Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8523 del 09/04/2010

Cassazione civile sez. I, 09/04/2010, (ud. 01/12/2009, dep. 09/04/2010), n.8523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9390-2005 proposto da:

G.L. (c.f. (OMISSIS)), G.N. (c.f.

(OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, LUNGOTEVERE

FLAMINIO 46 PAL. 4^ SC. B, presso lo STUDIO GREZ E ASSOCIATI,

rappresentati e difesi dagli avvocati SCROSATI CARLO LUIGI, CORSELLI

ANNAROSA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SAMARATE;

– intimato –

sul ricorso 12830-2005 proposto da:

COMUNE DI SAMARATE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA 7 6, presso l’avvocato SELVAGGI

CARLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato JUNGINGER

GIORGIO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso

incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

G.L., G.N.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 925/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 30/03/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2009 dal Presidente Dott. UGO RICCARDO PANEBIANCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato in data 19.1.1994 G.L. e G. N. convenivano avanti al Tribunale di Busto Arsizio il Comune di Samarate, esponendo che:

– con decreto del 9.3.198 3 il Comune aveva disposto l’occupazione di circa mq. 600 del terreno di loro proprietà distinto in Catasto al mappale (OMISSIS), cui aveva fatto seguito l’immissione nel possesso il (OMISSIS) e, con successivo decreto del 4.9.1984, l’occupazione della restante parte di mq. 3850 cui aveva fatto seguito l’immissione in possesso il (OMISSIS), prevedendo in entrambi i casi il termine di cinque anni di validità dell’occupazione con decorrenza dall’immissione in possesso;

l’occupazione si era protratta oltre la scadenza senza l’emissione dei decreti di esproprio nonostante nel frattempo fossero state realizzate le opere.

Chiedevano quindi la restituzione dei terreni ovvero la condanna del Comune al risarcimento del danno indicato nell’importo di L. 48.000.000 con riferimento al Giugno 1983 per l’area di mq. 600 e di L. 346.500.000 con riferimento al mese di Ottobre 1984 per l’area di mq. 3.850, oltre alla rivalutazione ed agli interessi.

Si costituiva il Comune che chiedeva l’improcedibilità della domanda per la sua genericità.

Con sentenza del 13.12.2001 il Tribunale, rilevato che in relazione ad entrambe le aree assoggettate a vincolo di destinazione P.I.P. (Piano per gli Investimenti Industriali) sulle quali si era verificata la loro irreversibile trasformazione, non erano intervenuti i relativi decreti di espropriazione e si era pertanto verificata la fattispecie dell’accessione invertita, condannava il Comune al risarcimento del danno nella misura di L. 72.000.000 relativamente all’occupazione dei 600 mq. divenuta illegittima il 31.5.1993 e di L. 550.000.000 per l’occupazione dei restanti mq.

3.850 divenuta illegittima il (OMISSIS).

Proponeva impugnazione il Comune ed all’esito del giudizio, nel quale si costituivano le controparti che svolgevano anche appello incidentale, la Corte d’Appello di Milano con sentenza del 4.11.2003- 30.3.2004, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Comune, a titolo di risarcimento, al pagamento della complessiva somma di Euro 158.003,53 oltre interessi e rivalutazione;

confermava invece la statuizione relativa alle spese del giudizio di primo grado, dichiarate interamente compensate, in quanto non era stata proposta una specifica censura.

Rigettava in primo luogo la Corte d’Appello l’eccezione di inammissibilità del gravame dedotta in relazione alla mancata impugnazione della ordinanza dell’8.1.2000 con cui il Tribunale aveva affermato che, essendo mancata la prova in ordine all’emissione della dichiarazione di pubblica utilità, la controversia esulava dall’ipotesi di occupazione appropriativa. Al riguardo osservava che trattavasi di un provvedimento privo di un autonomo e definitivo contenuto decisorio in quanto adottato per la rimessione della causa in istruttoria finalizzata all’integrazione del contraddittorio nei confronti di un soggetto che allo stato degli atti appariva interessato al processo.

Riteneva poi che, ai fini della determinazione del risarcimento, costituisse giudicato la sentenza n. 23 del 2000 pronunciata dalla stessa Corte nei confronti delle stesse parti relativamente alla determinazione dell’indennità di occupazione riguardante i medesimi terreni; occupazione ritenuta legittima con implicita affermazione di sussistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità.

