Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8459 del 05/05/2020

Cassazione civile sez. III, 05/05/2020, (ud. 16/05/2019, dep. 05/05/2020), n.8459

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28839/2017 proposto da:

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO

QUIRINO VISCONTI 103, presso lo studio dell’avvocato LUISA GOBBI,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati RUGGERO

SONINO, ALDO SILANOS, ELISABETTA ORSINI, PATRIZIA CHIAMPAN;

– ricorrente –

contro

B.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALSAVARANCHE,

46 SC. D, presso lo studio dell’avvocato MARCO CORRADI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

B.M.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2014/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 28/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/05/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo;

udito l’Avvocato ELISABETTA ORSINI;

udito l’Avvocato MARCO CORRADI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza in data 19.9.2017 n. 2014, ha rigettato l’appello proposto da F.G., confermando la decisione di prime cure che aveva accolto la domanda proposta da B.C. di accertamento del proprio status di figlio naturale di T.A. (deceduto nel corso del giudizio ed al quale era succeduto l’erede F.G.), ed aveva invece rigettato la domanda riconvenzionale, proposta dal F., di condanna al risarcimento danni per doloso occultamento della procreazione con conseguente ingiusta privazione per il padre del rapporto di filiazione.

Il Giudice territoriale dichiarava inammissibili i motivi di gravame volti a reiterare le medesime eccezioni di nullità delle operazioni di indagine medico-legale svolte dall’ausiliario in primo grado, in quanto del tutto sforniti di una puntuale critica agli argomenti in fatto e diritto svolti dal Giudice di prime cure a fondamento del rigetto delle eccezioni. Quanto alla domanda riconvenzionale di condanna, la Corte territoriale ha ritenuto inconfigurabile un danno da perdita di chances avuto riguardo alla condotta del T. ostinatamente volta a contestare di aver intrattenuto una relazione con B.M.P. e la propria paternità naturale di B.C..

Avverso la sentenza di appello, notificata in data 2.10.2017, F.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.

Resiste con controricorso B.C..

Non ha svolto difese B.M.P. cui il ricorso è stato notificato, in via telematica, in data 28.11.2017 presso l’indirizzo PEC del difensore domiciliatario.

Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

p.1. Con il primo motivo il ricorrente censura la dichiarazione di inammissibilità dei motivi di gravame, deducendo la violazione dell’art. 342 c.p.c., in quanto l’atto di appello rispondeva a tutti i requisiti prescritti dalla norma processuale come modificata dal D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, avendo dedotto l’appellante, con il primo motivo, l’errore commesso dal Tribunale laddove aveva ritenuto abbandonata – in quanto non specificamente reiterata alla udienza di precisazione delle conclusioni – la eccezione di nullità della c.t.u., tempestivamente sollevata nella prima difesa utile (verbale udienza 27.9.2013) successiva al deposito dell’elaborato peritale, e nuovamente reiterata con la generale richiesta di accoglimento di tutte le domande, eccezioni ed istanze formulata a verbale di udienza 16.6.2015 fissata per la precisazione delle conclusioni in primo grado; ed avendo contestato, con il secondo e con il terzo motivo di gravame, indicando le norme del D.Lgs. n. 196 del 2003, che erano state violate, la statuizione del Tribunale che aveva ritenuto legittima la utilizzazione dei dati personali sensibili (campioni di sostanze biologiche e dati genetici dagli stessi ricavati) riferiti al T., nonchè la illegittimità della “delega all’espletamento dell’incarico” conferita di fatto dal CTU agli specialisti ed ai tecnici di laboratorio di cui si era avvalso.

1.1 Con il secondo motivo la sentenza di appello viene impugnata, per violazione dell’art. 189 c.p.c., nella parte in cui, pur dopo aver dichiarato la inammissibilità dei motivi di gravame ex art. 342 c.p.c., aveva esaminato egualmente nel merito il primo motivo di appello, ritenendolo infondato e condividendo la pronuncia del primo Giudice che aveva ritenuto abbandonata la eccezione di nullità della c.t.u..

