Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8488 del 14/04/2011

Cassazione civile sez. un., 14/04/2011, (ud. 16/11/2010, dep. 14/04/2011), n.8488

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sezione –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15027/2010 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

G.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

BELSIANA 71, presso lo studio dell’avvocato D’ASCOLA VINCENZO, che la

rappresenta e difende, per procura speciale del notaio Dott. Maria

Pontorieri di Reggio Calabria, rep. 7.215 del 29/10/2010, in atti;

– resistente con procura –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 67/2010 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 20/04/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/11/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE DI PALMA;

uditi gli avvocati Marinella DI CAVE dell’Avvocatura Generale dello

Stato, Nico Vincenzo D’ASCOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Il Ministro della giustizia, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso depositato il 21 maggio 2010, ha impugnato per cassazione – deducendo quattro motivi di censura -, nei confronti della Dott.ssa G.C., magistrato con funzioni di giudice presso il Tribunale di Reggio Calabria, e del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura n. 67/2010 del 9-20 aprile 2010, con la quale la Sezione, pronunciando sull’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione nei confronti della Dott.ssa G., incolpata di plurime violazioni al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. a), g) e q), sulle conclusioni del Procuratore generale – il quale aveva chiesto la condanna dell’incolpata alla sanzione disciplinare della censura -, ha assolto la Dott.ssa G. dalle incolpazioni contestatele, per essere risultati esclusi gli addebiti.

Tali addebiti erano stati formulati dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione che – con note del 27 maggio e del 22 settembre 2008, del 27 marzo e del 27 aprile 2009, e con contestazione suppletiva in sede di interrogatorio dell’11 giugno 2009 – aveva promosso l’azione disciplinare nei confronti della Dott.ssa G., incolpandola: 1) degli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. a) e g), segnatamente consistiti: a) nell’avere omesso di depositare, nel termine di novanta giorni, le sentenze pronunciate nei confronti di imputati in stato di custodia cautelare: F. G. e M.G., condannati con sentenza del 30 gennaio 2007 – depositata con circa otto mesi di ritardo – alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione e di Euro 1.600,00 di multa per il delitto di cui agli artt. 99 e 110 cod. pen., art. 628 cod. pen., commi 2 e 3; A.D. e L.D., condannati con sentenza del 6 novembre 2006 – depositata con un ritardo di un anno e tre mesi – alla pena di dodici anni e quattro mesi di reclusione per i delitti di omicidio, ricettazione, porto e detenzione illegali di arma; b) nell’avere omesso di depositare, nel termine di novanta giorni, le sentenze pronunciate nei confronti degli imputati R.C., F.V., I. N. e V.V., condannati, unitamente ad altri imputati, con sentenza del 21 novembre 2006 – depositata con un ritardo di un anno e dieci mesi circa – a pene varie per i delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione ed altri, all’esito di altrettanti giudizi abbreviati, con conseguente cessazione della misura coercitiva, non avendo detto ritardo consentito di osservare il termine di legge previsto dagli artt. 303 e 304 cod. proc. pen., per la pronuncia della sentenza di appello; 2) degli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, e art. 2, comma 1, lett. g), segnatamente consistiti: 2.a.) nell’avere ritardato, in modo reiterato, grave ed ingiustificato il deposito, nei procedimenti n. 3023/04 a carico di C.T. + 8 e n. 4632/04 a carico di D.S.G. + 1, di ulteriori due provvedimenti giurisdizionali adottati nei confronti di imputati detenuti, omettendo di depositare le relative sentenze, così rendendo concretamente ipotizzabile il rischio di una possibile scarcerazione di detti imputati; 2.b) nell’avere, pur dopo numerosi solleciti, ispezioni ministeriali e procedimenti disciplinari, ritardato in modo reiterato, grave ed ingiustificato il deposito di provvedimenti giurisdizionali decisi nel corso delle sue funzioni di giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Reggio Calabria, in particolare non tenendo fede all’impegno assunto il 13 ottobre 2008 circa il “programma di lavoro di rientro dalle pendenze” esistente al momento di lasciare le predette funzioni per assumere quelle di componente della Corte di assise e del Tribunale misure di prevenzione di Reggio Calabria (contestazione suppletiva effettuata in sede di interrogatorio dell’11 giugno 2009).

1.1. – La dott.ssa G.C., benchè ritualmente intimata, non si è costituita nè ha svolto attività difensiva.

2. – In particolare, per quanto in questa sede ancora rileva, la Sezione disciplinare del C.S.M.:

A.1) in punto di fatto, ha dato atto che la dott.ssa G., a fronte delle contestazioni addebitatele, ha fatto presente: di aver svolto, per quasi dieci anni, le funzioni presso la sezione G.I.P./G.U.P. del Tribunale di Reggio Calabria, cioè in un ufficio notoriamente caratterizzato da un contesto lavorativo particolarmente impegnativo e da una situazione organizzativa connotata dalla inadeguatezza sia del numero dei magistrati e del personale sia delle dotazioni; di essere stata costantemente impegnata nelle plurime, impegnative, attività proprie dell’ufficio, segnate da un particolare livello di difficoltà in ragione del tipo di criminalità esistente nel territorio (con conseguente esposizione anche a rischi personali); di aver dovuto fare a meno – fin dal 2004, in più fasi e per lunghi periodi – dell’apporto collaborativo dell’assistente, prima ammalatasi e poi deceduta nel settembre 2006;