Rilevata quindi l’applicabilità nel caso in esame del D.P.R. n. 327 del 2001, come modificato ed integrato dal D.Lgs. n. 302 del 2002, ed in particolare dell’art. 55, procedeva al calcolo ponendo a base il valore unitario di L. 62.500 al mq. con cui era stata determinata l’indennità di occupazione nel precedente giudizio mediando poi i dati forniti dal C.T.U. con riferimento al 1983 e 1984 e con riguardo al 1993 ed al 1994 e moltiplicando infine l’importo ottenuto, pari all’indennità di esproprio, per dieci.

Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione G. L. e G.N. che deducono sei motivi di censura, illustrati anche con memoria.

Resiste con controricorso, illustrato anch’esso con memoria, il Comune di Samarate che propone pure ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Pregiudizialmente i due ricorsi, il principale e l’incidentale, vanno riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c., riguardando la stessa sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale G.L. e G.N. denunciano violazione degli artt. 131 e 132 c.p.c., nonchè difetto di motivazione. Lamentano che la Corte d’Appello abbia escluso che l’ordinanza del giorno 8.1.2000 emessa dal Tribunale, con cui la causa era stata rimessa in istruttoria dal collegio sul rilievo della mancanza di prove circa l’esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, avesse contenuto di sentenza e che, come tale, non richiedesse un’apposita impugnazione, senza considerare che la statuizione con cui si era affermato che la controversia non rientrava fra le cosiddette occupazioni espropriative in mancanza di una dichiarazione di pubblica utilità ha in realtà contenuto di sentenza indipendentemente dal fatto, sottolineato dalla stessa Corte, che la motivazione di tale provvedimento avesse fatto riferimento al problema dell’integrazione del contraddittorio nei confronti di altro soggetto.

La censura, anche se sostanzialmente assorbita da quanto si dirà in relazione al secondo motivo di ricorso, è comunque infondata.

L’art. 279 c.p.c., comma 4 prevede che “i provvedimenti del Collegio, che hanno forma di ordinanza, comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa; salvo che la legge disponga diversamente, essi sono modificabili e revocabili dallo stesso Collegio e non sono soggetti ai mezzi d’impugnazione previsti per le sentenze”.

Analoga previsione è contenuta nell’art. 177 c.p.c..

Nell’ipotesi in esame l’ordinanza collegiale è stata pronunciata per la rimessione degli atti in istruttoria al fine di consentire l’integrazione del contraddittorio nei confronti di altro soggetto che si riteneva avrebbe avuto interesse a partecipare al giudizio.

E’ evidente pertanto che si è in presenza di un’ordinanza avente contenuto istruttorio non autonomamente impugnabile, al di là delle considerazioni espresse nella parte motiva in cui è stato fatto riferimento, fra l’altro, alla mancanza nel procedimento espropriativo di una dichiarazione di pubblica utilità. La sua revocabilità o modificabilità, la sottrazione ad ogni autonomo mezzo di impugnazione e l’inidoneità quindi a pregiudicare la decisione della controversia conferiscono al provvedimento in esame carattere meramente strumentale, incompatibile con la formazione del giudicato.

Correttamente quindi la Corte d’Appello ha escluso che si fosse formato il giudicato sulla affermazione in essa contenuta circa la mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, in ordine alla quale, peraltro, in considerazione della inosservanza da parte dei ricorrenti del principio di autosufficienza del ricorso, non si comprende il nesso fra detta affermazione e l’integrazione del contraddittorio.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 101 c.p.c. e art. 2697 c.c. nonchè omessa pronuncia su un punto decisivo. Lamentano che la Corte d’Appello, nonostante lo stesso Comune avesse escluso in presenza del P.I.P. l’esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità, non abbia riconosciuto l’integrale ristoro come aveva fatto invece il Tribunale.

La censura, anche se per ragioni sopravvenute e diverse da quelle in essa prospettate, è fondata.

I ricorrenti – nel contestare con il presente motivo l’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità affermata invece dalla Corte d’Appello per effetto del giudicato formatosi in ordine al separato giudizio promosso per la liquidazione dell’indennità di occupazione e ritenuto vincolante nel presente e nel richiedere conseguentemente l’integrale ristoro del danno non riconosciuto dalla sentenza impugnata che ha applicato del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 55 come modificato ed integrato dal D.Lgs. n. 302 del 2002 – hanno impedito il formarsi del giudicato interno sulla questione relativa alla determinazione del danno e prorogato quindi sul punto la pendenza della controversia. Conseguentemente, trova applicazione ai fini in esame la sentenza della Corte Costituzionale n. 349 del 2007 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, comma 7 bis nella parte in cui non assicura un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della Pubblica Amministrazione.

