Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 857 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. III, 17/01/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 17/01/2020), n.857

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30086/2018 R.G. proposto da:

I.S., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Nicola Cera,

Sandra Antico e Donato Mondelli, con domicilio eletto presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, Corso Trieste, n. 109;

– ricorrente –

contro

Alleanza Assicurazioni S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv.

Giulia Salami, con domicilio eletto in Roma, via Gioacchino Belli,

n. 36, presso lo studio degli Avv.ti Silvia Tritto e Silvia

Clemenzi;

– controricorrente –

e nei confronti di:

M.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia, n. 955/2018

depositata il 20 aprile 2018;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 3 dicembre

2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. I.S. convenne in giudizio avanti il Tribunale di Verona Alleanza Toro S.p.a. chiedendone la condanna, ai sensi dell’art. 2049 c.c., al pagamento della somma di Euro 7.000.

Espose di avere consegnato tale somma a M.G. conosciuto sin dal 2002 quale collaboratore, agente, consulente, dipendente della convenuta – perchè fosse destinata all’adeguamento di strumenti assicurativi e di avere però successivamente appreso da altro collaboratore di Alleanza Toro S.p.a. che essa non era stata effettivamente versata alla società, nè tanto meno destinata all’investimento promesso.

Esteso il contraddittorio nei confronti del M., chiamato in causa dalla convenuta, ma rimasto contumace, il Tribunale rigettò la domanda, ritenendo non dimostrato l’effettivo esborso della detta somma, stante l’inammissibilità, ex artt. 2721 e 2726 c.c., della prova orale a tal fine dedotta.

2. Tale decisione è stata confermata dalla Corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, sebbene sulla base di diversa motivazione.

Qualificata la domanda come diretta a far valere la responsabilità extracontrattuale della convenuta ai sensi dell’art. 2049 c.c., ha rilevato che la stessa andava rigettata per l’assorbente ragione della insussistenza nel caso concreto degli elementi, individuati dalla giurisprudenza di legittimità (con specifico riferimento all’arresto di Cass. 04/11/2014, n. 23448), necessari a fondare tale responsabilità.

Posto infatti che, nel caso di specie, era risultato che il M. non fosse legato da alcun rapporto con la società d’assicurazioni (nè di agenzia, nè di lavoro subordinato), ma operasse in proprio quale segnalatore di clienti “non autorizzato in ogni caso a raccogliere da questi somme superiori a Euro 1.500” e che, pertanto, la responsabilità della convenuta poteva configurarsi solo alla duplice condizione della buona fede del terzo e di una colpa dell’apparente preponente idonea ad ingenerarne l’affidamento, ha negato potesse ravvisarsi la prima di tali condizioni avuto riguardo: alla sottoscrizione di un generico modulo di adeguamento senza alcun riferimento ad una polizza specifica; alla mancanza di quietanze a fronte peraltro del versamento della somma in contanti.

3. Avverso tale decisione I.S. propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria; vi resiste Alleanza Assicurazioni S.p.a. depositando controricorso.

L’altro intimato, M.G. (rimasto contumace anche nel giudizio di appello), non svolge difese nella presente sede.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “motivazione apparente e/o irriducibilmente contraddittoria e/o perplessa o incomprensibile in merito alla statuizione di estraneità di M. alla struttura organizzativa di Alleanza Ass.ni”.

Rileva che tale valutazione è contraddetta dall’affermazione (pag. 14 della sentenza) che il M. aveva il potere di riscuotere per conto di Alleanza i premi non superiori ad Euro 1.500; circostanza soggiunge – mai contestata nemmeno da Alleanza e rilevante ai fini di causa dal momento che, se il M. fosse stato mero segnalatore e non avesse potuto riscuotere i premi, nessun danno si sarebbe verosimilmente verificato.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia inoltre, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 2094 e 2222 c.c., “sull’impossibilità di configurare come autonomo il rapporto tra M. e Alleanza”.

Sostiene che l’affermazione che il M. fosse un mero segnalatore di clienti, oltre ad essere sorretta da motivazione meramente apparente e/o contraddittoria, è comunque errata in diritto atteso che, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, perchè possa configurarsi la responsabilità del preponente ex art. 2049 c.c., non è necessario che il rapporto datore di lavoro/commesso sia di tipo subordinato, bastando anche un “inserimento temporaneo o occasionale nell’organizzazione aziendale” ovvero che “le mansioni in concreto demandate abbiano facilitato la commissione dell’illecito e del danno” o ancora un rapporto di mera preposizione.