di essersi occupata nel tempo di molti provvedimenti cautelari e processi impegnativi; di aver continuato a svolgere le funzioni di G.I.P. in procedimenti di particolare difficoltà pur essendo stata destinata dal 21 maggio 2007 all’ufficio G.U.P.; di aver dato la propria disponibilità nel 2008 – prima di passare ad altro incarico (corte di assise e tribunale di prevenzione), e pur essendo impegnata nella stesura di molte motivazioni – per la trattazione del processo sulla cosiddetta “strage di (OMISSIS)” del (OMISSIS), riuscendo a definire la relativa udienza preliminare il 14 agosto 2008; A.2) sempre in punto di fatto, ha dato altresì atto che l’incolpata ha fatto anche presente che: il ritardo nel deposito della sentenza nei confronti degli imputati R. ed altri era stato determinato non solo dall’impegno nel citato procedimento sulla strage di (OMISSIS), ma anche dal deposito nel periodo 23 ottobre-8 novembre 2008 di altre sentenze, nonchè dal fatto che la decisione del 26 novembre 2008 aveva comportato lo studio di 31 faldoni e una motivazione di 641 pagine, cui dovevano essere aggiunte altre 90 pagine relative alla pronuncia di non luogo a procedere, emessa nel medesimo procedimento per altri quattro imputati di concorso esterno in associazione mafiosa ed altro; che anche le sentenze di indubbia complessità erano state redatte con precisione e senza i cosiddetti “taglia-incolla”, come dimostrato dal buon esito del processo nei successivi gradi di giudizio; che la mole di lavoro svolta negli anni aveva comportato, dopo l’udienza preliminare del processo cosiddetto “(OMISSIS)”, un vero e proprio crollo fisico che le aveva impedito di osservare in modo puntuale il piano di rientro predisposto il 13 ottobre 2008, piano che, comunque, era stato progressivamente attuato; che la complessità dei procedimenti trattati aveva comportato difficoltà e disfunzioni di cancelleria;

B) ancora in punto di fatto, ha dato altresì atto della produzione e del contenuto dei seguenti documenti: 1) la statistica relativa alle sentenze emesse dall’incolpata negli anni dal 2003 al 2008; 2) la nota del personale di cancelleria in data 29 maggio 2006, da cui emergevano l’inadeguatezza numerica dello stesso personale amministrativo in servizio presso la sezione, la particolare gravosità dei compiti svolti ed il rilievo dell’assenza della assistente della stessa incolpata; 3) la nota dell’allora presidente della sezione in data 6 marzo 2006, relativa alle complessive condizioni lavorative dei giudici assegnati alla sezione; 4) la delibera della settima commissione del C.S.M., concernente l’elevatissimo e complesso carico di lavoro, il sottodimensionamento dell’organico della stessa sezione, l’impegno e lo spirito di sacrificio dei magistrati ad essa addetti; 5) le relazioni dell’Ispettorato generale del Ministero della giustizia in data 10 aprile 2007 e del capo dell’Ispettorato in data 28 giugno 2007, da cui risultavano ritardi nel deposito di provvedimenti a carico di diversi magistrati, ma nel contempo le difficoltà operative della sezione G.I.P. e l’impegno profuso da tutti i magistrati, la loro produttività adeguata e così il carattere giustificabile dei ritardi stessi; 6) la nota del presidente della sezione per l’anno giudiziario 2008 con la quale, oltre ad evidenziarsi le medesime problematiche già rappresentate, si citavano procedimenti (anche dell’interessata) di assoluto rilievo e si rappresentava il “formidabile impegno profuso nel … settore G.U.P.”; 7) la relazione del presidente della corte di appello per la inaugurazione dell’anno giudiziario 2008, con la quale si rappresentavano “il sacrificio e la dedizione oltre misura” di magistrati e personale a fronte di pesantissimi carichi di lavoro; 8) la nota del presidente della sezione in data 26 marzo 2008, con la quale si spiegava il ritardo della dott.ssa G. nel deposito della motivazione della sentenza emessa nel procedimento n. 4157/06 con la necessità di redigere due ponderose ordinanze di custodia cautelare, una delle quali particolarmente urgente in relazione al timore di una “vera e propria guerra di mafia”; 9) la nota in data 19 maggio 2008, con la quale il presidente della sezione chiedeva ai giudici un “impegno straordinario” per lo smaltimento delle richieste di decreti penali di condanna; 10) la nota con cui, ancora in data 20 maggio 2008, il presidente della sezione continuava a segnalare la inadeguatezza dell’organico; 11) la nota in data 11 luglio 2008, con la quale il presidente della sezione segnalava al presidente del tribunale che era pervenuto il procedimento relativo alla cosiddetta “faida di S. Luca” e che la dott.ssa G., pur essendo ormai prossima al trasferimento, “denotando non comune spirito di servizio”, aveva dato la sua disponibilità a gestire la fase dell’udienza preliminare (peraltro “in pieno periodo feriale”); 12) lo stralcio di un quotidiano del 9 agosto 2008, relativo alle dichiarazioni con cui il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria faceva presente che gli organici dei locali uffici giudiziari erano sottostimati e che i risultati delle inchieste della Procura, i quali richiedevano “una massa di lavoro enorme”, “si scaricavano sugli uffici dei G.I.P e G.U.P. …”;