Detta sentenza è stata poi seguita dalla modifica apportata dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 2, comma 89 che ha assicurato anche alle occupazioni appropriative ad esaurimento, per le quali non era stato tempestivamente emesso un valido ed efficace decreto di esproprio alla data del 30.9.1996, il risarcimento commisurato al valore venale del bene.

A tale nuovo quadro normativo la fattispecie in esame non può pertanto sfuggire.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 101 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 865 del 1971; errata applicazione della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis nonchè omessa motivazione. Sostengono che la Corte d’Appello, a fronte della statuizione del Tribunale in ordine alla mancanza di una dichiarazione di pubblica utilità e di un’occupazione quindi senza titolo non ha tenuto conto che: 1) il P.I.P., anche se dovesse valere come dichiarazione di pubblica utilità, era stato solo adottato dal Comune ma non approvato dal Presidente della Giunta Regionale; 2) il Comune non aveva assolto all’onere della prova che gli incombeva, omettendo di produrre il provvedimento di approvazione della Regione e limitandosi a richiamare la Delibera di adozione del P.I.P.; tale mancata produzione non aveva consentito di accertare se fossero stati previsti i termini di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 13; 3) in ogni caso l’eventuale presenza di una dichiarazione di pubblica utilità avrebbe perso ogni efficacia dopo il decorso di dieci anni e di tanto la Corte d’Appello non ha tenuto conto, dando esclusivo rilievo alla precedente sentenza della stessa Corte emessa in tema di indennità di occupazione, malgrado la Delibera del Comune risalisse al 1982 e nel 1992 – quando ancora erano in atto le occupazioni scadute rispettivamente il (OMISSIS) – la trasformazione del bene non fosse più assistita da alcun titolo ormai scaduto.

L’esposto motivo di ricorso – volto a contestare sul piano giuridico l’esistenza di una dichiarazione di pubblica utilità affermata dalla Corte d’Appello sul rilievo del giudicato formatosi sul punto con la sentenza pronunciata in ordine alla richiesta di pagamento dell’indennità di occupazione legittima – deve ritenersi assorbito, non assumendo ormai alcun rilievo ai fini della determinazione del danno, sulla base della considerazioni esposte in relazione al precedente motivo di ricorso, le differenze operate in ragione dei precedenti schemi, non più applicabili, della occupazione appropriativa e di quella usurpativa. Nè si pone nel caso in esame alcuna questione sulla prescrizione, la cui decorrenza si atteggia diversamente in relazione ai due suddetti istituti.

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c.; della L. n. 359 del 1992 e difetto di motivazione. Lamentano che la Corte d’Appello abbia attribuito efficacia di giudicato nel presente giudizio alla sentenza emessa dalla stessa Corte in tema di indennità di occupazione, senza considerare in primo luogo che tale giudizio è stato promosso in data 6.11.1997, vale a dire anteriormente sia a detta ordinanza- sentenza dell’8.1.2000 e sia alla sentenza del Tribunale di Busto Arsizio del 13.12.2001, e che, anche ammesso che vi sia stato un giudicato sull’esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, tale giudicato deve ritenersi limitato al periodo di occupazione legittima ma non anche ai fini in esame in considerazione del limite decennale di validità della dichiarazione di pubblica utilità.

La censura è fondata.

Il problema della vincolatività nel presente procedimento del giudicato assume rilievo per quanto riguarda la determinazione del valore unitario del terreno che la Corte d’Appello ha utilizzato, ritenendolo appunto vincolante nel presente giudizio, mentre risulta assorbita, per le considerazioni espresse sul secondo e nel terzo motivo di ricorso, la deduzione relativa all’asserita inesistenza della dichiarazione di pubblica utilità basata su ragioni diverse da quelle dedotte con il primo motivo.

Orbene, si osserva in primo luogo che la censura, con cui è stata contestata l’esistenza del giudicato, estende inevitabilmente i suoi effetti in ordine a tutte le questioni che hanno riguardato la relativa pronuncia ed in tale ambito rientra certamente quella relativa alla valutazione dell’area.

Al riguardo, in linea di principio va rilevato che il giudice di legittimità può accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla loro diretta interpretazione e valutazione mediante indagini anche di fatto, indipendentemente dalla dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito.

Ciò in quanto il giudicato va assimilato agli elementi normativi, con la conseguenza che la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, essendo sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi (Sez. Un. 24664/07).

Sempre in linea di principio si rileva che il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.), che fa stato fra le parti in ordine alla sussistenza del diritto controverso, presuppone che la precedente causa e quella in atto vi sia identità, oltre che di soggetti, anche di “petitum” e di “causa petendi”.