Rapporto questo, sostiene, ravvisabile nella specie in ragione dell’accertata autorizzazione all’incasso di somme sino ad Euro 1.500.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’erronea mancata applicazione dell’art. 2049 c.c..

Sostiene, in sintesi, che la preposizione rilevante ai sensi dell’art. 2049 c.c., può derivare anche da un rapporto di fatto e che non sono essenziali nè la continuità, nè l’onerosità del rapporto; che è piuttosto sufficiente l’astratta possibilità di esercitare un potere di supremazia o di direzione, non essendo necessario l’esercizio effettivo di quel potere.

4. Con il quarto motivo, infine, la ricorrente denuncia, in subordine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1189 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto insussistenti i presupposti (condotta colpevole idonea ad ingenerare l’affidamento del terzo danneggiato e buona fede di quest’ultimo) per la configurabilità della responsabilità della convenuta pur in assenza di rapporto alcuno di preposizione con il M..

Sostiene che il primo di tali presupposti era desumibile dalla mancata vigilanza sull’operato del M., effettuata solo con colpevole ritardo.

Quanto al secondo rileva che le prove acquisite dimostravano l’esistenza di una condotta del M. di consistenza e durata tale da ingenerare nel solvens una ragionevole presunzione sulla rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens.

Segnala infine la necessità di acquisire, nell’auspicato giudizio di rinvio, la sentenza del Tribunale di Verona, sezione penale, in data 22/10/2015 che, nel condannare il M. per i medesimi fatti, ha affermato che il reato è aggravato per essere stato commesso in ragione del rapporto di lavoro intercorrente con Alleanza assicurazioni e ha inoltre considerato quale circostanza attenuante l’avere l’imputato ammesso i fatti, tra cui l’avere sottratto all’ I. la somma di Euro 7.000.

5. Il primo motivo è inammissibile.

Occorre rammentare che, come questa Corte ha più volte chiarito, il vizio di motivazione mancante o apparente, causa di nullità della sentenza per violazione dei doveri decisori, e dunque per error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è configurabile (solo) quando la motivazione, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. ex multis Cass. Sez. U. 03/11/2016, n. 22232; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Sotto tale profilo, com’è stato ulteriormente precisato, “è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali” (Cass. Sez. U. 07/04/2014, n. 8053, che a tale ipotesi ascrive oltre alla “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” ed, appunto, al vizio di “motivazione apparente”, anche quelli, a quest’ultima similari e contigui, del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, escludendo comunque qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).

Alla luce di tali pacifiche definizioni appare evidente che la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, è nella specie dedotta per ragioni che neppure in astratto possono considerarsi a tale vizio riconducibili.

Quel che si lamenta è, infatti, nella sostanza, non già la incomprensibilità della ratio decidendi (che al contrario viene rettamente intesa come volta a negare la configurabilità di un rapporto di committenza tra la convenuta e il M. rilevante agli effetti dell’art. 2049 c.c.) ma che essa è erronea in diritto; incontestata la ricognizione del fatto (e anzi, come detto, posta a base della doglianza) se ne contesta solo la qualificazione giuridica, ovvero la mancata applicazione a quel fatto delle conseguenze giuridiche che si assume avrebbero invece dovuto affermarsi.

6. Tale prospettiva censoria è invece correttamente dedotta con il terzo motivo ed appare meritevole di accoglimento.

In tema di danni derivanti dalla condotta illecita del promotore di prodotti finanziari o assicurativi, la giurisprudenza di questa Corte è ormai ferma nel ritenere che la responsabilità della banca o della compagnia di assicurazioni è astrattamente inquadrabile quale responsabilità oggettiva ex art. 2049 c.c., cioè quale ipotesi di responsabilità indiretta per il danno provocato dal proprio incaricato, in quanto agevolato o reso possibile dalle incombenze demandategli, su cui la preponente aveva la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza (v. Cass. Sez. U. 16/05/2019, n. 13246; v. anche e pluribus Cass. 26/06/2019, n. 17060; 10/11/2015, n. 22956; 04/11/2014, n. 23448; 04/03/2014, n. 5020; 25/01/2011, n. 1741; 22/06/2007, n. 14578).

