Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8523 del 06/05/2020

Cassazione civile sez. III, 06/05/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 06/05/2020), n.8523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10323/2018 R.G. proposto da:

A.A., rappresentata e difesa dall’Avv. Massimiliano Gamba,

con domicilio eletto in Roma, via Vittoria Colonna, n. 40, presso lo

studio dell’Avv. Damiano Lipani;

– ricorrente –

– contro

R.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Pascucci, e

dall’Avv. Alessandra Biasiotti Mogliazza, con domicilio eletto in

Roma, via Antonio Nibby, n. 11, presso lo studio dell’Avv. Massimo

Biasiotti Mogliazza;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 4173/2017,

pubblicata il 3 ottobre 2017;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio dell’8 gennaio

2020 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. A.A. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Milano R.M. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dallo svolgimento, asseritamente scorretto e infedele, dell’incarico di consulente tecnico di parte a lui affidato nell’ambito di pregresso giudizio per risarcimento danni da sinistro stradale.

Espose a fondamento che: essendo rimasta vittima, nel (OMISSIS), di una caduta su un autobus, si era rivolta al predetto professionista per una valutazione dei conseguenti danni, ottenendone l’indicazione di una residuata invalidità permanente dell’8%; sulla base di tale parere aveva quindi instaurato, nel 2008, giudizio per risarcimento del danno nei confronti della società proprietaria del mezzo e della di lei compagnia assicuratrice; il giudizio non aveva avuto l’esito sperato, avendo il Tribunale stimato, sulla scorta delle conclusioni del c.t.u. (che aveva tenuto conto di pregressi traumi riferiti dalla stessa danneggiata, replicando anche ai chiarimenti richiesti dalla difesa), una invalidità permanente nella ben minore percentuale dell’1,5%; tale sentenza era passata in giudicato, non essendo stato, per un disguido, interposto gravame.

2. Il Tribunale rigettò la domanda e tale decisione è stata confermata, con la sentenza in epigrafe, dalla Corte d’appello di Milano, la quale ha, in sintesi, rilevato che:

i. l’affermazione dell’appellante, secondo la quale R.M. era stato compiutamente informato, fin dalla prima visita, dei precedenti sinistri subiti, era rimasta sfornita di prova, essendo anzi emersa, anche da quanto affermato dal consulente tecnico d’ufficio nel giudizio risarcitorio presupposto, una certa ritrosia della danneggiata ad esporre tutte le circostanze inerenti al suo stato di salute;

ii. non potevano condurre a differente conclusione le istanze istruttorie, reiterate anche nel giudizio di appello, dirette a provare che la A., in occasione della visita fatta nel (OMISSIS), avrebbe informato R.M. di eventi traumatici pregressi, atteso che “tale informazione, priva di supporto documentale idoneo a illustrare il tipo di pregiudizio patito, (era, n.d.r.) del tutto generica”, risultando pertanto “evidente l’assoluta irrilevanza delle prove sul punto dedotte”;

iii. peraltro, la A., nel chiedere il ristoro dei danni conseguiti al dedotto negligente adempimento dell’incarico stragiudiziale, aveva indicato, ad oggetto del preteso credito risarcitorio, il compenso versato al professionista per la redazione del suo parere, quantificato in Euro 300: pretesa, in tali termini, comunque inaccoglibile, “non avendo la parte mai neppure prospettato una domanda di risoluzione del rapporto contrattuale, con condanna del professionista alla restituzione del compenso, neppure in forma implicita”;

iv. nessun nesso causale era ravvisabile, neppure in astratto, tra il tenore della relazione medico-legale e le successive scelte processuali di A.A., essendo queste imputabili alla “valutazione, prettamente giuridica, di competenza della sua difesa dell’epoca”; ciò senza considerare che, peraltro, la maggior voce di risarcimento respinta dal Tribunale era stata, non già quella connessa alla percentuale di invalidità permanente diversamente valutata da R.M., ma quella relativa ad un asserito danno esistenziale, quantificato in ben Euro 50.000, ritenuto dal giudice non dimostrato;