C) sempre in punto di fatto, ha rilevato: che il teste dott. L. S., all’epoca presidente di sezione del Tribunale di Reggio Calabria, aveva chiarito che l’interessata, assegnata nel settembre 2008 alla sezione misure di prevenzione ed alla prima corte di assise, sino al dicembre 2008 aveva svolto le funzioni di componente a latere di quest’ultima e dal successivo gennaio si era occupata anche del settore misure prevenzione svolgendo con grande scrupolo una elevata mole di lavoro; che il teste dott. Gr.N., all’epoca componente della locale D.D.A., dopo aver fatto cenno alla elevatissima mole delle indagini da lui condotte in materia di criminalità organizzata, aveva spiegato che la dott.ssa G. era stata sistematicamente il “suo” G.I.P., facendo un “superlavoro”, leggendo “dalla prima all’ultima pagina” e dando prova di impegno e professionalità; che dai dati statistici, anche se non completi, emergeva comunque, quanto allo specifico impegno della dott.ssa G., che la medesima si era occupata sia di richieste di misure cautelari particolarmente gravose, sia di procedimenti definiti con rito abbreviato relativi a reati di elevata complessità e di particolare allarme sociale; che dall’analisi del prospetto relativo alle sentenze “di rito abbreviato” si evinceva che, nell’attuare l’impegnativo “piano di rientro”, la dott.ssa G. aveva nel complesso attribuito priorità ai procedimenti con detenuti, proseguendo poi con quelli in cui vi erano persone agli arresti domiciliari, ed infine con i restanti, relativi ad imputati in condizione di libertà;

D) in punto di diritto, ha ritenuto che: 1) alla fattispecie, si applica il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), il quale prevede come illecito disciplinare il reiterato, grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti; 2) in proposito, vigente l’abrogato del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, secondo la giurisprudenza della Sezione disciplinare, i ritardi, anche gravi, non rilevavano disciplinarmente qualora non fossero da ricondursi a scarsa laboriosità o a negligenza, al riguardo occorrendo tener conto degli aspetti inerenti alla complessiva organizzazione dell’ufficio, del carico di lavoro sia quantitativo sia qualitativo gravante sul magistrato, di tutte le funzioni espletate, di altre situazioni peculiari e di eventuali problemi di salute; 3) nel caso di specie, i ritardi contestati sono reiterati e obiettivamente gravi o in termini assoluti o in relazione alla necessità di evitare il verificarsi della decorrenza dei termini di custodia cautelare; 4) tuttavia, per valutare il possibile rilievo disciplinare di tali ritardi, occorre anche tenere conto che: dalla ampia documentazione acquisita e dalle deposizioni dei testi (della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare) è risultato che per anni la dott.ssa G. – in un ufficio notoriamente caratterizzato da gravi disfunzioni e costretto a far fronte, con un organico inadeguato, all’elevata (per quantità e per qualità) mole di lavoro proveniente dalla locale Procura della Repubblica – è stata impegnata con continuità nella trattazione, sovente non programmabile, sia di richieste cautelari sia di processi molto impegnativi, comportanti anche adempimenti e sforzi organizzativi che non trovano riscontro nelle statistiche; ciononostante, il magistrato ha costantemente dato prova di scrupolo e di disponibilità, ad esempio tenendo nell’agosto 2008, in prossimità del passaggio ad altro incarico, un processo le cui particolari difficoltà – del tutto verosimilmente fonte anche di particolare stress – emergono chiaramente dalla deposizione del dott. Gr.; 5), in tale contesto, appare del tutto comprensibile anche il verificarsi di una condizione di temporaneo affaticamento che, coincidendo con il periodo in cui doveva essere attuato il programma di recupero, ha finito con l’incidere sui ritardi che ne erano oggetto; 6) conclusivamente, l’esistenza dei rilevanti, plurimi, concomitanti e protrattisi nel tempo, fattori di difficoltà – tenuto conto dell’impegno comunque profuso dall’incolpata – è tale da giustificare i ritardi contestati; 7) con specifico riferimento all’addebito di non aver rispettato il “piano di recupero” (“ictu oculi troppo impegnativo in quanto comportante la definizione di tutto l’arretrato in poco tempo”) – sebbene il magistrato addetto al settore penale abbia il dovere di recuperare i ritardi secondo uno schema predisposto, finalizzato ad evitare, per quanto possibile, il verificarsi di particolari conseguenze -, la dott.ssa G., pur in condizioni fisiche non ottimali ed al contempo dedita con serietà alle nuove funzioni, ha dato prova di costante impegno nel recupero, sino alla totale definizione dell’arretrato, nel complesso effettuata secondo uno schema diligentemente organizzato, sicchè anche la “gestione” del “piano di rientro” può ritenersi non connotata da carenze di rilievo disciplinare; 8) in definitiva, ritenuti giustificati i ritardi, vanno escluse sia la violazione del dovere di diligenza sia la negligenza inescusabile, presupposto rispettivamente delle contestate ipotesi di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g).

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (con cui deduce: “art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b; inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q, quanto al rilievo della laboriosità nella individuazione della condotta disciplinarmente rilevante di ritardi gravi e reiterati”), il ricorrente Ministro della giustizia critica la sentenza impugnata, sostenendo che i Giudici a quibus hanno erroneamente trasposto i principi elaborati nel vigore del R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, all’interno del nuovo quadro normativo rappresentato dal D.Lgs n. 109 del 2006, senza trarre le dovute conseguenze dagli elementi di novità introdotti da tale disciplina. Al riguardo, il ricorrente sottolinea che: a) solo per l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a), è espressamente richiesta dalla legge una valutazione del giudice, mentre nelle altre ipotesi di illecito disciplinare è la stessa legge ad individuare direttamente le condotte contrastanti con i doveri del magistrato individuati dall’art. 1 del medesimo decreto legislativo; b) da ciò consegue che il legislatore del 2006, mediante la tecnica della tipizzazione, ha configurato l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. q), come “di mera condotta”, essendo la relativa fattispecie legale ancorata ad un dato puramente formale – il ritardo -, senza necessità, come affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite (viene richiamata la sentenza n. 8615 del 2009), di accertare gli effetti in concreto prodotti sul prestigio dell’ordine giudiziario o sugli altri valori tutelati; c) la sentenza impugnata, invece, ha inteso verificare, con riferimento alla laboriosità, l’esistenza di una negligenza diversa, ulteriore ed estranea rispetto a quella concretizzata dai ritardi, senza considerare che il bene tutelato dalla norma è non già quello della complessiva efficienza produttiva dell’amministrazione giudiziaria, bensì quello costituzionalmente tutelato – della ragionevole durata dei processi, oggetto di possibile compromissione anche da parte del magistrato operoso.