1.2 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11 e 16, art. 13 Cost., art. 8 CEDU, art. 16TFUE e art. 8 CDFUE, in quanto la Corte d’appello, pur dopo aver dichiarato inammissibile i motivi di gravame secondo e terzo, li aveva poi esaminati egualmente, aderendo agli argomenti svolti dal Tribunale, così affermando erroneamente la legittimità delle operazioni peritali, atteso che i dati personali posti a fondamento delle risultanze della c.t.u. non avrebbero invece potuto essere utilizzati nel processo civile, in quanto illecitamente “ceduti” dalle strutture ospedaliere, atteso il disposto dell’art. 191 c.p.p., che fa espresso divieto della utilizzazione di prove illegittimamente acquisite.

1.3 Con il quarto motivo la sentenza di appello viene impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 62 e 194 c.p.c., in quanto la c.t.u. avrebbe dovuto essere dichiarata affetta da nullità essendo state svolte le indagini da soggetti diversi dall’ausiliario incaricato dal Giudice e non avendo il CTU presenziato alle operazioni peritali.

1.4 I motivi, stante la oggettiva connessione, possono essere trattati unitariamente.

1.4.1 La Corte d’appello, dopo aver dato atto che la verifica di ammissibilità del gravame doveva essere compiuta alla stregua del testo dell’art. 342 c.p.c., precedente alle modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. oa), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134 -, ha correttamente rilevato il perimetro tracciato dalla giurisprudenza di legittimità – anteriormente alla indicata modifica legislativa – nella individuazione dei requisiti minimi che i motivi di gravame debbono rivestire per superare il vaglio preliminare di ammissibilità, e che sono stati successivamente compendiati nella pronuncia di questa Corte Sez. U -, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017. Le Sezioni Unite, nel fornire la interpretazione del “nuovo” testo dell’art. 342 c.p.c., hanno evidenziato come il Legislatore abbia inteso formalizzare in norma quelli che erano già i consolidati approdi giurisprudenziali in tema di ammissibilità dell’atto di appello, ed hanno enunciato il principio di diritto secondo cui “Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata”, principio che si pone, quindi, interamente in linea con i canoni interpretativi dell’art. 342 c.p.c., già elaborati ante riforma.

Tuttavia alla corretta enunciazione dei principi non è seguita, da parte del Giudice territoriale, la corretta applicazione degli stessi nella fattispecie concreta.

La pronuncia di inammissibilità dell’appello, per difetto del requisito di specificità di motivi di gravame, si palesa infatti meramente assertiva e non conforme a diritto, in quanto dall’esame dell’atto di appello, cui la Corte ha diretto accesso attesa la natura del vizio di legittimità denunciato, emerge – al contrario – che, nella esposizione delle ragioni di impugnazione, l’appellante aveva fornito gli elementi minimi idonei a sottoporre al Giudice del gravame l’esame degli argomenti in fatto e diritto volti a contrastare le statuizioni assunte del primo Giudice in ordine all’asserito abbandono e, comunque anche alla infondatezza, della eccezione di nullità della c.t.u. medico-legale: le critiche alla sentenza di prime cure veniva mosse, infatti, dall’appellante, tanto in relazione al profilo della reiterazione della eccezione anche alla udienza di precisazione delle conclusioni, quanto in relazione al profilo della allegazione del pregiudizio subito dalla utilizzabilità delle risultanze peritali, laddove la nullità delle indagini tecniche svolte dal CTU veniva fondata sulla presupposta “inutilizzabilità” dei “dati personali” identificativi delle caratteristiche genetiche del T., con conseguente caducazione dell’accertamento di paternità, in quanto non assistito anche da altri elementi probatori.