v. neppure con riferimento all’attività svolta nel corso del giudizio presupposto era configurabile il dedotto inadempimento, atteso che “il consulente di parte, titolare di obbligazione di mezzi e non di risultato, non aveva… l’obbligo… di opporsi alle valutazioni del c.t.u., qualora le avesse ritenute fondate sulla base della propria convinzione e delle competenze tecnico-scientifiche in proprio possesso, anche all’esito delle ulteriori emergenze accertate (dall’ausiliario del giudice, n.d.r.)”;

vi. era irrilevante il parere pro veritate successivamente acquisito da altro perito, con conclusioni più favorevoli quanto all’entità del danno permanente, essendo stato reso, questo, a distanza di circa quattro anni dalla conclusione del giudizio risarcitorio, sulla base anche di ulteriori visite specialistiche nelle more effettuate;

vii. benchè, diversamente da quanto indicato dal primo giudice, i chiarimenti in ordine alle conclusioni raggiunte dal c.t.u. risultassero formalmente sollecitati dal difensore della A. e non dal c.t.p., non era dubitabile che, “vertendosi nell’ambito di precisazioni squisitamente di natura medica, i difensori dovessero aver prima consultato il loro esperto per poterle predisporre”;

viii. mancava, comunque, “qualsivoglia prova in ordine al nesso causale esistente tra tale asserita negligenza e i danni lamentati da A.A., non avendo questa in alcun modo dimostrato che eventuali osservazioni del c.t.p. avrebbero determinato un esito diverso del giudizio”; nel caso di specie, “nonostante le osservazioni sollevate dalla difesa di parte, il c.t.u. non (aveva) in alcun modo modificato (le proprie conclusioni, n.d.r.)”, dovendosi conseguentemente ritenere che “anche nell’ipotesi in cui il dottor R. fosse intervenuto personalmente, prospettando le stesse obiezioni alla consulenza tecnica d’ufficio fatte dalla difesa di A.A., il risultato non sarebbe in alcun modo mutato”; peraltro, il parere reso dal consulente tecnico di parte costituiva mera allegazione “priva di autonomo valore probatorio”, dalla quale il giudice di merito ben poteva discostarsi, senza neppure darne esplicita motivazione, una volta ritenuta esaustiva la c.t.u. anche all’esito dei chiarimenti forniti;

ix. peraltro ancora, “il fatto stesso che, con riguardo al medesimo pregiudizio, tre professionisti (fossero) giunti a conclusioni difformi, indicando percentuali di invalidità permanente diversificate, evidenzia(va) ulteriormente il notevole grado di incertezza nella determinazione del danno in esame, caratterizzato da un certo livello di soggettività, e verificato in epoche temporalmente diverse”; tutto ciò accentuando nella specie la rilevanza del libero apprezzamento del giudice e l’insussistenza di un qualsivoglia nesso di causalità tra la condotta del dottor R. e il minor grado di invalidità riconosciuto dal Tribunale di Milano;

x. nell’individuare il danno asseritamente patito, la A. aveva fatto riferimento al mancato conseguimento di un “ragionevole risarcimento”, oltre che alla sopportazione di “costi di causa che altrimenti non avrebbe dovuto sopportare”: correttamente, quindi, il Tribunale aveva colto nella domanda un collegamento causale tra la condotta del consulente tecnico di parte e il risultato del giudizio risarcitorio a suo avviso non soddisfacente.

3. Avverso tale decisione A.A. propone ricorso per cassazione con sei mezzi, cui resiste, depositando controricorso, R.M..