Per la sua configurabilità è necessario e sufficiente provare il “rapporto di occasionalità necessaria” tra la condotta antigiuridica posta in essere dall’agente e le incombenze che gli erano state affidate dal preponente, nel senso che l’incombenza disimpegnata abbia determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque il collaboratore dell’imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purchè sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli.

6.1. Una tale nozione – come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U. n. 13246 del 2019, cit., in motivazione, p.p. 46-51) – vale a descrivere null’altro che “una peculiare specie di relazione di causalità”, da valutarsi alla stregua del criterio di regolarità causale con il quale è declinato in ambito civile il principio di equivalenza causale di cui all’art. 41 cpv. c.p., tale per cui “la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente”.

Deve dunque trattarsi di una “sequenza tra premesse e conseguenze… rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch’esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.

“In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell’organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell’estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata” (Cass. Sez. U. sent. cit. p.p. 54, 56).

Vale, per converso, anche in tale ambito, l’elisione del nesso causale in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sè solo idoneo a determinare l’evento e trova altresì applicazione la regola generale dell’art. 1227 c.c., in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, in tema di responsabilità per danno da cose in custodia, Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018).

6.2. Alla luce di tali premesse appare evidente che non assumono decisivo rilievo la natura e la fonte del rapporto esistente tra preponente e preposto, essendo sufficiente anche una mera collaborazione od ausiliarità del preposto, nel quadro dell’organizzazione e delle finalità dell’impresa gestita dal preponente (v. Cass. 16/03/2010, n. 6325; v. anche Cass. 03/04/2000, n. 4005; 21/06/1999, n. 6233; 17/05/1999, n. 4790). Il fondamento della responsabilità ex art. 2049, va infatti rinvenuto non già nella formale esistenza di un rapporto di lavoro o di agenzia, ma nel rapporto effettuale che si istituisce quando per volontà di un soggetto (committente), altro soggetto (commesso) esplica in fatto attività per di lui conto e sotto il suo potere (v. già Cass. 24/05/1988, n. 3616; nello stesso senso anche Cass. 09/08/1991, n. 8668, e ancor prima, ex anis, Cass. 02/04/1977, n. 1255); in altre parole, è sufficiente che l’agente sia inserito, anche se temporaneamente o occasionalmente, nell’organizzazione aziendale, ed abbia agito per conto e sotto la vigilanza dell’imprenditore (Cass. 09/11/2005, n. 21685; 09/08/2004, n. 15362; 22/03/1994, n. 2734).

Da ciò si deduce che la preposizione può derivare anche da un rapporto di fatto; che non sono essenziali nè la continuità, nè l’onerosità del rapporto; è, inoltre, sufficiente l’astratta possibilità di esercitare un potere di supremazia o di direzione, non essendo necessario l’esercizio effettivo di quel potere (v. in tal senso da ultimo Cass. 26/09/2019, n. 23973, che ha ritenuto sussistente la responsabilità dell’assicuratore per i danni conseguenti dalla condotta del sub-agente in un caso in cui, pur in assenza di alcun diretto rapporto tra gli stessi, risultava tuttavia che l’assicuratore: quale primo preponente, aveva conferito al sub-agente un autonomo e diretto potere rappresentativo; conservava un controllo diretto anche sul sub-agente; si avvaleva comunque di un’organizzazione imprenditoriale articolata in un reticolo di agenzie che operano di regola a mezzo di sub-agenti abilitati a vendere i prodotti assicurativi della preponente).

Quanto all’ambito qui di interesse, sarà quindi sufficiente che al promotore siano conferiti incarichi che, sia pure occasionalmente e temporaneamente, da un lato, lo legittimino a rivolgersi alla clientela per proporre prodotti finanziari o assicurativi della banca o della società d’assicurazioni e che, dall’altro, prevedano per ciò stesso un vantaggio riflesso per la compagnia. Che è quanto nella specie accaduto, alla stregua di quanto accertato in sentenza, come appresso sarà meglio esposto.