Con il secondo (con cui deduce: “art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b:

inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q, quanto al rilievo ex se del carico di lavoro ai fini della, giustificazione del ritardo, indipendentemente da una incidenza causale, non ovviatile dal magistrato con i mezzi a sua disposizione”) e con il terzo motivo (con cui deduce: “art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b: inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q, quanto al rilievo ex se degli altri fattori di difficoltà individuati dal giudice disciplinare”) – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione -, il ricorrente critica ancora la sentenza impugnata, sostenendo che i Giudici a quibus hanno erroneamente dato rilievo ex se al carico di lavoro ed agli altri “fattori di difficoltà” ai fini della giustificazione del ritardo.

Al riguardo, il ricorrente sottolinea che: a) l’ingiustificatezza dei ritardi considerata dall’art. 2, comma 1, lett. q), riguarda le cause e le circostanze che hanno determinato i ritardi o che hanno concorso a determinarli (d’altra parte, non necessariamente gravità e reiterazione devono concorrere, essendo possibile la sanzionabilità di un solo ritardo abnorme), in quanto la disposizione si riferisce all’inesigibilità, da verificare in concreto, di una condotta diversa, ovvero alla dimostrazione dell’inevitabilità del ritardo grave, ancorchè il magistrato abbia fatto quanto nelle sue possibilità per evitarlo; b) peraltro, la natura di clausola generale della disposizione impone la ricerca di riferimenti idonei a dare contenuto al precetto, altrimenti privo di reale valenza selettiva, con la conseguenza che è necessario fare riferimento agli approdi interpretativi raggiunti dalla Corte di cassazione in materia e, perciò, coordinare tra loro il principio, secondo cui il ritardo, ancorchè sistematico, non può da solo integrare un illecito disciplinare – occorrendo anche stabilire se il ritardo sia ingiustificato in relazione al carico di lavoro ed alla situazione personale, anche di salute, del magistrato -, ed il principio per cui il comportamento che, per quantità di casi ed entità dei ritardi sia tale da violare ogni soglia di ragionevolezza, è di per sè espressione di colpa del magistrato, quanto meno in relazione alla cattiva organizzazione del proprio lavoro, pur nell’ambito complessivo delle condizioni soggettive e oggettive nelle quali lo stesso magistrato opera; c) tali principi, tuttavia, non sono stati adeguatamente osservati dalla Sezione disciplinare, laddove questa ha ritenuto giustificati per i carichi di lavoro ritardi che, per avere raggiunto il limite temporale di quasi due anni e per avere provocato la scarcerazione di pericolosi detenuti, avrebbero dovuto invece essere considerati irragionevoli; d) d’altra parte, il parametro della giustificazione del ritardo non potrebbe mai trovare fondamento nella laboriosità del magistrato che si riferisce, invece, al diverso parametro della diligenza di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1; e) inoltre – posto che gli elementi giustificativi, per essere tali, dovrebbero assurgere a valenza di forza maggiore, oggettivamente impeditiva dell’adempimento dei doveri del magistrato -, la sentenza impugnata ha fatto applicazione del differente parametro dei “fattori di difficoltà”, evidentemente di per se soli non ostativi all’adempimento del dovere ma solo espressivi di circostanze peggiorative del contesto di lavoro, con la conseguenza che l’illecito potrebbe escludersi – in considerazione di un eccezionale carico di lavoro, della disfunzione dell’ufficio di appartenenza ovvero dell’esercizio di una pluralità di funzioni -, solo se tali situazioni abbiano in concreto ad incidere, con stretto nesso di causalità, sulla possibilità di un tempestivo deposito dei provvedimenti, mentre la gravosità del lavoro potrebbe comunque valere da giustificazione allorquando sia lo stesso magistrato a gestire e ad organizzare il proprio lavoro senza tener conto dell’esigenza di depositare in tempi ragionevoli i provvedimenti assegnatigli; f) la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di tali principi, in quanto non hanno formato oggetto di specifico esame nè l’organizzazione del lavoro da parte dell’incolpata, nè l’incidenza causale del carico di lavoro sui ritardi, nè le eventuali disfunzioni dell’ufficio di appartenenza in riferimento alle segnalazioni al capo dell’ufficio circa l’impossibilità di adempiere il proprio dovere.

Con il quarto motivo (con cui deduce: “art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e: in subordine, rispetto al secondo ed al terzo motivo, mancanza o manifesta illogicità della motivazione quanto alla concreta incidenza causale dei fattori di difficoltà ed alla inesigibilità di una diversa condotta del magistrato”), il ricorrente, in via subordinata rispetto ai precedenti motivi secondo e terzo, critica la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di motivazione, sostenendo che i Giudici a quibus hanno omesso di motivare – o, comunque, hanno motivato in modo illogico – in ordine alla concreta incidenza causale dei fattori di difficoltà ed alla inesigibilità di una diversa condotta, incidenza non considerata nella stessa sentenza se non con argomentazioni generiche ed incomplete.

