Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8509 del 31/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 31/03/2017, (ud. 18/01/2017, dep.31/03/2017),  n. 8509

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21300/2013 proposto da:

C.S., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LETIZIA TILLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato SABATINO CIPRIETTI;

– ricorrente –

contro

SORELLE F. ALTA MODA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

SAVOIA 86, presso lo studio dell’avvocato MARCO DI RAIMONDO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3409/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 26/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato SAGNA Alberto con delega depositata in udienza

dell’Avvocato CIPRIETTI Sabatino, difensore della ricorrente che si

riporta agli atti depositati;

udito l’Avvocato DI RAIMONDO Matteo con delega orale, difensore della

resistente che ha chiesto l’inammissibilità in sub rigetto del

ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Roma, con sentenza emessa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., all’udienza del 26 giugno 2012, rigettò la domanda avanzata dalla s.r.l. Sorelle F. Alta Moda, con la quale era stato chiesto condannarsi C.S. a corrispondere il residuo prezzo per la realizzazione di un abito da sposa.

L’attrice veniva giudicato gravemente inadempiente per la totale difformità dell’abito rispetto al modello pattuito, qualificato il contratto come appalto. In particolare si era ritenuto che “La gonna era diritta e non cadeva come nella foto”.

2. La Corte d’appello di Roma, accolto l’appello incidentale della società, condannò l’appellante C. al pagamento del residuo prezzo. Costei aveva adito il giudice d’appello chiedendo pronunciarsi la risoluzione del contratto, restituirsi l’acconto e condannarsi la controparte a risarcire il danno.

Avverso quest’ultima statuizione ricorre per cassazione la C., illustrando quattro motivi di censura. Resiste con controricorso la società Sorelle F. Alta Moda. Entrambe le parti hanno depositato memoria Illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 352 c.p.c., u.c. e art. 281-sexies c.p.c., poichè la Corte territoriale all’udienza fissata per la precisazione delle conclusioni aveva deciso con sentenze emessa ai sensi dell’art. 281-sexies, violando l’art. 352. La richiesta di discussione non proveniva dalle parti e la decisione aveva procurato una violazione del diritto di difesa, stante che la causa veniva per la precisazione delle conclusioni e non già per la discussione orale.

La censura è infondata.

Questa Corte ha più volte chiarito che nel giudizio di gravame dinanzi alla corte d’appello non è applicabile l’art. 281-sexies c.p.c., che disciplina la decisione a seguito di trattazione orale nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, dovendosi invece fare riferimento esclusivo a quanto dettato dell’art. 352 c.p.c., comma 2. Tuttavia, qualora la corte d’appello abbia applicato l’art. 281-sexies citato, seguendo la relativa disciplina, la nullità del procedimento è sanata, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 2, ove, a fronte dell’invito rivolto alle parti di discutere oralmente la causa nella stessa udienza, quest’ultime non si oppongano, nè richiedano il termine per n deposito della comparsa conclusionale c della memoria di replica, in tal modo omettendo di tenere il comportamento processuale necessario per indurre il collegio a procedere nelle forme ordinarie, restando altresì esclusa la violazione dei principi regolatori del giusto processo, ex art. 360-bis c.p.c., comma 1, n. 2, la dove le stesse parti abbiano avuto la possibilità di svolgere appieno le proprie difese (Cfr., Sez. 6-3, n. 21216, 13/10/2011, Rv. 620165; Sez. 3, n. 5891, 13/4/2012, Rv. 621921). Dall’esame del verbale d’udienza, compulsato in questa sede, in ragione della natura della questione, non consta che le parti si siano opposte alla discussione orale, insistendo per il deposito delle comparse conclusionali.

2. Il secondo motivo denunzia violazione dell’art. 276 c.p.c., sul presupposto che la Corte capitolina aveva errato nel risolvere l’impugnazione con la tecnica dell’assorbimento, esaminando in pregiudizialità l’appello incidentale.

La doglianza non ha pregio.

Invero, la scelta motivazionale, giustificata dalla priorità logica delle questioni sottoposte in via incidentale al vaglio d’appello, non si mostra foriera di alcuna violazione di legge, nè ha importato compressione dei diritti dell’appellante principale. La logica incompatibilità delle tesi sostenute con l’appello principale rispetto quelle perorate in via incidentale, non solo rende ampiamente ragione della scelta operata dalla Giudice, ma, quel che più rileva, fa escludere che da essa possa essere derivata un mancato o un inadeguato esame delle prospettazioni impugnatorie principali. Si è, in definitiva, trattato di un ragionamento motivazionale per incompatibilità, la cui validità è stata più volte ribadita in questa sede (Sez. 2, n. 20311, 4/11/2011, Rv. 619134; Sez. 1, n. 21612, 20/972013, Rv. 628031; Sez. 1, n. 17956, 11/972015, Rv. 636771). Nè l’argomentazione mediante la tecnica dell’assorbimento, peraltro corrispondente ad un auspicabile approccio sintetico, ma pienamente soddisfacente, merita le rivolte critiche (cfr. Sez. 2, n. 17219, 9/10/2012, Rv. 591349).