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per non avere la Corte d’appello accolto il principale motivo d’appello, con il quale essa aveva lamentato che il Tribunale, erroneamente qualificando la domanda (come volta a imputare direttamente a colpa del c.t.p. il conseguimento di un risarcimento notevolmente inferiore a quello richiesto), aveva pronunciato su domanda diversa da quella proposta (la quale, osserva, pur nella premessa che l’incarico affidato al proprio consulente comportasse solo un’obbligazione di mezzi e non di risultato, lamentava soltanto che il R. aveva elaborato una perizia sulla base della quale essa aveva promosso l’azione e che poi, in sede giudiziale, in occasione dei lavori peritali, non aveva fatto alcunchè per sostenere e argomentare la propria valutazione, ma anzi l’aveva smentita).

Contesta, sul punto, l’assunto contenuto in sentenza (pag. 13) secondo cui la qualificazione in tali termini della domanda da parte del primo giudice sarebbe giustificata dal fatto che l’attrice, nel dare indicazioni per la quantificazione del danno, avrebbe fatto riferimento alle domande formulate nella causa relativa al sinistro; osserva al riguardo che, in realtà, quei riferimenti miravano solo a offrire “qualche indicazione… per la quantificazione del danno”, da determinarsi in via equitativa.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, in relazione all’affermazione, contenuta in sentenza, secondo la quale il R., nel momento in cui sottopose a visita la A., non era a conoscenza del precedente sinistro dalla stessa subito (donde la non configurabilità di un negligente adempimento dell’incarico per avere, in mancanza di tale indicazione, valutato in eccesso il danno imputabile alla caduta e per avere poi sostanzialmente condiviso le valutazioni della c.t.u. che di tale pregresso incidente tenevano conto).

Lamenta che tale affermazione, e quella che a sua volta la giustifica, secondo cui parte attrice non aveva fornito la prova di avere fornito detta indicazione al convenuto, sono affette da “illogicità evidente”, ponendosi in “perfetta contraddizione” con la decisione della stessa Corte d’appello di non ammettere la richiesta di prova orale avanzata nel giudizio di primo grado con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, diretta per l’appunto a provare tale circostanza.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, falsa applicazione e/o violazione degli artt. 1175,1176,2236 e 2721 c.c., in relazione alla motivazione addotta a giustificazione della decisione di non ammettere le istanze istruttorie formulate nel giudizio di primo grado (data dal rilievo secondo cui l’informazione che si voleva provare essere stata data al R., circa l’esistenza di un pregresso sinistro, risultava comunque generica, in mancanza del “supporto documentale idoneo a illustrare il tipo di pregiudizio patito”).

Osserva, al riguardo, la ricorrente che spettava al professionista approfondire la circostanza e richiedere la documentazione necessaria per una precisa valutazione e che, pertanto, aver attribuito tale onere al cliente è illogico e comporta violazione degli artt. 1175 e 1176 c.c., circa la correttezza e la diligenza da osservare nell’adempimento di contratto d’opera professionale. In tale prospettiva il fatto dedotto nei capitoli di prova avrebbe dovuto considerarsi tutt’altro che irrilevante, risultando piuttosto, se confermato, determinante per confermare l’inadempimento di controparte.

Contesta, inoltre, il riferimento, contenuto in sentenza, ad una presunta ritrosia di essa ricorrente a riferire tutte le circostanze del suo stato di salute, negandone la fondatezza e deducendone comunque l’irrilevanza al fine della ammissione della richiesta prova orale.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’appello disatteso altro motivo di gravame, con il quale si deduceva che, erroneamente ricostruendo il fatto storico, il Tribunale aveva attribuito al Dott. R. e non ai difensori la paternità delle richieste di chiarimenti formulate alla c.t.u..

Lamenta che la doglianza è stata rigettata in base non ad una prova (donde, in tesi, la violazione dell’art. 115 c.p.c.), ma ad una mera supposizione (quella secondo cui tali chiarimenti, bensì effettivamente formalmente sollecitati dai difensori, non potessero tuttavia non derivare da una previa consultazione del consulente di parte), peraltro in contrasto con l’atteggiamento assunto dal consulente di parte nel corso delle operazioni di c.t.u..