1.4.2 L’errore processuale in cui è incorsa la Corte d’appello, non determina tuttavia la cassazione della sentenza impugnata, atteso che il Giudice di merito ha, comunque, esaminato anche nel merito i predetti motivi di gravame condividendo la valutazione di infondatezza del Tribunale, dovendo quindi procedersi all’esame degli altri motivi di ricorso.

p.2. Entrambi i Giudici dei gradi precedenti hanno concluso per l’insussistenza dell’obbligo di pronuncia sulla questione di nullità della c.t.u., ritenendo che alla udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado i difensori del F. non avessero insistito nella relativa eccezione.

A sostegno della tesi della rituale reiterazione della eccezione di nullità della c.t.u., il ricorrente assume invece che, con il primo motivo dell’atto di appello aveva puntualmente dedotto che i propri difensori, alla udienza 16.6.2015 di precisazione delle conclusioni in primo grado, avevano espressamente dichiarato di insistere anche “per l’ammissione delle proprie istanze”, tra cui doveva ricomprendersi anche la detta eccezione.

2.1 Osserva il Collegio che viene in questione la correttezza della rilevazione, da parte del Giudice di merito, delle richieste, espressamente formulate a verbale di udienza, che i difensori, in considerazione delle capacità professionali loro riconosciute, sono tenuti a formulare secondo un preciso linguaggio tecnico-giuridico: in tal senso il Giudice è tenuto ad attribuire alle richieste conclusive delle parti – salvi eventuali errori di qualificazione giuridica sempre emendabili il significato proprio che le stesse assumono in relazione alle diverse figure tipizzate di istanze connesse alla attività processuale.

Al proposito si possono delineare due scenari:

se il difensore non compare alla udienza di precisazione delle conclusioni, il Giudice non può trarre da tale condotta processuale alcuna inferenza presuntiva intesa a dimostrare la volontà di abbandono delle domande, eccezioni, istanze di ammissione di prove, formulate dalla parte nei propri atti difensivi. La mancata partecipazione del procuratore della parte alla udienza fissata per la precisazione delle conclusioni non comporta, infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, “alcuna volontà di rinuncia alle domande e alle eccezioni in precedenza proposte, dovendosi presumere che la parte stessa abbia inteso tenere ferme, senza variarle, le conclusioni formulate in precedenza formulate negli atti tipici a ciò destinati e, quindi, nell’atto introduttivo del giudizio o nella comparsa di risposta, come anche nell’udienza o nei termini ex art. 183 c.p.c…” (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5018 del 4/03/2014). Tale conclusione non muta neppure nel caso in cui, sulle istanze istruttorie, il Giudice si sia pronunciato con ordinanza istruttoria: poichè le ordinanze comunque motivate non pregiudicano mai la decisione della causa – art. 177 c.p.c., comma 1 -, ne segue che anche l’ordinanza istruttoria che rigetta la ammissione delle prove si caratterizza per la sua “interinalità” dovendo sempre essere riconsiderata nella motivazione della sentenza – anche se soltanto in modo implicito o per relationem mediante conferma della ordinanza – la istanza istruttoria del difensore della parte non comparso alla udienza di precisazione delle conclusioni se il difensore compare alla udienza di precisazione delle conclusioni, il Giudice è tenuto a verificare il perimetro oggettivo delineato dalle richieste conclusive, che si sostituiscono a tutte le precedenti istanze, domande, eccezioni (pur potendo il difensore eventualmente limitarsi soltanto ad un loro richiamo: come nel caso di generica richiesta di esame di tutte le difese svolte): in tal caso la eventuale difformità – anche soltanto quantitativa – tra le precedenti richieste e quelle conclusive, comporta una presunzione di abbandono delle richieste non riprodotte, salvo che non emergano elementi, evidenziati dalla complessiva condotta processuale della parte, o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle esplicitamente reiterate, dai quali possa desumersi una contraria inequivoca volontà della parte di insistere sulla domanda od eccezione pretermessa (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9465 del 19/05/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 3593 del 16/02/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 1603 del 03/02/2012; id. Sez. L, Sentenza n. 22626 del 03/10/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 15860 del 10/07/2014; id. Sez. 2, Sentenza n. 17582 del 14/07/2017). Ipotesi – quest’ultima – che si verifica qualora si riscontri una relazione di pregiudizialità-dipendenza tecnico-giuridica tra le domande od eccezioni e più in generale di implicazione logica tra le istanze difensive: in tal caso sussiste la presunzione di persistenza della domanda “pregiudicante” o della istanza “implicante” non reiterata, salvo che la parte interessata vi abbia espressamente rinunciato e non sia necessario, per legge, decidere la questione pregiudiziale con efficacia di giudicato (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12482 del 26/08/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 2093 del 29/01/2013).

