Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8530 del 09/04/2010

Cassazione civile sez. I, 09/04/2010, (ud. 15/12/2009, dep. 09/04/2010), n.8530

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Presidente –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23919/2004 proposto da:

M.D. (c.f. (OMISSIS)), M.M.

R., M.G., M.I., elettivamente

domiciliate in ROMA, CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso l’avvocato

PELLEGRINO Giovanni, che le rappresenta e difende, giusta procura a

marGine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SQUINZANO, REGIONE PUGLIA;

– intimati –

sul ricorso 28068/2004 proposto da:

COMUNE DI SQUINZANO (C.F. (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. MANTEGAZZA 24,

presso il Cav. GARDIN LUIGI, rappresentato e difeso dall’avvocato

STICCHI DAMIANI ERNESTO, giusta procura a margine del controricorso e

ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

M.D., M.M.R., M.G.,

M.I., elettivamente domiciliate in ROMA, CORSO DEL

RINASCIMENTO 11, presso l’avvocato PELLEGRINO GIOVANNI, che le

rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso

principale;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

contro

REGIONE PUGLIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 85/2004 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 25/02/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/12/2009 dal Presidente Dott. UGO RICCARDO PANEBIANCO;

udito, per le ricorrenti principali, l’Avvocato GIOVANNI PELLEGRINO

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale; assorbimento dell’incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 29.10.1985 M.L. e M. D., quali comproprietari di un terreno sito nel centro abitato del Comune di (OMISSIS), convenivano avanti al Tribunale di Lecce detto Comune e la Regione Puglia, esponendo che:

– tale terreno era stato vincolato a pubblici servizi con una variante al programma di fabbricazione adottata dal Comune il 22.12.1976 ed approvata dalla Regione Puglia il 28.10.1977;

– detto vincolo ablatorio era divenuto inefficace in quanto era decorso un quinquennio senza che fosse stato approvato lo strumento attuativo urbanistico, con la conseguenza che l’area già vincolata era rimasta soggetta al regime previsto dalla L. n. 10 del 1977, art. 4 ed era quindi divenuta sostanzialmente non edificabile;

– il Comune, pur essendovi tenuto, non aveva adottato un nuovo strumento urbanistico generale od una sua variante per colmare il vuoto pianificatorio creatosi in conseguenza della automatica decadenza dei vincoli del piano, violando in tal modo un suo preciso obbligo alla scadenza del quinquennio e prolungando arbitrariamente la situazione di inutilizzabilità dell’area, con inevitabili conseguenze sul contenuto del diritto di proprietà.

Chiedevano quindi che fosse dichiarata l’inefficacia del vincolo imposto sull’area di loro proprietà e che il Comune fosse condannato al risarcimento del danno conseguente alla sostanziale inutilizzabilità dell’area.

Si costituiva il Comune convenuto che eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e, nel merito, l’infondatezza della domanda.

La Regione Puglia rimaneva contumace.

Con sentenza non definitiva del 22.6.1999 la sezione stralcio del Tribunale dichiarava illegittima l’inerzia del Comune, protrattasi per oltre vent’anni dalla scadenza del vincolo di inedificabilità imposto con lo strumento urbanistico del 28.10.1977 che aveva dato luogo alla compressione del diritto di proprietà oltre il limite massimo di tollerabilità, e lo condannava al risarcimento dei danni da liquidarsi in prosieguo di giudizio.

Veniva quindi espletata consulenza tecnica d’ufficio, all’esito della quale si costituivano in giudizio M.M.R., G. ed I., quali eredi di M.L. nel frattempo deceduto.

Con sentenza definitiva del 21.2.2002 il Tribunale dichiarava improponibile la domanda proposta nei confronti della Regione Puglia e condannava l’Amministrazione comunale al pagamento in favore degli attori della somma di Euro 377.515,89 comprensiva della rivalutazione monetaria.

Il Comune proponeva impugnazione avverso entrambe le sentenze ed all’esito del giudizio, nel quale si costituivano M.D. ved. M. e le altre eredi chiedendone il rigetto e proponendo anche appello incidentale sul mancato riconoscimento degli interessi, la Corte d’Appello di Lecce, dopo la sospensione da parte del consigliere istruttore della provvisoria esecuzione della sentenza impugnata, con sentenza del 16.1-25.2.2004 accoglieva il gravame, rigettando la domanda originariamente proposta e condannando la M.D. e le M. al pagamento delle spese del doppio grado.