5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata messo “incomprensibilmente in relazione la mancata richiesta di risoluzione del contratto e la affermata mancanza di nesso causale tra “il tenore letterale della relazione medico legale… fatta dal R., n.d.r…. e le successive scelte processuali di A.A. di adire in giudizio per risarcimento la società proprietaria…”. Osserva che “è assolutamente illogico affermare che la scelta giuridica di adire l’autorità giudiziaria non sia stata determinata (neppure in astratto) dal contenuto della relazione medico-legale”.

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, in relazione all’affermazione contenuta in sentenza secondo cui manca comunque la prova che l’ipotetica negligenza del Dott. R. avrebbe determinato i danni lamentati dall’appellante.

Osserva al riguardo che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici d’appello, nessun rilievo può assumere la circostanza che il c.t.u., nonostante le osservazioni critiche dei difensori, non abbia modificato in alcun modo la propria valutazione, posto che ciò che rilevava ai fini del giudizio non è quanto fatto dalla difesa, bensì l’assenza di “qualsiasi azione, atto, osservazione, deduzione o controdeduzione da parte del Dott. R.”.

Soggiunge che, al contrario di quanto osservato in sentenza, il contenuto delle perizie che valutarono molto più favorevolmente il danno in questione, dimostra che “molti elementi tecnici sarebbero stati da considerare o da far considerare nell’ambito della c.t.u. da parte di un consulente che avesse svolto con diligenza il proprio incarico”.

7. Il primo motivo è inammissibile, sotto diversi profili, e, comunque, infondato.

7.1. L’inammissibilità discende, anzitutto, dalla inosservanza dell’obbligo di specifica indicazione degli atti richiamati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

La ricorrente omette, invero, di riportare (se non per brevissimi non significativi incisi) il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e, poi, di quello d’appello che egli assume non correttamente interpretati, mancando altresì di localizzare tali atti nel fascicolo processuale.

E’ invece, come noto, necessario che si provveda, oltre che alla specifica indicazione del contenuto dell’atto o documento richiamato, anche alla sua precisa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U 19/04/2016, n. 7701, in motivazione).

7.2. L’aspecificità del motivo è peraltro apprezzabile anche sotto diverso profilo.

Esso, infatti, non si confronta con l’intero contenuto della sentenza ma ne coglie soltanto un passaggio, di rilievo non fondante nel ben più complesso e articolato impianto motivazionale, conseguentemente omettendo di specificare che riflesso abbia avuto la questione posta (circa la corretta interpretazione, da parte del primo giudice, della domanda e del suo fondamento causale) sull’esito del giudizio e di quello d’appello in particolare. Riflesso, comunque, certamente da escludere, in ogni misura, volta che, come del resto dimostrato anche dagli altri motivi di ricorso, la decisione muove da (e comunque coinvolge) l’esame anche di quella che la ricorrente assume come corretta impostazione causale, riferita al dedotto inadempimento dell’incarico professionale inteso come fonte di mera obbligazione di mezzi e non di risultato.

7.3. L’infondatezza del motivo va poi, comunque, predicata alla luce del rilievo che, come questa Corte ha più volte chiarito, non sussiste violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, fissato dall’art. 112 c.p.c., quando il giudice, senza alterare nessuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), proceda alla qualificazione giuridica dei fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e individui le norme di diritto applicabili, anche in difformità rispetto alla qualificazione della fattispecie operata dalle parti. Il giudice, infatti, sempre che non sostituisca la domanda proposta con una diversa (ossia fondata su una diversa causa petendi, con mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, ovvero su una realtà fattuale non dedotta in giudizio dalle parti), ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire il nomen iuris al rapporto dedotto in giudizio. Non sussiste, pertanto, violazione del divieto di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., nell’ipotesi in cui il giudice, anche a prescindere dalle indicazioni delle parti e dalle censure contenute nell’atto d’impugnazione, proceda, com’è accaduto nella specie, alla qualificazione giuridica dei fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e individui le norme di diritto conseguentemente applicabili (Cass. 21/02/2019, n. 5153; 03/08/2012, n. 13945; 17/11/2010, n. 23215; 17/07/2007, n. 15925).

