Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8466 del 31/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 31/03/2017, (ud. 11/01/2017, dep.31/03/2017),  n. 8466

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14520-2015 proposto da:

B.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA COLA DI RIENZO 28, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO

BOLOGNESI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

T.I. S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G.

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCO RAIMONDO

BOCCIA, ROBERTO ROMEI, ENZO MORRICO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9448/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/11/2014 R.G.N. 7661/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/01/2017 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato RICCARDO BOLOGNESI;

udito l’Avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.P. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma con cui venne accolta l’opposizione proposta dalla T.I. s.p.a. avverso il decreto ingiuntivo notificato all’azienda per il pagamento delle retribuzioni successive alla sentenza che aveva dichiarato illegittimo il trasferimento del medesimo da Telecom a HP DCS s.r.l., ordinandone la reintegra nel posto di lavoro.

Resisteva la T.I. s.p.a.

Con sentenza depositata il 27 novembre 2014, la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame, evidenziando la natura risarcitoria delle somme richieste dal B..

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il lavoratore, affidato ad unico motivo, poi illustrato con memoria.

Resiste la T.I. s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il B. denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 e 1223 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto la natura risarcitoria delle richieste economiche avanzate a seguito dell’inottemperanza della società all’ordine di reintegra, costituente una richiesta di adempimento, con conseguente detraibilità dell’aliunde perceptum.

1.1- Il ricorso è infondato.

Trattandosi nella specie di reintegra nel posto di lavoro L. n. 300 del 1970, ex art. 18 (nel testo precedente le modifiche apportatevi dalla L. n. 98 del 2012, ma successivo a quelle apportatevi dalla L. n. 108 del 1990), deve rilevarsi che la stessa norma qualifica come risarcimento del danno quello subito dal lavoratore per effetto del mancato ripristino del rapporto, sia pur commisurato alla retribuzione globale di fatto “dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”.

Non giova dunque richiamare, come fa il ricorrente al fine di criticarla, la giurisprudenza di questa Corte in materia di accertata nullità della cessione di ramo di azienda, da cui parimenti, secondo questa stessa Corte, derivano effetti unicamente risarcitori in favore del lavoratore (ex aliis, Cass. n.19740/2008, Cass. n. 19490/14, n. 19606/14, n. 19298/14, n. 18995/14). Resta poi il principio secondo cui la retribuzione è comunque collegata alla effettiva prestazione lavorativa, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro, sicchè in mancanza di quest’ultima è dovuto solo il risarcimento del danno (cfr., ex aliis, Cass. n. 18955/14, Cass. ord. n.11095/16, Cass. n. 14542/14).

1.2- Nè risulta fondata la questione di legittimità costituzionale, sub specie di parità di trattamento, sollevata dal ricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c., circa le conseguenze meramente risarcitorie anche nel caso di accertata nullità della cessione del ramo di azienda rispetto a quelle della mora credendi prevista per il diritto delle obbligazioni in generale.

Deve infatti considerarsi, come sopra evidenziato, che nel caso in esame la sentenza che dichiarò l’illegittimità della cessione del ramo di azienda ordinò altresì la reintegrazione del B. nel suo posto di lavoro con le conseguenze previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18. Esse, nel testo applicabile ratione temporis, prevedono espressamente il diritto del lavoratore reintegrato al risarcimento del danno dal momento del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, superando la precedente distinzione tra le somme dovute (a tutolo risarcitorio) dal licenziamento sino alla sentenza di reintegra e quelle maturate successivamente (aventi natura retributiva).

In sostanza si sospetta della legittimità costituzionale dell’art. 18 S.L. laddove, anche nel testo attuale (commi 2 e 4, risultanti dalle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012) è prevista, a seguito della reintegra, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, con espressa deduzione dell’eventuale aliunde perceptum.

La tesi del ricorrente è che, costituendo l’art. 18 dello Statuto una norma eccezionale rispetto al diritto comune delle obbligazioni, essa possa essere sospettata di incostituzionalità, differenziando la situazione del lavoratore debitore rispetto a quella di qualunque altro debitore, con i conseguenti effetti della mora credendi.

Alla questione potrebbe già rispondersi che proprio la specialità della norma, che ne impone l’applicazione in caso di reintegra del lavoratore licenziato, evidenzia la specificità del contratto di lavoro rispetto agli altri rapporti obbligatori, sicchè non sussiste alcuna disparità di trattamento trattandosi di situazioni non uguali. A tal fine basterà ricordare le numerose norme che derogano, (stavolta) in favore del lavoratore subordinato, ai principi applicabili agli altri contratti a prestazioni corrispettive, quali ad esempio la traslazione del rischio in ipotesi di mancata effettuazione della prestazione lavorativa per fatto non imputabile al creditore, quali la malattia, l’infortunio, le ferie, etc.