2. – Il ricorso merita accoglimento, nei sensi di seguito specificati.

2.1. – In relazione ad alcuni dei profili di censura argomentati dal ricorrente con il primo, con il secondo e con il terzo motivo del ricorso, concernenti l’interpretazione del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. g), (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative funzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonchè modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma della L. 25 luglio 2005, n. 150, art. 1, comma 1, lett. f), appare indispensabile ricostruire il quadro normativo in cui si inserisce tale disposizione, la quale stabilisce: “Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni: (…) q) il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”.

Trattandosi di interpretare una disposizione contenuta in un decreto legislativo delegato, vale come generale criterio ermeneutico – al di là dello specifico problema del sindacato di costituzionalità sul contrasto tra la legge di delegazione ed il decreto legislativo, ai sensi dell’art. 76 Cost. – il costante orientamento della Corte costituzionale, per il quale è indispensabile procedere all’interpretazione, innanzitutto, delle norme della legge di delegazione che determinano i principi ed i criteri direttivi, al fine di individuarne la complessiva ratio, e, in secondo luogo, delle norme poste dal legislatore delegato attribuendo loro il significato compatibile con detti principi e criteri direttivi (cfr., ex plurimis e tra le ultime, la sentenza n. 293 del 2010, n. 8.4. del Considerato in diritto).

Con la L. 25 luglio 2005, n. 150, art. 1, comma 1, lett. f), (Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonchè per l’emanazione di un testo unico), il Governo è stato delegato ad adottare, “con l’osservanza dei principi e dei criteri direttivi di cui all’art. 2, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8, uno o più decreti legislativi diretti a: (…) f) individuare le fattispecie tipiche di illecito disciplinare dei magistrati, le relative sanzioni e la procedura per la loro applicazione (…)”.

in particolare, per quanto in questa sede rileva: a) la citata L. n. 150 del 2005, art. 2, comma 6, lett. a), stabilisce: “Nell’attuazione della delega di cui all’art. 1, comma 1, lett. f), il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: a) provvedere alla tipizzazione delle ipotesi di illecito disciplinare dei magistrati sia inerenti l’esercizio della funzione sia estranee alla stessa, garantendo comunque la necessaria completezza della disciplina con adeguate norme di chiusura, nonchè all’individuazione delle relative sanzioni”; b) il numero 1) della lettera b) dello stesso art. 2, comma 6, individua, quale ulteriore criterio direttivo: “b) prevedere: 1) che il magistrato debba esercitare le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio”; c) la successiva lett. c), al numero 4, determina un altro specifico criterio direttivo: “e) …

prevedere che costituiscano illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni: (…) 4) il reiterato, grave o ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni (…)”; d) infine, lo stesso comma 6 dell’art. 2, al numero 7 della lettera h), determina, quale criterio direttivo, quello di “prevedere che siano puniti con la sanzione non inferiore alla censura: (…) 7) il reiterato o grave ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”.

La delega è stata tra l’altro specificamente attuata, riguardo al criterio direttivo sub c), con il su riportato del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q) – che forma lo specifico oggetto del presente esame – e, riguardo a quello sub d), con il citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 1, lett. g), il quale stabilisce: “Si applica una sanzione non inferiore alla censura per: (…) g) il reiterato o grave ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”.

Questo essendo il quadro normativo di riferimento, deve essere immediatamente rilevato che non v’è letterale conformità tra la legge di delegazione ed il decreto delegato quanto alla descrizione della fattispecie di illecito disciplinare del “ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”:

infatti, mentre il criterio direttivo di cui alla L. n. 150 del 2005, art. 2, comma 6, lett. c), n. 4, individua la condotta illecita nel “reiterato, grave o ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni (…)”, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), individua invece tale condotta nel “reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”, sostituendo alla disgiuntiva “o”, prevista dalla legge di delegazione, la congiunzione “e”.

Tale discrasia – che, alla luce della formulazione dell’illecito disciplinare configurato dal legislatore delegato (“reiterato, grave e ingiustificato ritardo”), appare chiaramente connotato dalla concomitante ricorrenza della “reiterazione” e della “gravità” del ritardo, nonchè dalla mancanza di “giustificazione” dello stesso, qualificato come reiterato e grave – potrebbe indurre il dubbio che il legislatore delegante intendesse invece prefigurare (“reiterato, grave o ingiustificato ritardo”) tre o quantomeno due distinte condotte illecite disciplinarmente rilevanti: il ritardo reiterato “o” grave “o” ingiustificato, nonchè il ritardo “reiterato e grave” “o” ingiustificato. Tale dubbio è supportato anche dalla analoga discrasia sussistente nell’ambito del D.Lgs. n. 109 del 2006 – tra la formulazione della norma precettiva in esame – secondo cui costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” – e quella della norma sanzionatoria di cui al citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 1, lett. g), secondo cui “Si applica una sanzione non inferiore alla censura per: (…) g) il reiterato o grave ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”; infatti, la lettera di tale norma sanzionatoria parrebbe ipotizzare due distinte condotte illecite, caratterizzate rispettivamente dal ritardo reiterato “o” grave.

