Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8518 del 25/03/2021

Cassazione civile sez. III, 25/03/2021, (ud. 10/09/2020, dep. 25/03/2021), n.8518

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 28746/19 proposto da:

D.O., elettivamente domiciliato a Milano, via Lamarmora 42,

presso l’avvocato Daniela Gasparin, che lo difende procura speciale

apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale di Milano 15 agosto 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10 settembre 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. D.O., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

A fondamento della domanda dedusse di avere lasciato il suo Paese per avere subito ripetute vessazioni fisiche e morali dalla seconda moglie di suo padre e dai figli di lei, fino a che un giorno in una colluttazione con la donna questa cadde, sbattè la testa e morì. Lasciò allora la Costa d’Avorio per timore sia della polizia che della vendetta dei figli della vittima.

La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

2. Avverso tale provvedimento D.O. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 bis, ricorso dinanzi alla sezione specializzata, di cui al D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 1, comma 1, del Tribunale di Milano, che la rigettò con Decreto 15 giugno 2019.

Il Tribunale ritenne che:

-) lo status di rifugiato non potesse essere concesso, sia perchè il racconto del richiedente non era credibile nella parte in cui riferiva dei maltrattamenti da parte della famiglia, sia perchè nei fatti narrati dallo stesso ricorrente non era ravvisabile alcuna persecuzione; sia perchè la persecuzione comunque non proveniva dallo Stato o dai soggetti equiparati ai sensi dell’art. 8; sia perchè non possono ritenersi “atti persecutori” le indagini di polizia scaturenti ad un reato;

-) la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non potesse essere concessa, perchè: in Costa d’Avorio non esiste la pena di morte; nell’ordinamento ivoriano la magistratura è sufficientemente indipendente e dotata di adeguate risorse; la tortura è vietata; eventuali accertamenti di polizia non costituiscono di per sè una persecuzione nè un trattamento degradante;

-) la protezione sussidiaria per l’ipotesi di cui D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), non potesse essere concessa perchè nella zona di provenienza del ricorrente non era in atto alcuna situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, ma solo una situazione di “instabilità”, di per sè insufficiente ad integrare gli estremi di cui all’art. 14, lett. c);

-) la protezione umanitaria, infine, non potesse essere concessa perchè il ricorrente non si trovava in una condizione di vulnerabilità. Da un lato, infatti, il suo rientro in Costa d’Avorio non lo avrebbe esposto ad alcuna lesione grave di diritti inviolabili; dall’altro che le attività svolte in Italia, da sole, non bastavano a ritenere “vulnerabile” il ricorrente in caso di rientro in Patria.

3. Il suddetto decreto è stato impugnato per cassazione da D.O. con ricorso fondato su tre motivi.

Il Ministero dell’Interno non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso contiene più censure, così riassumibili:

a) il Tribunale ha illegittimamente rigettato l’istanza di audizione avanzata dal ricorrente, nonostante mancasse la videoregistrazione del colloquio dinanzi alla Commissione Territoriale;

b) il Tribunale ha trascurato di considerare quattro fatti decisivi:

-) che il Paese di provenienza del richiedente “non ha fatto nulla per proteggerlo”;

-) le violenze subite dalla famiglia adottiva;

-) le violenze subite in Libia;

-) la sua malattia;

c) il tribunale ha errato nell’escludere che le violenze subite dai familiari costituissero una “persecuzione”.

1.1. La censura sub (a) è infondata, in virtù del principio già più volte affermato da questa Corte, secondo cui “all’obbligo del giudice di merito di fissare udienza di comparizione, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio (v. Cass., n. 17717/2018), non consegue automaticamente l’obbligo di procedere all’audizione del richiedente (v., in tal senso, Corte di giustizia dell’Unione Europea, 26 luglio 2017, Moussa Sacko contro Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano, p. 49) in presenza di una “domanda di protezione internazionale manifestamente infondata”.

Pertanto, il Tribunale investito del ricorso può esimersi dall’audizione del richiedente asilo se a questi sia stata data la facoltà di renderla avanti alla Commissione territoriale e il giudicante – cui siano stati resi disponibili il verbale dell’audizione ovvero la videoregistrazione e la trascrizione del colloquio attuata secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 14, comma 1, nonchè l’intera documentazione acquisita, di cui all’art. 35, comma 8, D.Lgs. cit. (come nella specie) – debba respingere la domanda per essere la stessa manifestamente infondata (Cass., n. 3029/2019; Cass., 2817/2019; Cass., 5973/2019)” (sono conformi, ex multis, Sez. 3 -, Ordinanza n. 11924 del 19/06/2020, Rv. 658163 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 8931 del 14/05/2020, Rv. 657904 – 01; Sez. 1, Ordinanza n. 33858 del 19/12/2019, Rv. 656566 – 01).