Nell’ipotesi in esame, se una tale identità è ravvisabile fra i soggetti, non altrettanto può dirsi relativamente agli elementi della domanda (petitum e causa petendi), stante la palese diversità ontologica fra la domanda intesa ad ottenere l’indennità di occupazione legittima e quella di risarcimento del danno basata sull’intervenuto trasferimento del bene all’espropriante, sia esso conseguente ad una occupazione appropriativa od usurpativa.

Ben diversi sono infatti i presupposti (mera occupazione nell’un caso e perdita del bene nell’altro), come ben diversi sono l’oggetto della domanda (indennità di occupazione nell’un caso e risarcimento nell’altro) e le modalità di determinazione dell’importo dovuto.

Nè può considerarsi vincolante un segmento (determinazione al mq.

del terreno) della complessa operazione necessaria per giungere al risultato finale, formandosi il giudicato unicamente sulla attribuzione del bene della vita e non già anche sui criteri utilizzati e su alcuni “passaggi” necessari a tal fine.

Pertanto, esclusa l’esistenza di un giudicato sulla determinazione del valore unitario attribuito al terreno dalla precedente sentenza sull’indennità di occupazione, non rimane che rinviare alle considerazioni espresse in relazione al secondo motivo di ricorso e riaffermare anche sotto tale diverso profilo l’intervenuta irrilevanza del problema relativo alla sussistenza di una dichiarazione di pubblica utilità.

Con il quinto motivo i ricorrenti deducono la illegittimità della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis perchè in contrasto con i principi affermati dalla C.E.D.U..

La dedotta illegittimità deve ritenersi ormai superata a seguito della sentenza, sopra richiamata, della Corte Costituzionale n. 349/07 basata appunto sul contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e, di conseguenza, con l’art. 117 Cost., comma 1.

Con il sesto motivo i ricorrenti lamentano la disposta compensazione delle spese da parte della Corte d’Appello nonostante i numerosi aspetti contraddittori della difesa del Comune che si è giovato unicamente dello “ius superveniens” costituito dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis introdotto dalla L. n. 662 del 1996.

Anche tale censura è da considerarsi assorbita a seguito dell’accoglimento del secondo motivo e della conseguente necessità da parte del giudice di rinvio di provvedere, all’esito, anche alla regolamentazione delle spese.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale il Comune di Somarate sostiene che, avendo la sentenza n. 23/00 della stessa Corte d’Appello in tema di indennità di occupazione considerato di valuta il relativo debito, anche nel presente giudizio al relativo debito debba attribuirsi la stessa natura con esclusione della rivalutazione. Deduce poi, per quanto riguarda le spese del giudizio di appello, che poichè il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi in ordine all’applicabilità della L. n. 662 del 1996 era stato costretto a proporre appello, con la conseguenza che, qualora le spese di entrambi i gradi non fossero ritenute eque, dovrebbero porsi quelle di appello a carico della controparte.

L’esposto motivo di ricorso è, in parte, infondato ed, in parte, assorbito.

Quanto alla natura del debito, non può che disattendersi la dedotta consequenzialità fra l’indennità di occupazione legittima ed il risarcimento del danno per la perdita del bene, non potendo certamente la natura di detta indennità, da considerarsi alla stregua di un debito di valuta, incidere sulla natura del risarcimento del danno che conserva quella di debito di valore con ogni conseguenza in ordine alla necessità della sua rivalutazione.

In ogni caso, per le ragioni esposte in relazione al quarto motivo, nessuna incidenza può assumere con il presente il giudizio relativo all’indennità di occupazione.

Quanto infine alle spese del giudizio di appello, si richiamano le considerazioni già espresse in relazione al sesto motivo del ricorso principale e cioè che competerà al giudice di rinvio ogni decisione al riguardo all’esito di quel giudizio.

In definitiva, in accoglimento del secondo e del quarto motivo del ricorso principale, l’impugnata sentenza deve essere cassata con rinvio, anche per le spese, alla stessa Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che, nel determinare il risarcimento del danno per l’occupazione non seguita da un tempestivo decreto di esproprio, si atterrà ai principi sopra esposti, provvedendo all’integrale ristoro.

PQM

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Riunisce i ricorsi. Accoglie il secondo ed il quarto motivo del ricorso principale. Rigetta il primo motivo del ricorso principale ed il primo profilo dell’incidentale. Dichiara assorbiti gli altri motivi del ricorso principale ed il secondo profilo dell’incidentale.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 aprile 2010

 

 

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