A quest’ultimo riguardo, tuttavia, le sezioni unite di questa Corte, con la sentenza n. 16557 del 2009 nell’enunciare il principio secondo cui, in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, la circostanza che il ritardo nel deposito di provvedimenti possa essere dipeso dalla gravosità e varietà dei compiti affidati al magistrato, o dal suo stato di salute, o da carenze organizzative dell’ufficio, o da altre cause che possano comunque giustificarlo, viene in rilievo ai fini della qualificazione del comportamento come illecito, ma non incide sulla sanzione minima, che il legislatore ha voluto che sia la “censura” quante volte il ritardo, apparendo, ad un tempo, reiterato, grave e ingiustificato, integri la fattispecie tipica di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), hanno sottolineato che la “imperfetta formulazione della disposizione che contempla la sanzione (…) non può essere letta – per evidenti ragioni di coerenza del sistema – nel senso che, ai fini della irrogazione della sanzione, il ritardo sia | reiterato o grave, in quanto sarebbe in tal caso paradossalmente consentito sanzionare un comportamento che non presenti tutti gli elementi che definiscono l’illecito” e che “all’uso improprio della disgiuntiva o (…) neppure può ricollegarsi la portata di una diversa accezione semantica, rispetto alla disposizione che definisce l’illecito, dell’uso del medesimo termine grave, con potenziale portata abrogativa della norma che impone la sanzione minima della censura”, concludendo che “Si tratta, più semplicemente, di un imperfetto coordinamento legislativo della seconda disposizione norma sanzionatoria con la prima (norma precettiva)” (n. 2.1. dei Motivi della decisione).

Per risolvere la discrasia tra la disposizione della legge di delegazione – secondo la quale costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni “il reiterato, grave o ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” – e quella del decreto delegato in esame, secondo la quale, invece, costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”, deve soffermarsi l’attenzione sul termine “ingiustificato”, che segue la disgiuntiva (della legge di delegazione) e la congiunzione (del decreto delegato).

Al riguardo, risultano d’ausilio alcune pronunce della Corte costituzionale, che hanno analizzato il significato normativo di espressioni analoghe al termine “ingiustificato” – quali “senza giustificato motivo” “senza giusta causa”, “senza giusto motivo”, ed altre simili -, definite “clausole negative a carattere elastico”, che sono inserite frequentemente dal legislatore penale nel corpo di norme incriminatrici.

La Corte, ad esempio – nel dichiarare non fondata, in riferimento all’art. 25 Cost., ed in particolare al principio di determinatezza della fattispecie penale, la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, comma 5 ter (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), il quale punisce con l’arresto da sei mesi ad un anno “lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore ai sensi del comma 5 bis”, ha affermato che:

a) le suddette “clausole negative a carattere elastico” “sono destinate in linea di massima a fungere da valvola di sicurezza del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorchè – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione l’osservanza del precetto appaia concretamente inesigibile in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori”; b) “Il carattere elastico della clausola si connette, nella valutazione legislativa (…), alla impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a giustificare l’inosservanza del precetto. Una simile elencazione sconterebbe immancabilmente – a fronte della varietà delle contingenze di vita e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi – il rischio di lacune: lacune che, peraltro, tornerebbero non a vantaggio, ma a danno del reo, posto che la clausola in parola assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo legale”;

c) “L’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito penale di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero – come nella specie – di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato art. 25 Cost., comma 2, sub specie del principio di determinatezza della fattispecie penale, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento, mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (cfr. la sentenza n. 5 del 2004, n. 2.1. del Considerato in diritto).

In altra occasione, la stessa Corte – nel dichiarare non fondata, in riferimento all’art. 27 Cost. (presunzione di non colpevolezza) e art. 24 Cost. (diritto di difesa), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 cod. pen. (Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli) e nel ribadire i principi affermati con la sentenza ora menzionata – ha ulteriormente precisato che: a) “al di là della formulazione letterale della previsione punitiva (dei quali non giustifichi l’attuale destinazione), ciò che la medesima prefigura è solo un onere di allegazione, da parte dell’imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante”; b) nella specie, “Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell’ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni senza giustificato motivo, sicchè, nell’anzidetta clausola – quella dell’assenza di giustificato motivo – non può (…) scorgersi una inversione dell’onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004)” (cfr. la sentenza n. 225 del 2008, n. 10. del Considerato in diritto).

Tali principi possono essere applicati anche nell’interpretazione della fattispecie di illecito disciplinare de qua, a prescindere dal fatto che essi sono stati specificamente affermati in riferimento a norme incriminatrici. A ciò inducono i seguenti e concorrenti rilievi: a) innanzitutto, conformemente ai su richiamati principi e criteri direttivi della legge di delegazione n. 150 del 2005 – di “individuare le fattispecie tipiche di illecito disciplinare dei magistrati, le relative sanzioni e la procedura per la loro applicazione”, e di “provvedere alla tipizzazione delle ipotesi di illecito disciplinare dei magistrati sia inerenti l’esercizio della funzione sia estranee alla stessa, garantendo comunque la necessaria completezza della disciplina con adeguate norme di chiusura, nonchè all’individuazione delle relative sanzioni” -, il D.Lgs. n. 109 del 2006, con gli artt. da 1 a 4, “ha provveduto alla sistematica tipizzazione dell’illecito disciplinare del magistrato”, determinando “un radicale mutamento” del quadro normativo rispetto al precedente sistema della disciplina dei magistrati (cfr. la sentenza delle sezioni unite n. 14697 del 2010; cfr., altresì, la stessa Relazione governativa al decreto legislativo in esame, laddove afferma: “La disciplina di diritto sostanziale è improntata al principio della tipizzazione dell’illecito, finalizzato a conferire una maggiore certezza alla materia in parola”); b) in secondo luogo, tale (tendenzialmente completa) tipizzazione degli illeciti disciplinari dei magistrati – volta segnatamente a rafforzare le garanzie della loro indipendenza -, considerata unitamente alla “disciplina del tutto particolare” che la Costituzione, nel Titolo 4^, della Parte 2^, riserva agli stessi magistrati “per la natura della loro funzione” (cfr., ex plurimis, la sentenza della Corte costituzionale, n. 224 del 2009), comporta il sostanziale avvicinamento di tale materia a quella penale e, quindi, l’applicabilità alla stessa materia delle garanzie assicurate dall’art. 25 Cost., comma 2, ivi compresa quella della (sufficiente) determinatezza della fattispecie.