3. Con la terza censura la ricorrente si duole della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4).

Secondo l’assunto impugnatorio la Corte d’appello aveva giudicato decisiva una circostanza che neppure era stata dedotta dalla controparte. Nella specie la sentenza aveva escluso rientrare nello schema tipico dell’eccezione di inadempimento di cui all’articolo 1460 c.c., le doglianze della C., in quanto reputate contrarie buona fede. In altri termini l’aver contestato che il modello consegnato risultava totalmente differente rispetto a quello pattuito, nonostante che nel corso della seconda prova la predetta aveva provveduto anche ad acquistare il velo, il non aver fissato un congruo termine perchè la casa di moda potesse conformarsi alla pretesa, avevano costituito per i Giudici di secondo grado scostamenti dallo schema tipico di cui all’art. 1460 c.c.

Poichè un tale ragionamento era stato svolto d’ufficio sussisteva per la ricorrente la lamentata violazione di legge.

La censura non coglie nel segno poichè, in disparte di ogni altra considerazione, gli argomenti riportati non costituiscono la parte integrante di un’eccezione in senso proprio, rilevata erroneamente d’ufficio, bensì un segmento del costrutto argomentativo diretto a verificare la fondatezza della eccezione di inadempimento, di cui all’art. 1460 c.c.. Per vero, è del tutto evidente non essere stati introdotti d’ufficio fatti estintivi, impeditivi o modificativi del rapporto, ma, ben diversamente essersi proceduto alla qualificazione e vaglio dell’eccezione.

Con il quarto ed ultimo motivo la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Secondo la ricorrente la Corte territoriale aveva dato corso solo ad una sommaria disamina delle risultanze istruttorie, senza, tuttavia, valutare il complesso delle emergenze probatorie. Non si era considerato che la C. aveva chiesto il confezionamento d’un abito da sposa non seriale, che avesse determinate caratteristiche, in particolare indicando un modello tratto da una rivista. Il vestito che, invece, si pretendeva consegnarle appariva “realizzato in unico pezzo, con le spalline sottili, di linea classica: in altri termini, un prodotto che sconvolgeva totalmente la linea scelta”, senza che fosse stata accettata la proposta di apportare opportune modifiche. La ricorrente aveva dato prova di ciò producendo la foto del modello confezionato e con le acquisite deposizioni testimoniali.

Non può farsi a meno di evidenziare che, come spesso accade, con il ricorso si propone l’approvazione di una linea interpretativa dei fatti di causa alternativa rispetto a quella fatta propria dal giudice, così sperdendosi del tutto il senso del sindacato di legittimità.

Come reiteratamente affermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’àmbito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Da qui appare evidente che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, si configura nella ipotesi di carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo. Parimenti, il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere intrinseco alla sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. 2, n. 3615 del 13/04/1999, Rv. 525271). Con l’ulteriore implicazione che il vizio di contraddittorietà della motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può essere riferito a parametri valutativi esterni, quale il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio Sez. 1, n. 1605 del 14/02/2000, Rv. 533802). Peraltro, osservandosi che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, resta integrato solo ove consti la carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo; mentre il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere proprio della sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. L., n. 8629 del 24/06/2000, Rv. 538004; Sez. 1, n. 2830 del 27/02/2001, Rv. 544226).

Si è condivisamente ulteriormente precisato, così da scolpire nitidamente l’ambito di legittimità, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Sez. L, n. 2272 del 02/02/2007,Rv. 594690). Proprio per ciò non è ammesso perseguire con il motivo di ricorso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, finalità sicuramente estranea alla natura e allo scopo del giudizio di cassazione. Infatti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., fra le tante, Sez. L., n. 9233 del 20/4/2006, Rv. 588486 e n. 15355 del 9/8/2004, Rv. 575318).

La spiegazione alternativa proposta con il ricorso, fronteggiante una insanabile contraddittorietà della motivazione, deve essere tale da apparire l’unica plausibile e la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 20322 del 20/10/2005, Rv. 584541; Sez. L, n. 15489 dell’11/7/2007, Rv. 598729). Lo scrutinio di merito resta, in definitiva, incensurabile, salvo l’opzione al di fuori del senso comune (Sez. L., n. 3547 del 15/4/1994, Rv. 486201); la stessa omissione non può che concernere snodi essenziali del percorso argomentativo adottato (cfr., Sez. 2, n. 7476 del 4/6/2001, Rv. 547190; Sez. 1, n. 2067 del 25/2/1998, Rv. 513033; Sez. 5, n. 9133 del 676/2012, Rv. 622945, Sez. U., n. 13045 del 27/12/1997, Rv. 511208).

Nel caso di specie, peraltro, la Corte locale ha compiutamente spiegato le ragioni del proprio decidere. La C., per quanto si impegnasse ad affermare la non corrispondenza dell’abito a quanto pattuito, non era stata in grado di provare le caratteristiche concordate e, quindi, lo scostamento da esse. Non avevano superato la vaghezza la denuncia di un abito con spalline sottili (peraltro compatibile con la stagione pienamente estiva) e tantomeno quella di aver realizzato un modello totalmente differente, non essendo stati nemmeno lontanamente specificati i parametri a cui il manufatto si sarebbe dovuto attenere. Nè, il vaglio delle acquisite prove testimoniali, aveva permesso di superare la già descritta genericità.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese legali che, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività svolte, possono liquidarsi siccome in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai Sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2017

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