Nè, con riferimento al presente giudizio, viene in rilievo il principio affermato da questa Corte con la sentenza pronunciata da Sez. 2, Ordinanza n. 9228 del 20.5.2020, nella quale si è affermato che è affetta da nullità la sentenza pronunciata in materia di protezione internazionale allorchè, mancando la videoregistrazione del colloquio dinanzi alla Commissione Territoriale, ed essendovi stata istanza in tal senso del richiedente, il Tribunale nè abbia fissato l’udienza, nè abbia consentito al richiedente di compiere le sue dichiarazioni, nè, infine, abbia indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di non procedere alla rinnovazione del colloquio.

Nel caso oggi in esame, infatti, il Tribunale da un lato ha fissato l’udienza di discussione; dall’altro ha espressamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto superfluo procedere ad una nuova audizione dell’odierno ricorrente: e cioè, in primo luogo, la sufficienza degli elementi già raccolti ai fini della decisione; in secondo luogo la circostanza che nel ricorso giurisdizionale il ricorrente non aveva introdotto alcun fatto nuovo, nè alcuno nuovo tema di indagine, rispetto a quelli esposti alla commissione territoriale.

1.2. La censura riassunta al p. 1, sub (b), è in parte inammissibile ed in parte infondata.

E’ infondata nella parte in cui denuncia l’omesso esame dei seguenti fatti:

1) la mancata protezione dell’odierno ricorrente da parte dello Stato di provenienza, contro le vessazioni familiari;

2) le violenze familiari subite.

Il Tribunale ha infatti esaminato le due circostanze, affermando quanto alla prima – che non vi era prova che il ricorrente si fosse rivolto alle autorità; e quanto alle seconde che le violenze familiari non integravano una “persecuzione” per i fini di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8.

La prima delle suddette affermazioni è insindacabile in questa sede, avendo ad oggetto un accertamento di fatto; la seconda è giuridicamente corretta, dal momento che ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato gli “atti di persecuzione” rilevanti sono solo quelli compiuti per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a particolari gruppi sociali, opinioni politiche: nessuno dei quali, per stessa ammissione del ricorrente, sussistente nel caso di specie.

1.3. Il motivo è invece inammissibile nella parte in cui denuncia l’omesso esame dei seguenti fatti:

3) le violenze sofferte dal ricorrente in Libia;

4) le sue condizioni di salute.

Il ricorso infatti non indica quando tali fatti siano stati dedotti in giudizio, come siano stati provati, perchè sarebbero decisivi. Il ricorso inoltre non precisa quali violenze avrebbe subito il ricorrente in Libia, e quale malattia avesse.

Questa tecnica espositiva del motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non è conforme a quanto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831-01), secondo cui chi intenda prospettare in sede di legittimità l’errore commesso dal giudice di merito, e consistente nell’omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ha l’onere pena di inammissibilità di indicare:

a) quale fatto sia stato trascurato dal giudice di merito;

b) quando sia stato dedotto in giudizio, ed in quali termini;

c) come sia stato provato;

d) perchè era decisivo.

Nel caso di specie, le indicazioni sub (b) e (c) non sono presenti nel ricorso.

1.3. La censura riassunta al p. 1, sub (c), è infondata per più ragioni: -) sia perchè i dissidi endofamiliari non costituiscono “atti di persecuzione” ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, per il soggetto da cui provengono e per le ragioni che li muovono;

-) sia perchè quando si deduce un fatto persecutorio commesso da privati, “l’onere di allegazione del richiedente deve essere adempiuto in termini sufficientemente specifici, non potendosi, in mancanza, attivare l’obbligo di integrazione istruttoria officiosa D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27” (Sez. 1, Ordinanza n. 8930 del 14/05/2020, Rv. 657903-01);

-) sia perchè il Tribunale, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, ha accertato che in Costa d’Avorio la magistratura sarebbe stata in grado di fornire adeguata protezione al ricorrente.

2. Col secondo motivo il ricorrente censura il giudizio con cui il Tribunale ha ritenuto inattendibile il suo racconto.

Deduce che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto il suo racconto “incoerente”. Allega che le incoerenze rilevate dal Tribunale in realtà non erano tali.

Nella chiusura del motivo (pp. 17-18 del ricorso), il ricorrente aggiunge che in costa d’Avorio sono comunque violati i diritti umani, e il Tribunale non avrebbe accertato ex officio tale circostanza.