Se, dunque, nella fattispecie disciplinare descritta dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), – “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” -, l’espressione “ingiustificato” “assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo legale” (Corte costituzionale, sentenza n. 5 del 2004 cit.), corrispondenti cioè ad un ritardo “reiterato, grave”, è evidente che tale espressione deve essere necessariamente correlata a tale condotta, per escluderne la sanzionabilità, dalla congiunzione “e”.

Invece, nella fattispecie disciplinare descritta dal criterio direttivo di cui alla Legge di Delegazione n. 150 del 2005, art. 2, comma 6, lett. c), n. 4, – “il reiterato, grave o ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni” -, l’espressione “ingiustificato” preceduta dalla disgiuntiva “o” comporta, come già osservato, la previsione di tre oppure di due distinte condotte illecite disciplinarmente rilevanti:

ritardo reiterato “o” grave H”” ingiustificato, oppure ritardo “reiterato e grave” “o” ingiustificato. In entrambi i casi, l’autonoma fattispecie di “ritardo ingiustificato” tout court – per la quale sarebbe sanzionabile anche un solo ritardo così genericamente qualificato – risulterebbe sia palesemente irrazionale rispetto alle altre fattispecie di ritardo reiterato e/o grave, sia descritta in modo tale da non rispettare il principio di determinatezza della fattispecie disciplinare.

Da tanto consegue che la disgiuntiva “o” non può che essere frutto di un errore del legislatore delegante. La riprova di ciò sta nella formulazione del criterio direttivo che segue immediatamente quello in esame: infatti, il secondo periodo di tale criterio direttivo stabilisce – questa volta correttamente, alla luce delle considerazioni che precedono – che il legislatore delegato deve prevedere come distinto ed autonomo illecito disciplinare “il sottrarsi in modo abituale e ingiustificato al lavoro giudiziario”;

questo criterio direttivo è stato attuato quasi letteralmente con il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. r), (“il sottrarsi in modo abituale e ingiustificato all’attività di servizio”).

L’ulteriore conseguenza è che la disposizione del decreto delegato in esame non collide con il criterio direttivo determinato dalla legge di delegazione, così correttamente interpretato. Ne risulta altresì confermata, sotto altro profilo, la giustezza della soluzione affermata con la su menzionata sentenza di queste sezioni unite n. 16557 del 2009, quanto al potenziale contrasto tra la norma precettiva in esame e la norma sanzionatoria di cui al citato D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 1, lett. g).

2.2. – Le precedenti considerazioni consentono, pertanto, di ribadire che l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), – il ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni – è caratterizzato dalla concomitante presenza dei requisiti positivi della “reiterazione” – cioè della ripetizione nel tempo, in riferimento ad atti diversi – e della “gravità” – da qualificarsi in tal modo secondo i criteri stabiliti dal secondo periodo della disposizione in esame -, nonchè dal requisito negativo della “non giustificazione”, nel senso dianzi precisato.

2.3. – Tanto considerato, nella specie, la Sezione disciplinare del C.S.M. – dopo aver premesso che, ai sensi del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18 “i ritardi, anche gravi, non rilevavano disciplinarmente qualora non siano da ricondursi a scarsa laboriosità o negligenza”, e che al riguardo “occorre tener conto degli aspetti inerenti la complessiva organizzazione dell’ufficio, del carico di lavoro sia quantitativo sia qualitativo gravante sul magistrato, di tutte le funzioni espletate, di altre situazioni peculiari e di eventuali problemi di salute”; aver dato atto che “il procedimento riguarda tutti casi di ritardo nel deposito di sentenze”, e aver ritenuto che “nel caso di specie i ritardi contestati sono reiterati e obiettivamente gravi o in termini assoluti dal minimo di un anno circa al massimo di due anni, con conseguente – in alcuni casi – scadenza dei termini di efficacia di misure coercitive o in relazione alla necessità di evitare il verificarsi della decorrenza dei termini di custodia cautelare” – ha assolto la Dott.ssa G. dalle incolpazioni contestatele, “per essere risultati esclusi gli addebiti”, affermando che “l’esistenza degli indicati rilevanti, plurimi, concomitanti e protrattisi nel tempo fattori di difficoltà, preso altresì atto dell’impegno profuso dall’interessata, inducono il Collegio a valutare come giustificati i ritardi contestati”.

Ciò sulla base dei concorrenti rilievi che la Dott.ssa G.:

1) per molti anni è stata impegnata con continuità nella trattazione, sovente non programmabile, sia di richieste cautelari sia di processi molto impegnativi, comportanti anche adempimenti e sforzi organizzativi che non trovano riscontro nelle statistiche, in un ufficio notoriamente caratterizzato da gravi disfunzioni e costretto a far fronte, con un organico inadeguato, all’elevata (per quantità e per qualità) mole di lavoro proveniente dalla locale Procura della Repubblica di Reggio Calabria; 2) ciononostante, ha costantemente dato prova di scrupolo e di disponibilità, ad esempio tenendo nell’agosto 2008, in prossimità del passaggio ad altro incarico, un processo le cui particolari difficoltà – del tutto verosimilmente fonte anche di particolare stress – emergono chiaramente dalla deposizione del collega Dott. Gr.; 3) in tale contesto, ha comprensibilmente accumulato una condizione di temporaneo affaticamento che, coincidendo con il periodo in cui doveva essere attuato il programma di recupero, ha anche finito con l’incidere sui ritardi che ne erano oggetto.

