/11 e C-142/11);” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020, in motivazione, pag. 8 s.).

Ed è stato quindi concluso che “In tema di IVA, la volontaria utilizzazione di documentazione fiscale non corrispondente alla realtà economica, configurando nei confronti del contribuente a partecipazione ad una frode fiscale, gli impedisce di avvalersi del principio della tutela del terzo di buona fede, così come delineato dalla giurisprudenza unionale (cfr. CGCE 6 luglio 2009, in cause riunite C-439/04 e C-440/04) e preclude, quindi, la detraibilità dell’imposta risultante dalle fatture. ” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 17335 del 19/08/2020; sull’indetraibilità, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, cfr. altresì Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 15288 del 17/07/2020).

Nel caso di specie, la CTR ha ritenuto che l’Ufficio avesse assolto all’onere della prova sia in ordine alla natura “cartiera” delle società emittenti, la cui struttura era priva della minima dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione delle prestazioni; sia relativamente non solo alla consapevolezza (in termini di conoscenza o conoscibilità, ovvero di elementi che avrebbero potuto far ragionevolmente sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione), ma allo stesso coinvolgimento diretto della contribuente nella frode.

In questo senso, infatti, il giudice d’appello ha valorizzato, ai fini della verifica dell’assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’Ufficio, le dichiarazioni dei terzi soci e gestori delle società che figuravano quali fornitori della contribuente (” Z.R. e G.A. rivelano che le società da loro costituite, con le quali la contribuente ha avuto rapporti, avevano l’unico fine di emettere fatturazioni false (…) incontestato che tutte le dette società non avevano beni strumentali nè strutture idonee”). Dichiarazioni che si estendono anche alla consapevole partecipazione della contribuente (“F.lli B. SRL alla quale veniva res(t)ituita l’IVA pagata sulle fatture previa detrazione del compenso concordato pari al 3% dell’IVA medesima (…)).

Questa Corte ha già ritenuto la rilevanza istruttoria indiziaria, nel processo tributario, delle dichiarazioni rese da terzi all’Amministrazione, che possono assurgere a fonte di prova presuntiva e concorrere a formare il convincimento del giudice, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio. (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9316 del 20/05/2020; conformi, ex plurimis, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 6946 del 08/04/2015; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 21812 del 05/12/2012; cfr., in tema di verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, anche ai fini Iva, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17260 del 13/07/2017).

Nè, peraltro, la contribuente ricorrente ha puntualmente attinto tale specifica ratio decidendi, non avendo nel motivo censurato l’utilizzabilità, nel caso di specie, delle dichiarazioni in questione come elementi istruttori indiziari a sostegno dell’accertamento e comunque della difesa dell’Amministrazione in giudizio.

Gli stessi elementi indiziari poi, per integrare delle presunzioni semplici, non debbono essere necessariamente più d’uno, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento purchè grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 22184 del 14/10/2020; conformi, ex plurimis, Cass. n. 15754 del 2009; Cass. n. 17474 del 2009; in ambito fiscale, ex plurimis, Cass. n. 6567 del 2014; con riferimento alle dichiarazione dei terzi cfr. le citate Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9316 del 20/05/2020; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 6946 del 08/04/2015). Concorso che, comunque, nel caso di specie sussiste, avendo la CTR contestualmente valutato altresì l’assenza, in capo alle fornitrici, di beni e strutture idonei all’effettivo esercizio di attività commerciali

Neppure, poi, potrebbe ritenersi che la CTR abbia omesso di apprezzare, nel caso di specie, la ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., solo per aver omesso di esplicitare formalmente la valutazione in termini di “gravità”, “precisione” ed eventualmente “concordanza”.

Infatti, a prescindere dall’espressa formale utilizzazione di tali termini, la motivazione nel suo complesso rende univocamente conto della valutazione positiva dell’idoneità probatoria degli elementi indiziari apprezzati, ed in particolare, delle predette dichiarazioni e della loro attendibilità (in relazione anche al loro contenuto confessorio, ovvero auto-accusatorio, nei confronti di coloro che le hanno rese), valutata autonomamente ed in correlazione con gli ulteriori elementi indiziari.

Pertanto, non ha violato i principi sinora esposti la CTR nella parte in cui ha ritenuto che le dichiarazioni in questioni potessero, nel caso di specie, assolvere l’onere probatorio del quale era gravata l’Amministrazione.

Inoltre, il giudice a quo ha valorizzato nella motivazione ulteriori circostanze di fatto accertate nel giudizio, come tali a loro volta non legittimamente censurabili in questa sede, non potendo pretendere la ricorrente di sostituire – nel giudizio di legittimità e tramite il mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la propria valutazione di merito a quella della CTR.

Tanto vale sia con riferimento alla determinazione cronologica dei pagamenti (la cui dimostrazione, come l’eventuale regolarità formale delle scritture, è comunque priva di sufficiente rilievo, trattandosi di circostanze già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente: Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21104 del 24/08/2018, e giurisprudenza ivi citata in motivazione); sia rispetto all’assenza di strutture e mezzi delle società fornitrici (che peraltro la ricorrente pretenderebbe invece di contraddire in base ad una astratta comparazione con la struttura di una terza società, già gestita dai propri soci e cancellata, estranea alla fattispecie). Ferme restando le plurime ragioni di inammissibilità del ricorso già evidenziate, deve dunque rilevarsi che comunque la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi sinora illustrati.

3. Il ricorso va, pertanto dichiarato inammissibile, con spese regolate dalla soccombenza.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2021

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