2.2 Tanto premesso, dall’esame del verbale di udienza 16.6.2015 in primo grado, risulta che “i procuratori del sig. F. concludono come da comparsa di costituzione e risposta dimessa in data 19.7.2011 con esclusione della domanda oggi rinunciata; in via istruttoria, insistono per l’ammissione delle istanze non ammesse” (verbale 16.6.2015, trascritto dal resistente – controric. pag. 10).

Orbene la richiesta conclusiva – formulata a verbale di udienza con il rinvio alla comparsa di risposta – di rigetto della domanda attorea di dichiarazione giudiziale di paternità e di accoglimento della domanda riconvenzionale di condanna condizionata, evidenzia – avuto riguardo allo svolgimento del processo, condotto esclusivamente mediante espletamento di c.t.u. medico legale che aveva accertato la compatibilità genetica tra l’attore ed il T. pari al 99,99% – una manifesta incompatibilità con la presunzione di abbandono dell’unica eccezione di invalidità per vizio processuale, formulata del convenuto T. (e del successore erede F.), idonea a contrastare attraverso la invalidazione dell’unica risultanza istruttoria la domanda attorea: tra la negazione della prova dei fatti costitutivi della domanda ed il vizio di nullità della c.t.u. sussiste infatti un nesso di implicazione necessaria tale per cui la richiesta conclusiva di rigetto della pretesa attorea non si giustifica altrimenti che con la reiterazione della eccezione, volta – tra l’altro – a conseguire non soltanto la invalidità dell’atto istruttorio compiuto (per asserita lesione del diritto al contraddittorio), ma la stessa inammissibilità “tout court” del mezzo istruttorio “percipiente” sul presupposto della asserita “inutilizzabilità” probatoria dei dati personali sensibili riferiti al T..

2.3 Anche in questo caso, tuttavia, l’errore compiuto dalla Corte territoriale in ordine alla affermata correttezza della decisione del Tribunale che aveva ritenuto abbandonata la eccezione di nullità della c.t.u. – non travolge la sentenza di appello impugnata, in quanto lo stesso Giudice ha poi esaminato egualmente nel merito detta eccezione di nullità, che era stata riproposta con il secondo e terzo motivo di gravame, ritenendola infondata e tale decisione, che è stata impugnata con il terzo e quarto motivo di ricorso per cassazione, deve quindi essere sottoposta al sindacato di legittimità in relazione alle censure prospettate delle quali, pertanto, occorre passare a trattare.

p.3. Il terzo motivo di ricorso per cassazione è infondato.