2.1. Nella prima parte il motivo è inammissibile, perchè censura un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, quale è lo stabilire se una persona sia attendibile oppure no.

Nè il giudice di merito risulta avere violato gli adempimenti prescritti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, propedeutici al giudizio di attendibilità del richiedente asilo.

Nella parte restante il motivo è manifestamente inammissibile, in quanto il ricorrente:

-) non indica quali suoi diritti inviolabili sarebbero violati nel paese d’origine;

-) non indica dove e quando abbia introdotto tale questione nel thema decidendum;

-) soprattutto, non indica perchè le fonti di informazione (c.d. COI) richiamate dal Tribunale, per escludere che in costa d’Avorio esista una situazione di intollerabile violazione dei diritti umani, sarebbero inattendibili o superate.

3. Col terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione di 18 diverse norme costituzionali e ordinarie.

Prospetta sia il vizio di violazione di legge, sia quello di omesso esame d’un fatto decisivo.

La censura investe la sentenza di merito nella parte in cui ha rigettato la domanda di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Sostiene che la Corte d’appello avrebbe:

a) trascurato di considerare la sua malattia;

b) trascurato di considerare “la schiavitù subita”;

c) malamente compiuto il giudizio di comparazione tra la situazione del richiedente asilo in Italia, e quella in cui si troverebbe nel caso di rimpatrio.

A tale ultimo riguardo il ricorrente, dopo avere ricordato che il giudice deve procedere d’ufficio all’accertamento della condizione del Paese d’origine del richiedente asilo, a sostegno delle proprie allegazioni trascrive un brano tratto dal sito web “(OMISSIS)”.

3.1. Il motivo è inammissibile nella parte in cui lamenta il vizio di motivazione e l’omesso esame della “malattia” e della “schiavitù subita”: circostanze delle quali – lo si è già rilevato – nulla è dato sapere circa il “come” ed il “quando” siano state introdotte in giudizio.

3.2. Il motivo è inammissibile anche nella parte in cui lamenta l’erroneità del giudizio c.d. “comparativo”: tale giudizio infatti è stato compiuto, il che basta ad escludere il vizio di violazione di legge. Sindacarne, poi, il merito non è questione prospettabile in sede di legittimità.

3.3. In ogni caso, nella parte in cui prospetta la violazione di legge il motivo sarebbe infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 13.11.2019 n. 29459, hanno stabilito quali siano il fondamento, la natura ed i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (nel testo applicabile ratione temporis, oggi abrogato e sostituito dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, art. 1, comma 1, lett. b), n. 2), convertito, con modificazioni, dalla L. 1 dicembre 2018, n. 132).

Tale statuizioni possono così riassumersi:

a) il permesso di soggiorno per motivi umanitari è espressione del diritto di asilo costituzionalmente garantito dall’art. 10 Cost., comma 3 (così il p. 6.1. di “Motivi della decisione” della sentenza sopra ricordata);

b) il permesso di soggiorno per motivi umanitari non è imposto dalla legislazione comunitaria e non può interferire con le forme di protezione internazionale da quella previste: esso è dunque alternativo a queste ultime, nel senso che quando ricorrano i presupposti per la concessione dello status di rifugiato o per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, non vi sarà spazio per la protezione umanitaria, e viceversa (ibidem, p. 9.2);

c) presupposto del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari è il rischio che il rimpatrio del richiedente possa determinare una compromissione dei suoi diritti umani “al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (ibidem, p. 10.1);

d) nel valutare la sussistenza di questo rischio, il giudice di merito tuttavia deve osservare due limiti:

d’) da un lato, non può limitarsi a prendere in esame soltanto livello di integrazione conseguito dal richiedente in Italia;

d”) dall’altro, non può accordare il permesso di soggiorno per motivi umanitari per il solo fatto che, nel paese di provenienza del richiedente, sussista una generale violazione dei diritti umani, perchè così facendo “si prenderebbe (…) in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria” (ibidem, p. 10.2).

3.4. Nel caso di specie tutti e tre gli accertamenti sopra indicati sono stati compiuti; lo stabilire poi se siano stati compiuti bene o male in punto di fatto non è questione prospettabile nella presente sede di legittimità.

4. Non è luogo a provvedere sulle spese, a causa della indefensio della Amministrazione.

La circostanza che il ricorrente sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), in virtù della prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 11 e 131 del decreto sopra ricordato (Sez. 6-3, Ordinanza n. 9538 del 12/04/2017, Rv. 643826-01), salvo che la suddetta ammissione non sia stata ancora, o venisse in seguito, revocata dal giudice a ciò competente.

P.Q.M.

(-) rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2021

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