Dopo aver osservato che, a causa della sopravvenuta inefficacia del vincolo urbanistico, preordinato all’esproprio, di destinazione a servizi di quartiere in conseguenza della mancata approvazione degli strumenti urbanistici di attuazione, l’area situata nel centro abitato era rimasta soggetta al regime previsto dalla L. n. 10 del 1977, art. 4, u.c., con conseguente temporanea inedificabilità dal 28.10.1982 (data di scadenza del vincolo), rilevava la Corte d’Appello che, potendo la responsabilità della P.A. essere affermata anche nell’ipotesi di violazione di interessi occasionalmente protetti purchè risulti violato l’interesse al bene della vita, era ravvisabile la violazione dell’obbligo di integrare lo strumento urbanistico divenuto parzialmente inefficace per effetto della scadenza del vincolo preordinato all’esproprio. Precisava altresì che l’interesse del bene alla vita di cui le appellate lamentano la lesione non è costituito dall’interesse ad una specifica destinazione edificatoria dell’area ma a conservare il nucleo intangibile del diritto di proprietà gravemente compromesso dal regime di blocco previsto dalla L. n. 10 del 1977, art. 4, a seguito dell’inadempimento dell’obbligo del Comune di ripianificare l’area, con la conseguenza che l’interesse legittimo non è riconducibile alla categoria degli interessi “pretensivi” ma a quella degli interessi “oppositivi” volti alla conservazione del contenuto minimo della proprietà, nell’ambito quindi di un contesto assimilabile alla ipotesi di reiterazione dei vincoli espropriativi per la quale la Corte Costituzionale con la sentenza n. 179/99 ha imposto il riconoscimento di un indennizzo al proprietario. Sostiene altresì che non varrebbe obiettare che sarebbe stato possibile promuovere da parte dei proprietari l’intervento sostitutivo della Regione o l’azione giudiziaria prevista per i casi di silenzio-rifiuto in quanto la loro proponibilità non preclude in ogni caso la tutela risarcitoria.

Riteneva però che, vertendosi in tema di responsabilità, valgono anche per la P.A. i principi generali desumibili dall’art. 2043 c.c., con la conseguenza che incombeva alle proprietarie fornire la prova di avere effettivamente subito un pregiudizio patrimoniale a seguito dell’illecito imputabile al Comune. Al riguardo osservava che erroneamente il Tribunale aveva liquidato il danno in misura pari al deprezzamento che l’area avrebbe subito nel momento in cui, scaduto il vincolo, era rimasta soggetta al regime di cui alla L. n. 10 del 1977, art. 4, in quanto in tal modo aveva dato per scontato che l’area fosse divenuta definitivamente inedificabile mentre in realtà il regime di blocco ha carattere transitorio e cioè destinato a cessare nel momento in cui il Comune avrebbe provveduto a ritipizzarla, consentendovi l’edificazione ovvero alla sua espropriazione. Tale danno avrebbe richiesto pertanto la prova da parte del proprietario della perdita patrimoniale derivante dalla temporanea inedificabilità dell’area durante la vigenza del blocco, prova che non solo non è stata fornita ma non è stato nemmeno possibile desumere da eventuali elementi di fatto significativi, nel convincimento, evidentemente, dei proprietari che il mero protrarsi del regime di blocco giustificasse automaticamente il risarcimento.

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione M. D. nonchè M.R., G. e M.I. che deducono un unico motivo di censura.

Resiste con controricorso il Comune di Squinzano che propone anche ricorso incidentale affidato a due motivi.

Le proprietarie resistono con controricorso al ricorso incidentale del Comune.

La Regione Puglia non ha svolto alcuna attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Pregiudizialmente i due ricorsi, il principale e l’incidentale, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., riguardando la stessa sentenza.

Prioritario è l’esame del primo motivo del ricorso incidentale, riguardando la configurabilità, affermata dalla Corte d’Appello, della violazione nel caso in esame di un interesse legittimo determinato da un comportamento illegittimo della Pubblica Amministrazione. Solo qualora si confermi una tale statuizione, rigettando l’impugnazione sul punto, sarà possibile esaminare il ricorso principale delle proprietarie del terreno in questione volto a censurare la statuizione della sentenza impugnata che ha escluso per mancanza di prove l’esistenza di un danno risarcibile.