3.1 La categoria della “inutilizzabilità” della prova ex art. 191 c.p.p. – posta a tutela del diritto di difesa dell’imputato: cfr. art. 193 c.p.p., commi 3 e 7, art. 197 bis c.p.p., comma 5, artt. 203,240,270,271 c.p.p., art. 350 c.p.p., commi 6 e 7 – non è contemplata nell’ordinamento processuale civile, non venendo in rilievo, nei giudizi in cui si controverte di diritti aventi fonte in rapporti di diritto privato, le medesime esigenze di garanzia richieste invece dal giudizio penale – cui provvede l’art. 238 c.p.p., comma 1 -, tenuto conto della diversa rilevanza degli interessi che vengono in questione nel giudizio penale (status libertatis) ed in quello civile, nel quale il Giudice non incontra i limiti della “tipicità” del mezzo probatorio (cfr. Corte Cass. Sez. L -, Sentenza n. 28974 del 04/12/2017 – con riferimento alla utilizzabilità nel giudizio del lavoro degli scritti anonimi e la inapplicabilità dei limiti posti dagli artt. 240 e 333 c.p.p. -; id. Sez. 5, Sentenza n. 8206 del 22/04/2015). Nel giudizio civile, infatti, le prove atipiche sono comunque utilizzabili (salvo che il mezzo di prova costituisca “ex se” – per il suo modo di essere – lesione di un diritto fondamentale della persona) dipendendo la loro rilevanza esclusivamente in relazione alla maggiore o minore efficacia probatoria ad esse riconosciuta dal Giudice di merito, non sussistendo – nè potendo essere censurato in cassazione – alcun vizio invalidante la formazione della prova atipica per essere stata questa assunta nel diverso processo in violazione di regole a quello esclusivamente applicabili, neppure se tale vizio integri un difetto della garanzia del contraddittorio, atteso che nel processo civile il contraddittorio sulla prova viene assicurato dalle forme e modalità “tipizzate” di introduzione della stessa nel giudizio, che trovano disciplina nella fase istruttoria del processo volta ad assicurare la discussione in contraddittorio delle parti sulla efficacia dimostrativa del mezzo atipico in ordine al fatto da provare (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11555 del 14/05/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 17392 del 01/09/2015; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 1593 del 20/01/2017, con specifico riferimento al verbale di “sommarie informazioni testimoniali”).

3.2 Tanto premesso, esclusa – in via di principio – una applicazione diretta od analogica della norma processuale penale al giudizio civile, la censura attiene all’invalido svolgimento della c.t.u. in quanto fondata su elementi probatori (vetrini con campioni biologici del T. conservati presso i nosocomi ove era stato ricoverato) che il ricorrente assume essere stati illecitamente acquisiti, in violazione delle norme del D.Lgs. n. 196 del 2003.

Orbene è corretto il rilievo formulato dal ricorrente in ordine alla erroneità della statuizione della sentenza di appello volta ad affermare la irrilevanza della censura prospettata dal F., “in mancanza di una espressa previsione normativa che vieti l’impiego nell’ambito processuale di raccolta di materiale in modo illecito”, essendo appena il caso di osservare, al proposito, come la violazione delle prescrizioni dettate dalla legge per “la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati” (cfr. D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. a, nel testo applicabile ratione temporis, successivamente abrogato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 e riformulato dall’art. 4, paragr. 1, n. 1, del regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, che individua ora tra le predette operazioni “la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione”) viene a tradursi nella illecita acquisizione e disponibilità, ai fini probatori, di informazioni identificative della qualità di una persona fisica che costituiscono oggetto del “diritto assoluto alla protezione dei dati personali”, ricompreso tra le “libertà fondamentali della persona” (spettando a “chiunque”: D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 1 e 2; art. 1 reg. UE. L’interessato è titolare di un diritto personalissimo che gli consente non solo di opporsi al trattamento dei dati per motivi legittimi, ma finanche di ottenere la eliminazione definitiva del dato, pur se regolarmente trattato), stante il divieto espresso posto dalla legge alla utilizzabilità di “dati personali trattati in violazione della disciplina” (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, comma 2). Con la conseguenza che viene in questione, allora, non la violazione della norma processuale sull’acquisizione della prova, ma “a monte” la condotta illecita per violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo a coincidere la vittima dell’illecito civile – che ha subito la lesione del “jus arcendi” sulla informazione identificativa -, con la stessa parte processuale contro la quale tale informazione viene fatta valere quale fonte di prova, non potendo quindi trasformarsi in lecita – attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo – la condotta illecita relativa alla divulgazione e comunicazione del dato che non poteva essere acquisito o raccolto, atteso che l’utilizzo probatorio del dato integrerebbe proprio quel pregiudizio che la norma di divieto intende impedire a tutela del diritto dello stesso soggetto cui la legge intende apprestare la protezione.