Nel caso di specie non risulta, nè viene a ben vedere nemmeno dedotta, alcuna alterazione dei fatti posti a fondamento della domanda, nè delle ragioni giuridiche che ne sono poste a fondamento (risarcimento del danno da inadempimento di contratto d’opera professionale).

Il Tribunale, e poi la Corte d’appello, l’hanno rigettata sul rilievo, tra l’altro, della impossibilità di ravvisare un collegamento causale tra l’esito sfavorevole del giudizio presupposto (o, meglio, favorevole non nella misura attesa) e il modo in cui la prestazione professionale è stata eseguita; a tale rilievo sono correlate, in sentenza, l’affermazione secondo cui tale prestazione costituisce oggetto di obbligazione di mezzi e non di risultato nonchè quella, evidentemente connessa, secondo cui parte attrice, nel far riferimento al più favorevole esito del giudizio atteso, ha invece, quanto meno implicitamente, abbracciato una diversa qualificazione degli obblighi derivanti dal contratto.

La ricorrente nega di avere inteso sostenere una tale ricostruzione dell’obbligo contrattuale, ma non contesta di avere effettivamente attribuito rilievo all’esito del giudizio, almeno quale riferimento ai fini della valutazione equitativa del danno.

In tale quadro appare dunque evidente che la critica mossa con il primo motivo: a) incide sul piano della sola qualificazione della domanda (in relazione al quale, per quanto detto, non può comunque configurarsi alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato); b) è comunque priva di alcun rilievo censorio, volta che, pur ammesso – e, anzi, a maggior ragione ammettendo – che la stessa parte muovesse dall’assunto che si trattava di obbligazione di mezzi e non di risultato, rimane il fatto che l’esclusa sussistenza di un diretto collegamento causale tra esito del giudizio presupposto e prestazione professionale costituisce coerente ricaduta logica di quella qualificazione.

Il fatto poi che, con quel riferimento, la parte, secondo la tesi esposta in ricorso, intendesse soltanto sollecitare una valutazione equitativa del danno, pone questione totalmente diversa, certamente non riconducibile al tipo di vizio dedotto (essendo appena il caso di rilevare che la decisione, già in primo grado, si fondava sul diniego dell’esistenza di un inadempimento e di un danno ad esso eventualmente imputabile, di per sè ovviamente escludente la possibilità del ricorso ad una liquidazione secondo equità).

8. Passando all’esame degli altri motivi di ricorso, rilievo preliminare assumono quelli che investono la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la configurabilità di un negligente adempimento della prestazione professionale de qua, in ciascuna delle due fasi (stragiudiziale e giudiziale) in cui essa è in giudizio distintamente considerata.

A tale parte della sentenza sono riferiti i motivi secondo, terzo e quarto: i primi due afferendo in particolare alla prestazione resa nella fase stragiudiziale (per la quale, come detto, la Corte d’appello ha escluso la configurabilità di un negligente adempimento in mancanza di prova che il R. fosse stato informato dell’esistenza di precedenti traumi); l’altro invece riguardando la prestazione resa nel corso del giudizio, quale c.t.p..

9. Il primo di tali motivi (ossia il secondo motivo di ricorso) – con il quale si intende chiaramente denunciare (al di là dell’ininfluente erroneo riferimento alla previsione di cui al n. 3, anzichè al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., comma 1: v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931) un error in procedendo per violazione dei doveri decisori – è manifestamente infondato.

E’ appena il caso di rammentare che il vizio di motivazione omessa o apparente, perchè caratterizzata da “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, ovvero perchè “perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, è configurabile (solo) quando la motivazione, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. ex multis Cass. Sez. U. 03/11/2016, n. 22232; Cass. 23/05/2019, n. 13977).