Con il primo motivo del ricorso incidentale infatti il Comune di Squinzano denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., dei principi inerenti alla risarcibilità degli interessi legittimi e difetto di motivazione. Lamenta che la Corte d’Appello abbia ritenuto che la mancata riqualificazione dell’area attraverso la integrazione dello strumento urbanistico divenuto parzialmente inefficace per effetto della scadenza del vincolo abbia comportato una lesione dell’interesse alla conservazione del nucleo intangibile del diritto di proprietà compromesso dal perdurare dal regime di blocco di cui alla L. n. 10 del 1977, art. 4, senza considerare che in tale contesto non è ravvisabile alcun tipo di affidamento od aspettativa nel privato in ordine ad un’eventuale edificabilità del suolo o di una sua specifica utilizzazione, competendo alla Amministrazione nell’esercizio del suo potere discrezionale la scelta della nuova destinazione ed essendo consentito solo sollecitarla attraverso un formale atto di messa in mora, come previsto dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 25, con la conseguenza che dalla mancata conformazione urbanistica del suolo non può derivare alcun tipo di danno, specie se si consideri che non è intervento alcun accertamento giudiziale volto all’annullamento del silenzio ed idoneo a dimostrare l’interesse delle proprietarie ad ottenere la riqualificazione urbanistica dei suoli.

La censura è infondata.

La potestà dei Comuni di imporre sui singoli terreni vincoli preordinati all’esproprio non è illimitata, decadendo tali vincoli, ai sensi della L. 19 novembre 1968, n. 1187, art. 2, al termine del quinquennio e potendosi in tal caso eventualmente disporre la loro rinnovazione oppure inserire il terreno nell’ambito di una pianificazione conformativa.

L’omessa attuazione di tali obblighi, lasciando il terreno per lungo tempo in una condizione di stallo, disciplinata dalla L. n. 10 del 1977, art. 4, comporta certamente la lesione di un interesse legittimo del privato quale conseguenza di un’omissione della P.A. non tollerabile dall’ordinamento giuridico.

Alla scadenza del quinquennio la P.A. ben può provvedere ad una nuova pianificazione del territorio inserendo l’area in una più ampia zona di natura conformativa con una sua destinazione oppure può rinnovare (sia pure entro certi limiti temporali e nel rispetto dei contrapposti interessi, come si vedrà) il vincolo, ma non può certamente lasciarla senza provvedere, creando in tal modo una zona “c.d. bianca” in quanto il citato art. 4 costituisce unicamente una norma di salvaguardia in attesa che l’Amministrazione riesamini la situazione e non di regolamentazione urbanistica.

Che tale sia la situazione che si viene a determinare si deduce dal fatto che detta scadenza quinquennale non comporta, come più volte affermato dalla giurisprudenza ordinaria ed amministrativa, la reviviscenza della disciplina urbanistica previgente, non potendo la decadenza, volta a tutelare il diritto dominicale da compressioni senza limiti, essere considerata alla stregua di un annullamento che opera, invece, in linea di principio con effetti retroattivi.

Se un termine è fissato dalla legge proprio per non esporre i proprietari a situazioni di incertezza, la mancanza di scelte da parte della P.A. (nel caso in esame dal 1982) non può che dar luogo ad un comportamento illegittimo e, di conseguenza, la lesione di un interesse legittimo risarcibile.

Confermata in tal modo la responsabilità del Comune, si pone il problema della risarcibilità del danno che la Corte d’Appello ha escluso per il mancato assolvimento della relativa prova da parte delle proprietarie che una tale conclusione censurano.