3.3 Il principio che stabilisce la estraneità dalle fonti di prova – anche atipiche – di quelle acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite, quali la libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del domicilio, è stato ripetutamente affermato da questa Corte (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20253 del 19/10/2005, con riferimento, nel giudizio tributario, alle prove acquisite nel corso di una perquisizione domiciliare illegittima, in quanto eseguita in assenza di preventiva autorizzazione del PM; Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 3271 del 12/02/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 1948 del 02/02/2016; id. Sez. L, Sentenza n. 10017 del 16/05/2016; id. Sez. U -, Sentenza n. 14552 del 12/06/2017, che affermano tutte la utilizzabilità, nel procedimento disciplinare, di intercettazioni telefoniche ed ambientali, disposte in un diverso procedimento penale, “purchè siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale”; Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2916 del 07/02/2013 che ritiene legittima la utilizzabilità nel giudizio tributario di sommarie informazioni testimoniali ed intercettazioni telefoniche, acquisite nel corso di indagini penali, qualora le modalità di formazione della prova non abbiano determinato lesioni degli artt. 15 e 24 Cost.), dovendo pertanto distinguersi le ipotesi in cui le norme processuali violate, preordinate alle modalità di acquisizione probatoria, abbiano determinato una lesione dei diritti costituzionalmente tutelati del soggetto contro cui la prova si intende far valere, da quelle in cui non si verifica tale lesione, essendo diretta la norma violata a tutelare un bene diverso non riferibile direttamente alla sfera giuridica dell’interessato (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 3727 del 25/02/2016; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 28905 del 12/11/2018, con riferimento all’utilizzo probatorio di atti coperti dal segreto istruttorio ed acquisiti in violazione dei limiti imposti dal segreto, in quanto dettati dall’art. 329 c.p.p., non a tutela del “diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle indagini penali, ma delle indagini stesse).

Dunque deve ritenersi errata l’affermazione della Corte d’appello secondo cui, in assenza di norme espressamente limitative dell’utilizzo – nel giudizio civile di prove acquisite illecitamente, si ricaverebbe il principio di una generale ammissione di tali fonti di prova, dovendo al contrario affermarsi il principio secondo cui rimane precluso l’accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata.

3.4 Tanto premesso, così corretta in diritto la motivazione della sentenza, osserva il Collegio che la pronuncia della Corte di appello secondo cui, nel caso di specie, è difettata del tutto qualsiasi violazione delle norme del D.Lgs. n. 196 del 2003, va esente da censura, dovendo ritenersi infondato il corrispondente motivo di ricorso per cassazione.

Ed infatti è la stessa legge conformativa del diritto che ne definisce i limiti, attribuendo prevalenza, rispetto al “jus arcendi” dell’interessato, al trattamento dei dati personali qualora “effettuato per ragioni di giustizia”, per tali intendendosi “i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie” (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 47, nel testo anteriore alla abrogazione disposta con il D.Lgs. n. 101 del 2018). Il regolamento UE n. 679/2016, art. 9, paragr. 1 e 2, lett. f), prevede che il divieto espresso di “trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonchè trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona” non si applica nei casi in cui il trattamento si renda necessario “per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”; analogamente, il potere del soggetto interessato di opporsi al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto, incontra il limite dell’accertamento, dell’esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria: art. 18, paragr. 2, art. 17, paragr. 3, lett. e), art. 21, paragr. 1, regolamento UE n. 679/2016. Ed ulteriori limitazioni alle disposizioni della legge possono essere apportate dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva la essenza dei diritti e delle libertà fondamentali, debbano essere adottate “misure necessarie e proporzionate” al fine di salvaguardare “la tutela dell’interessato o dei diritti e delle libertà altrui” od ancora “l’esecuzione delle azioni civili” (art. 23, paragr. 1, lett. i) e j), reg. UE cit.).