I principi elaborati da questa Corte in materia di dichiarata nullità della cessione di ramo di azienda, e quello di cui all’art. 18 S.L., si basano sul concetto che non può spettare, salve le eccezioni stabilite dalla legge, la retribuzione in assenza della prestazione lavorativa, e non possono essere sospettati di incostituzionalità (sub art. 3 Cost.), stante l’evidente distinzione tra il contratto di lavoro subordinato e ogni altro contratto previsto dal codice civile, come ora accennato.

Ciò è tanto più vero nel caso, come quello di specie, in cui il lavoratore ponga a disposizione del datore di lavoro, energie lavorative che sta in realtà già prestando, retribuito, in favore di altro datore di lavoro (nella specie la HP DCS s.r.l., per cui è pacifico che il B. iniziò a lavorare dopo la cessione e sino a tutt’oggi), con la conseguenza che, attraverso il richiamo ai principi della costituzione in mora previsti per il diritto delle obbligazioni in generale, egli verrebbe inammissibilmente a percepire una doppia retribuzione, dalla società cessionaria e dalla cedente, senza neppure una esplicita deduzione circa l’inferiorità di quella erogata dalla prima rispetto a quest’ultima (comunque azionabile in via risarcitoria).

Deve a tal fine richiamarsi quanto affermato da questa Corte, in un caso assolutamente identico, da ultimo nella sentenza n. 8514/15: “La questione degli effetti della dichiarazione di nullità della cessione di ramo d’azienda è stata affrontata da questa Corte nella sentenza n. 19740 del 2008, cui occorre dare continuità, che ha ritenuto che l’obbligazione del cedente che non provveda al ripristino del rapporto di lavoro deve essere qualificata come risarcimento del danno, con la conseguente detraibilità dell’aliunde perceptum. Costituisce infatti un principio che si è andato consolidando nell’elaborazione di questa Corte quello secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive nel quale l’erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto, ciò che avviene ad esempio nei casi del riposo settimanale (art. 2108 c.c.) e delle ferie annuali (art. 2109 c.c.). In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa dà luogo, nel contratto di lavoro, ad una scissione tra sinallagma genetico (che ha riguardo al rapporto di corrispettività esistente tra le reciproche obbligazioni dedotte in contratto) e sinallagma funzionale (che lega invece le prestazioni intese come adempimento delle obbligazioni dedotte) che esclude il diritto alla retribuzione – corrispettivo e determina a carico del datore di lavoro che ne è responsabile l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni. Proprio perchè si tratta di un risarcimento del danno – ed in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del suo ammontare – soccorrono i normali criteri fissati per i contratti in genere, con la conseguenza che dev’essere detratto l’aliud perceptum che il lavoratore può aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa. La qualificazione in termini risarcitori delle erogazioni patrimoniali a carico del datore di lavoro come conseguenza dell’obbligo di ripristino del posto di lavoro illegittimamente perduto risulta peraltro influenzata in maniera decisiva dalle modifiche introdotte dalla L. n. 108 del 1990, art. 1 alla L. n. 300 del 1970, art. 18 che ha unificato quanto dovuto per i periodi anteriore e posteriore alla sentenza che dispone la reintegrazione sotto il comune denominatore dell’obbligo risarcitorio (cosi Cass. n. 8514/15, Cass. n. 7281/15, Cass. n. 2046/14, Cass. n. 19775/14, Cass. n. 4943/03, n. 16037/04, n. 26627/06, etc.), con la conseguente detraibilità dell’aliunde perceptum.

Tale principio di diritto è stato ribadito con specifico riferimento a fattispecie analoghe a quella oggi in esame (cessione di ramo d’azienda da parte della Telecom ritenuto inefficace, e con pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario) in numerosi precedenti di questa Corte (cfr., oltre alle più recenti sentenze sopra citate, Cass. n. 19490/2014, Cass. n. 16095/2014, Cass. n. 19228/2014 e numerosissime altre).

In tali pronunce si è inoltre evidenziato che da quanto detto “consegue che nel caso in esame, pacifico essendo che i lavoratori hanno continuato a prestare l’attività lavorativa alle dipendenze della cessionaria, venendone retribuiti, a loro incombeva l’onere (che non risulta essere stato assolto) di dedurre e dimostrare i danni sofferti, tra i quali l’inferiorità di quanto ricevuto rispetto alla retribuzione che sarebbe loro spettata alle dipendenze della società cedente”.

1.3- Deve poi aggiungersi che il ricorrente non chiarisce e tanto meno documenta quale sia l’aliunde perceptum di cui lamenta la detrazione dal credito rivendicato, nè la sentenza impugnata mostra di occuparsi della questione, sicchè la relativa censura risulta inammissibile, essendo onere del ricorrente non solo di allegare l’avvenuta proposizione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente (ed in quali termini) ciò sarebbe avvenuto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (cfr. Cass. n.7149/2015, Cass. n. 23675/2013).

2.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2017

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