Una tale ipotesi non è certa ravvisabile nella specie, non potendo in particolare considerarsi logicamente inconciliabili tra di loro, da un lato, l’affermazione secondo cui parte attrice non ha offerto prova di aver debitamente informato il professionista, incaricato della stima stragiudiziale del danno, del pregresso sinistro subito; dall’altro, quella della irrilevanza della richiesta di prova testimoniale a tal fine avanzata in primo grado e reiterata in appello.

E’ evidente, infatti, che la prima affermazione, lungi dal contraddire la seconda, è consequenziale ad essa: proprio in quanto l’unica prova a tal fine dedotta è stata ritenuta irrilevante, è affermato in sentenza che nessuna prova idonea era stata richiesta.

10. Il terzo motivo – che investe come detto specificamente la decisione di non ammettere la prova per testi reiterata in appello e ipotizza al riguardo un error iuris in relazione alla giustificazione che ne è stata resa in sentenza – è poi inammissibile.

10.1. Lo è anzitutto per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato, ossia della richiesta istruttoria, in violazione, anche in tal caso, dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

La ricorrente omette invero di trascrivere il contenuto della richiesta istruttoria; omissione, questa, cui non può sopperire la memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., la cui funzione – al pari delle memorie previste dall’art. 380-bis c.p.c., comma 2 e art. 378 c.p.c., sussistendo identità di ratio – è di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrarli (v. da ultimo Cass. 28/11/2018, n. 30760, che ha dichiarato inammissibile il gravame ai sensi dell’art. 366 c.p.c., poichè il ricorrente, che aveva impugnato la sentenza di appello per omessa pronuncia sulla domanda di corresponsione degli interessi, solo con la memoria integrativa aveva precisato in quale atto e fase del giudizio di secondo grado aveva proposto tale domanda; conf. Cass. 07/03/2018, n. 5355; 23/08/2011, n. 17603; v. già, con riferimento all’art. 378 c.p.c., ex multis Cass. 25/02/2015, n. 3780; 15/04/2011, n. 8749; 29/03/2006, n. 7237; 07/03/1996, n. 1793).

10.2. In secondo luogo, occorre comunque rilevare che la mancata ammissione di richiesta istruttoria non può integrare vizio di violazione di legge sostanziale, atteso che a potersi valutare in rapporto alla sua correttezza in iure è la decisione resa sulla domanda giudiziale, non già quella meramente strumentale riguardante le richieste istruttorie, finalizzate solo all’accertamento dei fatti rilevanti.

Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è piuttosto, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, p. 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti-fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 05/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.

Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorchè la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto – come è stato rilevato – “il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta” (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).

In tal caso, “la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perchè siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perchè, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle” (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).

La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).

Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.

La Corte d’appello ha considerato “assolutamente irrilevante” il fatto che si chiedeva di provare (ossia l’essere stato il convenuto informato dell’esistenza di evento traumatico pregresso) poichè “tale informazione, priva di supporto documentale idoneo a illustrare il tipo di pregiudizio patito, (era, n.d.r.) del tutto generica”.

Ciò inevitabilmente attribuisce alla doglianza rilievo censorio non riconducibile al paradigma di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ma a quello di cui al num. 5 e la sottopone ai relativi limiti di deducibilità.

In tale prospettiva, invero, la censura si risolve (al di là della erronea indicazione in rubrica di un error in iudicando) nella prospettazione di una mera quaestio facti, ovvero di un difetto di ricognizione della fattispecie concreta.

Essa, però, si appalesa in tale direzione inammissibile sia per la palese inosservanza del paradigma del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come detto non è nemmeno precisamente indicato il contenuto della richiesta istruttoria e con esso il fatto che si chiedeva di provare), sia, ancor prima, per la preclusione che alla prospettazione di un siffatto vizio deriva, ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012) dall’essere la decisione impugnata confermativa sul punto della decisione di primo grado (c.d. doppia conforme).