7. Costituisce invece ben diverso paradigma di imputazione, alternativo alla responsabilità (oggettiva e indiretta) ex art. 2049 c.c., quello che può condurre a ritenere la banca o la compagnia d’assicurazione responsabile del danno provocato dalla condotta illecita del sedicente promotore, pur in mancanza di rapporti di committenza di alcun tipo, in applicazione del principio dell’apparenza del diritto, quando con il proprio comportamento colposo (e dunque, in tal caso, in forza della generale clausola aquiliana: art. 2043 c.c.) la banca o la compagnia d’assicurazione abbia ingenerato nel cliente il legittimo affidamento che il promotore agisse nell’ambito di incombenze affidategli, purchè in tal caso sussista la buona fede incolpevole del terzo danneggiato (vds., per tale diversa ipotesi, Cass. 04/11/2014, n. 23448, citata in sentenza).

8. E’ bene precisare che la colpevole buona fede svolge in questa ipotesi un ruolo diverso da quello che, come sopra s’è detto, può in astratto assumere nella prospettiva qualificatoria correlata all’art. 2049 c.c..

Mentre nel primo caso essa porta ad escludere la configurabilità di un elemento costitutivo della responsabilità dell’apparente preponente, ossia l’incolpevole affidamento del terzo, nel secondo caso (responsabilità indiretta ex art. 2049 c.c.) la colpa del terzo non incide sul fondamento dell’imputazione di responsabilità ma può solo assumere rilievo di fattore all’origine di una diversa serie causale che concorre all’evento dannoso ex art. 1227 c.c., fino eventualmente ad elidere il nesso che collega quest’ultimo al fatto del preponente.

Ne discende la necessità di un diverso metro di ponderazione della colpa del danneggiato.

Nel primo caso (affidamento incolpevole) rileverà la mancanza della diligenza media esigibile, avuto riguardo al contesto sociale e culturale di riferimento, nel discernere l’inesistenza di alcun collegamento tra l’apparente preposto e l’ente.

Nel secondo caso, che qui interessa, nel quale tale collegamento è già, obiettivamente, nei fatti, la colpa del danneggiato sarà apprezzabile in presenza di un coinvolgimento soggettivo del danneggiato ben più marcato; la credulità del danneggiato va in altre parole diversamente ponderata, in detta ipotesi, in considerazione della giustificazione che, almeno in parte, ne può derivare proprio dall’inserimento del preposto nell’organizzazione dell’impresa preponente.

9. In tal senso questa Corte ha già più volte affermato che, nella prospettiva qualificatoria di cui all’art. 2049 c.c., la condotta del terzo/investitore – non inserendosi nella situazione di potenzialità dannosa determinata dal contegno della preponente, ma appartenendo ad una serie eziologica diversa e determinante dell’evento – può giungere a interrompere il nesso causale solo allorchè gli fosse chiaramente percepibile che la condotta del preposto si poneva in assenza o al di fuori del rapporto con l’intermediario ovvero fosse consapevolmente coinvolto nell’elusione della disciplina legale posta in essere dal promotore finanziario o ancora quando avesse prestato acquiescenza all’irregolare condotta del preposto: acquiescenza desunta dal numero o dalla ripetizione delle operazioni poste in essere con modalità irregolari, dal valore complessivo delle operazioni, dall’esperienza acquisita nell’investimento di prodotti finanziari, dalla conoscenza del complesso iter funzionale alla sottoscrizione di programmi di investimento e dalle sue complessive condizioni culturali e socioeconomiche (v. Cass. 22/11/2018, n. 30161; Cass. 14/12/2018, n. 32514).

In tale prospettiva, nel definire il contenuto di questa prova liberatoria la giurisprudenza di legittimità, si è, ad esempio, escluso che la consegna di somme di denaro da parte del cliente con modalità difformi da quelle cui il promotore dovrebbe attenersi possa di per sè escludere il rapporto di necessaria occasionalità ed anche che possa costituire concausa del danno o determinare l’applicazione dell’art. 1227 c.c., ai fini della riduzione del risarcimento spettante all’investitore (Cass. n. 32514 del 2018, cit.; Cass. 01/03/2016, n. 4037; 24/07/2009, n. 17393).

10. Nel caso di specie, la Corte d’appello, sulla premessa della non configurabilità del presupposto del rapporto di occasionalità necessaria con le incombenze affidate al promotore/segnalatore, ha ritenuto di poter esaminare la fattispecie solo nella seconda prospettiva qualificatoria di cui si è detto, escludendone poi in concreto l’applicabilità per non essere apprezzabile il presupposto della buona fede del danneggiato.