Con l’unico motivo del ricorso principale M.D. nonchè M.R., G. ed M.I. denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., nonchè motivazione contraddittoria. Lamentano che la Corte d’Appello, in contrasto con le argomentazioni ineccepibili in ordine alla configurabilità nel caso in esame di una responsabilità del Comune, abbia escluso il risarcimento, ritenendo che non fosse stato assolto da parte loro l’onere di provare l’esistenza del danno, senza considerare che, sebbene l’astratta possibilità di una ripitizzazione dell’area o di un intervento ablatorio escluda che il risarcimento possa commisurarsi integralmente al deprezzamento, non può accettarsi l’assunto che un danno non sia stato provato pur in presenza di una situazione di deprezzamento che dura da oltre venti anni con esclusione o forte limitazione dello “ius aedificandi” e pur potendosi individuare un altro criterio di quantificazione, ivi compreso quello degli interessi legali sul valore originario dell’area, in sostituzione di quello ritenuto inaccettabile. Deducono altresì che il problema della prova del danno non può essere confuso, come ha fatto la Corte d’Appello, con il diverso problema della sua quantificazione che le parti avevano rimesso al prudente apprezzamento del Tribunale, collegando il danno alla situazione giuridica venutasi a creare dall’impossibilità di utilizzare il bene almeno sotto il profilo del mancato guadagno. Deducono ancora che, poichè il Comune era obbligato a ripitizzare l’area rimasta priva di una disciplina conformativa ovvero a procedere alla sua espropriazione, il danno doveva ritenersi provato, almeno, ripetesi, sotto il profilo del mancato guadagno in quanto nella prima ipotesi avrebbero ricevuto l’utilità della ritipizzazione e, nella seconda, l’indennizzo. Sostengono infine, richiamando la giurisprudenza di questa Corte, che nel caso, come quello in esame, in cui il danno si raccorda all’impossibilità per il “dominus” di conseguire l’utilità normalmente ricavabile dal bene, esso è “in re ipsa” e la sua quantificazione ben può essere determinata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici.

La censura è fondata.

La Corte d’Appello, dopo aver precisato che l’ipotetico danno derivante dalla violazione dell’obbligo di ripianificazione dell’area è un “danno da ritardo, collegato alla temporanea impossibilità di utilizzare l’area ai fini edificatori”, ne ha escluso la risarcibilità per mancanza di una prova al riguardo, sia sotto il profilo del lucro cessante che in relazione al danno emergente, prova al cui adempimento le proprietarie erano onerate.

Orbene, in un contesto come quello in esame, caratterizzato, come sopra si è già sottolineato, da una situazione di stallo in cui è venuta a mancare od è risultata fortemente ridotta la possibilità di scambio, non è proponibile la imposizione di un onere della prova sull’esistenza in concreto di un danno, potendo presumersi per il fatto stesso della perdita di un effettivo mercato.

Del resto è significativo che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.5.1979 ha ritenuto legittima, qualora non superi sul piano temporale la normale tollerabilità, la reiterazione dei vincoli scaduti preordinati all’esproprio o che comportino l’inedificabilità purchè venga previsto dal legislatore un indennizzo che ripaghi i proprietari della diminuzione del valore di scambio o di utilizzabilità, individuando in tal modo, nell’attività pur legittima della P.A., l’esistenza in linea di principio di un pregiudizio ritenuto non tollerabile dal singolo nel rispetto dell’art. 42 Cost., comma 3.

Ora, se una tale automaticità è consentita in presenza di comportamenti riconducibili ad una attività legittima della P.A., sia pure sotto forma di indennizzo, non si vede perchè una consequenzialità del genere non sia da consentire in presenza di un pregiudizio conseguente ad un comportamento illegittimo.

L’esigenza di ricondurre il sistema in un quadro coerente e logico impone un’analoga soluzione, riconoscendo, a fronte di un indennizzo automatico che discende da una mera reiterazione del vincolo oltre la normale tollerabilità, la presenza di un danno per il solo fatto che l’area sìa stata lasciata al di fuori di qualsiasi pianificazione urbanistica.

Il problema si pone quindi solo sul piano del “quantum” per la comprensibile difficoltà di trovare un valido criterio di liquidazione equitativa, ma ciò non può rappresentare un motivo valido per la sua esclusione.

Al riguardo dovrà provvedere ovviamente il giudice di merito in sede di rinvio il quale potrà anche avvalersi dei suggerimenti dati al legislatore nella richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1979 ai fini della individuazione dei criteri utili per la determinazione dell’indennizzo, adattandoli al caso concreto.

