Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8493 del 14/04/2011

Cassazione civile sez. un., 14/04/2011, (ud. 01/03/2011, dep. 14/04/2011), n.8493

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente Sezione –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. DI CEREO Vincenzo – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 10321/2009 proposto da:

C.F. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FEDERICO CESI 21, presso lo studio dell’avvocato TAORMINA

Carlo, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, CONSIGLIO

DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LUCCA;

– intimati –

avverso la decisione n. 224/2008 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 29/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/03/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE.

La Corte:

Fatto

PREMESSO IN FATTO

che:

– si è proceduto nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c.;

– la relazione depositata in cancelleria è del seguente tenore:

“Rilevato che l’avv.to C.F. ha proposto ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso la decisione del Consiglio Nazionale Forense del 23 dicembre 2008, notificatagli il 25 marzo 2009, confermativa della pronunzia del Consiglio dell’Ordine Forense di Lucca che gli aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione per mesi due dall’esercizio della professione forense in quanto ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro di cui all’art. 5 del codice deontologico forense ed in particolare del divieto dell’uso di espressioni sconvenienti ed offensive previsto dall’art. 20 dello stesso codice, nonchè del dovere di correttezza e rispetto dei terzi contemplato dall’art. 56 del medesimo codice, avendo offeso l’onore e il decoro del rag. M.L., a lui rivolgendosi con la seguente espressione: “E comunque ridicola sarà quella troia di tua madre”, immediatamente dopo sputandogli in faccia (in (OMISSIS));

considerato che il ricorrente ha concluso l’illustrazione dei quattro motivi di ricorso con la formulazione, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., dei seguenti quesiti:

1) “Dica la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite se le regole comportamentali previste per l’esercizio della professione forense dagli artt. 5, 20 e 56 del Codice Deontologico debbano essere ritenute applicabili anche all’avvocato che si trovi in un contesto extraprofessionale”.

2) “nel giudizio disciplinare davanti al Consiglio Nazionale forense, debba o meno dichiararsi la non punibilità per reciprocità o stato d’ira, determinato dalla provocazione altrui, dell’avvocato che sia stato leso in contestualità giuridicamente rilevante nella sua dignità personale senza motivo”;

3) “Dica la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite se il giudice, richiesto di decidere sull’oggetto della causa, previa esplicita richiesta di nuova valutazione delle risultanze probatorie in atti, debba considerarsi aver correttamente adempiuto all’obbligo di motivazione del provvedimento giurisdizionale mediante l’apodittica affermazione della correttezza del procedimento acquisitivo svolto dal Consiglio dell’Ordine di Lucca”;

4) “Dica la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite se nell’applicare la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale il giudice abbia o meno correttamente motivato in ordine alla proporzionalità ed adeguatezza della medesima”;

premesso che questa Suprema Corte ha ripetutamente enunciato il principio che i quesiti di diritto imposti dalla norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, comma 1, secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie;

che il quesito di diritto costituisce pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità (in tal senso Cass. S.U. n. 14385/2007, n. 22640/2007, n. 3519/2008, n. 26020/2008, Sez. Ili n. 11535/2008, id. n. 24339/2008);

che nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera del giudice di legittimità possa condurre ad una decisione di segno diverso e che ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte in funzione nomofilattica;

che il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura cosi come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo; non può avere una formulazione generica nel senso di richiedere alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma; non può risolversi in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso “sub iudice” (vedi sul punto S.U. n. 11650/2008, n. 28536/2008), ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizioni di rispondere ad esso con l’enunciazione di una “regula iuris” che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata;

ritenuto che i quesiti sopra riportati non rispondono agli enunciati requisiti in quanto non contengono alcun puntuale riferimento all’impianto motivazionale della sentenza impugnata e non consentono di individuare con precisione quale sia il diverso principio di diritto sostenuto nei motivi di ricorso;

che pertanto ricorre nel caso di specie l’ipotesi prevista dall’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5, ultima parte (inammissibilità del ricorso per difetto, nella formulazione dei quesiti, dei requisiti previsti dall’art. 366 bis c.p.c.); atteso che d’altronde ricorre nella fattispecie che ne occupa altresì l’ipotesi prevista dalla prima parte della suindicata norma (manifesta infondatezza del ricorso) giacchè l’impugnata pronunzia ha adeguatamente motivato la sussistenza dell’illecito disciplinare attribuito al C. in considerazione della indubbia e manifesta gravita del suo comportamento, altamente lesivo della dignità e decoro dell’intera classe forense, infliggendogli una sanzione ad esso proporzionata;

ritenuto pertanto che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., le Sezioni Unite debbano pronunciarsi con ordinanza in Camera di Consiglio;

– il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lucca non ha svolto attività difensive nel giudizio di legittimità;

– il ricorrente e il pubblico ministero non si sono avvalsi delle facoltà di cui all’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

– il collegio concorda con le argomentazioni svolte nella relazione e le fa proprie;

– il ricorso pertanto deve essere dichiarato inammissibile;

– non vi è da provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, nel quale l’intimato non ha svolto attività difensive.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 1 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2011

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