11. E’ inammissibile anche il quarto motivo.

La violazione dell’art. 115 c.p.c., è invero dedotta nei termini in cui la giurisprudenza costante di questa Corte ne esclude la deducibilità, risolvendosi piuttosto la doglianza nella mera oppositiva asserzione della plausibilità della valutazione degli elementi acquisiti.

Varrà rammentare al riguardo che, come più volte chiarito da questa Corte, “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Nel caso di specie non può affatto ritenersi che il convincimento espresso in sentenza (circa l’attribuibilità della richiesta di chiarimenti, ancorchè formalmente avanzata dai difensori, quanto meno indirettamente o nella sostanza al consulente tecnico di parte) integri detta violazione della norma processuale, non essendo essa fondata su elementi non introdotti in giudizio nel rispetto del principio dispositivo, quanto piuttosto sul collegamento logico tra gli elementi ritualmente acquisiti al processo alla luce di massime di comune esperienza, quale quella per cui quesiti implicanti cognizioni tecniche proprie di competenze diverse da quelle giuridiche, di regola, non possono provenire dal difensore ma da tecnici di fiducia degli stessi, che è ragionevole identificare in quello che a tal fine era stato già in precedenza nominato.

12. L’inammissibilità del quarto motivo (l’unico che investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la configurabilità di un negligente adempimento anche con riferimento alla prestazione resa dal R. nel corso del giudizio risarcitorio per il quale egli era stato officiato del compito di assistenza tecnica della parte attrice) discende, peraltro, anche dalla sua aspecificità, apprezzabile per non essere attinta da alcuna censura l’ulteriore e automoma ratio decidendi rappresentata dal rilievo che il consulente tecnico di parte “non aveva… l’obbligo… di opporsi alle valutazioni del c.t.u., qualora le avesse ritenute fondate sulla base della propria convinzione e delle competenze tecnico-scientifiche in proprio possesso, anche all’esito delle ulteriori emergenze accertate”.

Può anzi notarsi una evidente contraddittorietà delle tesi censorie sostenute in ricorso, atteso che, da un lato, si ascrive a responsabilità del resistente il fatto di avere erroneamente stimato prima del giudizio una invalidità dell’8% non tenendo conto dei pregressi traumi (sull’implicito presupposto che se ciò fosse stato correttamente fatto non sarebbe stato nemmeno iniziato il giudizio), dall’altro, si ascrive a responsabilità dello stesso professionista non avere poi difeso in giudizio la propria precedente stima (sull’implicito presupposto che questa fosse corretta e che fosse invece erronea e resistibile la stima del c.t.u.).

Palesemente generico – e, come tale, privo di rilievo censorio (peraltro nemmeno illustrato) – è poi il rilievo svolto nell’ambito del sesto motivo circa l’esistenza di “molti elementi tecnici” che il consulente di parte avrebbe potuto considerare e sottoporre alla valutazione del c.t.u..

Oltre a difettare di specificità, l’asserzione non si confronta con la valutazione sul punto espressa dal giudice a quo che, lungi dall’omettere l’esame di tali allegazioni, le ha motivatamente giudicate irrilevanti in quanto riferite a valutazioni intervenute diversi anni dopo, anche sulla base di ulteriori visite specialistiche nelle more effettuate.

13. Le considerazioni che precedono, conducendo necessariamente al rigetto del ricorso, assorbono e rendono ultroneo l’esame delle restanti censure, le quali investono altro e autonomo fondamento motivazionale rappresentato dalla ritenuta insussistenza di nesso causale tra la condotta del consulente di parte e le ipotizzate conseguenze dannose.

14. Il ricorso deve essere dunque rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Si dà atto che, pur ricorrendo una decisione giustificativa del pagamento del doppio contributo, parte ricorrente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Dà atto che, pur ricorrendo una decisione giustificativa del pagamento del doppio contributo, parte ricorrente risulta ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

Così deciso in Roma, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2020

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