Non senza tener conto, oltre tutto, che non potendo essere attribuito al regime di cui alla Legge del 1977, art. 4, come si è già sottolineato, carattere di regolamentazione urbanistica esercitabile solo dall’attività pianificatoria, riguardante l’assetto complessivo del territorio attraverso l’articolata divisione in varie zone, nessuna incidenza tale normativa potrebbe assumere sul valore dei terreni nell’ambito di un procedimento espropriativo, con la conseguenza che in tal caso il criterio applicabile non potrebbe essere che quello dell’edificabilità di fatto, sia pure dopo un attento esame sulle caratteristiche rilevabili in concreto, quali l’ubicazione, l’accessibilità, lo sviluppo edilizio già in atto, l’esistenza di collegamenti, vincoli ambientali ecc. (giurisprudenza costante sviluppatasi soprattutto nei procedimenti riguardanti la tenuta presidenziale di (OMISSIS) a far tempo dal (OMISSIS); Cass. 8702/98; Cass. 12880/98; Cass. 29788/08).

Nel caso in esame non si verte in tema di espropriazione e non si tratta quindi di determinarne l’indennizzo; è improprio pertanto un diretto riferimento a tale giurisprudenza, ma nel prudente apprezzamento del giudice di merito, se ritenuto opportuno, potrebbe in qualche modo influire nella valutazione dell’area e, conseguentemente, del danno per il suo mancato utilizzo.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale il Comune denuncia violazione e falsa applicazione I della L., n. 10 del 1977, art. 4, u.c. e della L. n. 765 del 1967, art. 17, nonchè difetto di motivazione. Sostiene che erroneamente la Corte d’Appello ha ritenuto che, in ragione della scadenza del vincolo, l’area fosse inedificabile con decorrenza dal 28.10.1982 e che fosse ricompresa nell’ambito del centro abitato, come definito dalla L. n. 765 del 1967, art. 17, male interpretando la relazione sul punto della C.T.U. che aveva fatto riferimento invece solo ad un’area interessata da notevole sviluppo edilizio, assumendo che il terreno risultava in posizione centrale rispetto al centro abitato ma non che esso ricadesse nel perimetro urbano così come definito dalla L. n. 765 del 1967, art. 17. Deduce quindi che la Corte d’Appello ha errato nel ritenere il terreno inedificabile, attesa la possibilità edificatoria prevista da detto art. 4 per le aree esterne al centro abitato.

La censura è infondata.

Il problema della posizione dell’area rispetto al centro abitato e cioè se essa vi sia compresa o ne sia esterna riguarda nel caso in esame, così come prospettato, il criterio di valutazione rapportato alla diversa disciplina prevista, per la salvaguardia del territorio, dal più volte richiamato della L. n. 10 del 1977, art. 4, ed ha perduto quindi sotto tale profilo la sua rilevanza, rimanendo assorbito.

Nella misura in cui la posizione dell’area potrebbe assumere influenza nella valutazione del danno conseguente alla diminuita utilizzazione del terreno al di fuori dei limiti previsti dall’art. 4, si porrebbe certamente il problema della sua rilevanza, ma al riguardo non può che prendersi atto che trattasi di una questione di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici.

Orbene, la Corte d’Appello, riportando la relazione del C.T.U., ha accertato che “l’area è ubicata in posizione centrale rispetto al centro urbano del Comune di Squinzano, così come definito nella tav.

3-planimetria del piano di programma di fabbricazione adottato dalla Delib. Consiglio Comunale 1 ottobre 1973, n. 334 ed approvato dalla Regione Puglia con Decreto 8 ottobre 1974, n. 2359”.

A fronte di tali precise indicazioni, il Comune si è limitato a fornire una diversa interpretazione, sostenendo che il C.T.U. si sarebbe limitato ad affermare che il terreno in | questione risulta in posizione centrale rispetto al centro abitato ma non avrebbe rilevato che esso ricade nel perimetro urbano, come previsto dalla L. n. 765 del 1967, art. 17.

E’ evidente che con tale censura non viene prospettato alcun difetto di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. , n. 5, ma semplicemente una diversa lettura della relazione del C.T.U. il cui sindacato esula dai compiti di questa Corte, non deducendosi una lacuna nel tessuto argomentativo nè una contraddizione logica fra le varie parti della motivazione laddove il riferimento alla “posizione centrale rispetto al centro urbano” contenuto in detta relazione ha condotto la Corte d’Appello al convincimento che il terreno è ubicato all’interno del centro urbano.

In definitiva, in relazione all’accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione che, nell’uniformarsi agli esposti principi, procederà alla determinazione del danno conseguente al diminuito utilizzo del terreno da parte dei proprietari.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Riunisce i ricorsi. Accoglie il ricorso principale. Rigetta l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2010

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