E’ proprio però sulla detta premessa (della non configurabilità di un rapporto di occasionalità necessaria) che si situa l’errore di diritto in cui è incorsa la Corte di merito, consistito propriamente in una erronea interpretazione della norma di cui all’art. 2049 c.c. (infondatamente postulata come richiedente la sussistenza di un rapporto qualificato di agenzia o di lavoro subordinato).

Emerge infatti che il M. – sebbene non avesse la qualifica di agente, nè di dipendente della società di assicurazioni – operasse tuttavia pur sempre nell’interesse di questa quale “segnalatore di clienti” sulla base di una “lettera di autorizzazione” (richiamata quale doc. 2 prodotto in giudizio dalla stessa convenuta) “specificante la natura dei rapporti effettivamente sussistenti tra il convenuto e la compagnia assicuratrice”, tali per cui il M. si rendeva disponibile, quale “”Produttore libero”,… a segnalare nominativi di persone interessate a sottoscrivere i contratti di assicurazione con la società”, con l’autorizzazione all’incasso di premi non superiori a Euro 1.500.

Sussisteva dunque, tra la società e il M., un rapporto che, ancorchè non di lavoro subordinato nè di agenzia, tuttavia lo legittimava a trattare con potenziali clienti della compagnia, in nome e a vantaggio della stessa, e ad incassarne anche somme sia pure di importo limitato.

Il che è quanto basta, alla luce della richiamata giurisprudenza, a configurare la responsabilità oggettiva e indiretta della società ex art. 2049 c.c., la quale, giova ribadire, trova la sua ragion d’essere, per un verso, nel fatto che l’agire del promotore è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale nell’organizzazione della propria impresa, traendone benefici ai quali è ragionevole far corrispondere i rischi, secondo l’antica regola cuius commoda eius et incommoda; per altro verso, e in termini più specifici, nell’esigenza di offrire una adeguata garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede loro rivolte per il tramite del promotore, giacchè appunto per le caratteristiche di questo genere di offerte la buona fede dei clienti può più facilmente esserne sorpresa e aggirata (v. Cass. Sez. U. n. 13246 del 2019, in motivazione p. 24; ma v. già, ex multis, Cass. n. 1741 del 2011; Cass. 07/04/2006, n. 8229).

L’avere il promotore/segnalatore incassato somme eccedenti il limite della conferitagli autorizzazione costituisce infatti condotta, bensì abusiva, ma pur sempre in continuità al potere conferitogli, tale per cui, da un lato, quest’ultimo rimane premessa causalmente efficiente di quella condotta e, d’altro, il suo abuso costituisce evenienza prevedibile e suscettibile di essere prevenuta attraverso opportuna attività di organizzazione e vigilanza.

11. La sentenza impugnata ha come detto applicato una erronea e più restrittiva regola di giudizio, non cogliendo appieno la ratio e la portata della norma codicistica, come interpretata dalla ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, e pervenendo di conseguenza ad una errata qualificazione della fattispecie.

Tale errore si riverbera anche nel rilievo attribuito alla condotta dell’investitrice/danneggiata, ritenuta espressiva di colpevole buona fede e per ciò solo idonea ad escludere la responsabilità della convenuta/appellata (in quanto rapportata alla diversa fattispecie di responsabilità per avere colpevolmente ingenerato l’affidamento del terzo).

Nella diversa prospettiva qualificatoria ex art. 2049 c.c., invero, come detto, la condotta del danneggiato potrebbe in astratto assumere rilievo diminuente o elidente solo se e in quanto integrante fattore causale autonomo e concorrente nella determinazione del danno ex art. 1227 c.c., comma 1, ciò che, però, può configurarsi in presenza di condotte che postulino la consapevolezza e la sostanziale acquiescenza dell’irregolare condotta del preposto o quanto meno la sua agevole e immediata percepibilità (v. supra p. 8): condotte dunque ben più imprudenti e azzardate di quella nella specie descritta in sentenza, siccome desumibile dalla “sottoscrizione di un generico modulo di adeguamento senza alcun riferimento ad una polizza specifica” e dalla “mancanza di quietanze a fronte peraltro del versamento della somma in contanti”.

12. In accoglimento del terzo motivo, assorbiti il secondo e il quarto, la sentenza va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; dichiara inammissibile il primo; assorbiti i rimanenti; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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