E’ evidente che alla base di tale ratio decidendi e dei rilievi che ne sono a fondamento – tutti volti a supportare il giudizio di “giustificazione” dei ritardi – sta il principio di diritto, che riflette la giurisprudenza formatasi nella vigenza della previsione di cui al R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18, secondo cui l’illecito disciplinare era integrato dal comportamento del magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’Ordine giudiziario: principio di diritto – esplicitamente richiamato dalla sentenza impugnata -, per il quale i ritardi nel deposito dei provvedimenti giurisdizionali, anche se consistenti e gravi, non rilevano sul piano disciplinare se i fatti ascritti siano stati determinati non da scarsa laboriosità o da negligenza, ma dal carico di lavoro eccezionale gravante sul magistrato, dovendosi prendere in considerazione la complessiva situazione di lavoro del magistrato incolpato sotto i profili quantitativi e qualitativi, la complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e tutte le funzioni svolte, oltre quelle interessate dai ritardi.

Ma tale principio collide con consolidati orientamenti delle sezioni unite di questa Corte, soprattutto per gli illeciti disciplinari – quali quelli di specie – consumati tutti nella vigenza del D.Lgs. n. 109 del 2006.

Al riguardo, secondo tali orientamenti, deve essere ribadito che: a) il ritardo nel deposito delle sentenze e degli altri provvedimenti giurisdizionali integra l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. q), qualora sia – indipendentemente da ogni altro criterio di valutazione – oltre che reiterato e grave, anche ingiustificato, come tale intendendosi – in ogni caso – il ritardo che leda il diritto delle parti alla durata ragionevole del processo di cui agli artt. 111 Cost., comma 2, e 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; b) diversamente da quanto avveniva nella vigenza del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18, perchè tale illecito sia integrato, non rilevano – quali condizioni per la sua stessa configurabilità – nè la compromissione del prestigio dell’Ordine giudiziario o il venir meno della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, nè la sussistenza di scarsa laboriosità o di negligenza dello stesso magistrato, nè la valutazione della complessiva organizzazione dell’ufficio di appartenenza e di tutte le funzioni svolte dal magistrato oltre quelle interessate da detto ritardo, in quanto nessuno di tali elementi è previsto dalla fattispecie tipica del nuovo illecito disciplinare; c) tali circostanze di fatto – laboriosità o no del magistrato incolpato, suo carico di lavoro, organizzazione dell’ufficio giudiziario di appartenenza, funzioni giurisdizionali concretamente svolte – ed altre ancora, possono rilevare, se adeguatamente dimostrate, quali indici di “giustificazione” del ritardo, vale a dire quali situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo che determinino la concreta “inesigibilità” del rispetto dei termini stabiliti per il deposito dei provvedimenti giurisdizionali; d) in ogni caso, la soglia di giustificazione deve ritenersi sempre superata in concreto, qualora il ritardo leda il su richiamato diritto delle parti alla durata ragionevole del processo;

e) quando, per quantità di casi ed entità del ritardo, risulti superata in concreto tale soglia di giustificazione, il comportamento del magistrato è di per sè espressione di colpa, quantomeno in relazione alla incapacità di organizzare in modo idoneo il proprio lavoro (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 16557 del 2009, 7000, 14697 e 19704 del 2010).

Nella specie, tali principi non sono stati osservati dalla Sezione disciplinare, laddove questa: ha ritenuto giustificati, per i carichi di lavoro della Dott.ssa G., ritardi eccedenti limiti temporali da un anno circa a quasi due anni e determinanti la cessazione di efficacia di misure coercitive in processi di criminalità organizzata, omettendo di valutare tali ritardi alla luce del criterio del superamento o no della soglia di ragionevolezza; ha applicato, per valutare gli elementi di giustificazione dei ritardi, un criterio – “fattori di difficoltà” – estraneo a quello stabilito dalla legge, che prevede invece esclusivamente quello della sussistenza o no di “giustificati motivi” dei ritardi medesimi; conseguentemente, ha omesso di valutare se gli indici di giustificazione dei ritardi, addotti dall’incolpata o comunque emergenti dagli elementi probatori acquisiti, fossero tali da determinare la “inesigibilità” della condotta doverosa (tempestivo deposito dei provvedimenti giurisdizionali).

3. – La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata, con rinvio alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura che, nel riesaminare il caso, si uniformerà ai principi di diritto qui ribaditi. In particolare – come già indicato in analoga fattispecie con la richiamata sentenza n. 14697 del 2010 -, il Giudice del rinvio, nel valutare l’esistenza di circostanze che abbiano determinato in concreto un giustificato ritardo nel deposito dei singoli provvedimenti, costituite dall’eccessivo carico di lavoro, potrà anche utilizzare dei criteri comparativi, mettendo a confronto il numero dei provvedimenti depositati dalla incolpata con quelli depositati da altri magistrati dello stesso ufficio che abbiano operato in condizioni comparabili, beninteso con il rispetto del limite di giustificazione costituito dal carattere ragionevole del ritardo.

4. – Le spese del presente giudizio possono essere compensate tra le parti, tenuto conto del mutato quadro normativo e del conseguente mutamento della giurisprudenza richiamata dalla Sezione disciplinare.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della magistratura.

Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 16 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2011

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