La Corte d’appello si è, dunque, conformata al principio enunciato da questa Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 3034 del 08/02/2011 secondo cui, in tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benchè anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy.

3.5 L’assunto difensivo secondo cui il CTU non avrebbe potuto acquisire presso le Aziende ospedaliere i vetrini con i campioni biologici (relativi a “washing bronchiale” ed a “agoaspirato polmonare”) in quanto i “dati personali”, alla data di cessazione del trattamento, avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere “ceduti” dalle strutture sanitarie è destituito totalmente di fondamento.

3.5.1 La disposizione invocata (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 16) che, per quanto interessa nel caso di specie, prescrive “in caso di cessazione, per qualsiasi causa, di un trattamento, i dati sono: 1) distrutti” deve, infatti, essere integrata dalla lettura sistematica delle altre ipotesi previste dalla stessa norma del Codice della privacy (il dato può anche essere ceduto ad altro titolare per un trattamento conforme allo scopo per cui è stato raccolto, od anche conservato o ceduto ad altro titolare “per scopi storici, statistici o scientifici, in conformità alla legge, ai regolamenti alla normativa comunitaria ed ai codici di deontologia… “), nonchè dalle altre regole dettate per i soggetti pubblici non economici, per i quali il trattamento dei dati anche sensibili è consentito “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali” (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 18, comma 3).

Assume a tal fine particolare rilievo la disposizione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 22, comma 5, seconda parte, che demanda ai soggetti pubblici di valutare specificamente il rapporto di indispensabilità tra i dati e la realizzazione degli obblighi e dei compiti ad essi assegnati, disponendo che “I dati che, anche a seguito delle verifiche, risultano eccedenti o non pertinenti o non indispensabili non possono essere utilizzati, salvo che per l’eventuale conservazione, a norma di legge, dell’atto o del documento che li contiene”.

3.5.2 Dal complesso normativo sopra indicato emerge che anche la “conservazione” del dato personale (tale dovendo configurarsi anche il vetrino contenente il campione biologico in quanto risulti corredato da indicazioni atte alla identificazione del soggetto cui appartiene) rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell’ente pubblico, laddove queste prevedano, appunto, forme obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi pubblici prevalenti, quali – ad esempio – l’impiego giudiziario del campione biologico, ovvero qualora la conservazione venga effettuata per fini scientifici o statistici.

Ne segue che un automatico obbligo di distruzione del dato non è configurabile in capo al titolare del trattamento laddove il termine della conservazione sia correlato alle predette finalità istituzionali, come nel caso in esame in cui il cd. “materiale di archivio campionato” (blocchetti in paraffina e vetrini) venga a costituire oggetto di specifico obbligo, imposto alle Aziende ospedaliere, relativo alla conservazione dei referti e delle cartelle cliniche (cfr. Linee guida sulla “tracciabilità, raccolta, trasporto, conservazione e archiviazione di cellule e tessuti per indagini diagnostiche di anatomia patologica” elaborate dal Ministero della Salute Consiglio Superiore di Sanità – maggio 2015) e sia previsto uno specifico obbligo di legge alla conservazione per dieci anni dei campioni biologici riferibili a pazienti deceduti (cfr. L. 30 marzo 2001, n. 130, art. 3, comma 1, lett. h), che, fissando i principi direttivi da attuare nella modifica del regolamento di polizia mortuaria, approvato con D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, prescrive l'”obbligo per il medico necroscopo di raccogliere dal cadavere, e conservare per un periodo minimo di dieci anni, campioni di liquidi biologici ed annessi cutanei, a prescindere dalla pratica funeraria prescelta, per eventuali indagini per causa di giustizia”).

3.5.3 L’ipotesi di una “distruzione” automatica dei dati personali al momento della dimissione del paziente o al decesso di questo, trova quindi espresso limite nella stessa legge di protezione dei dati personali, laddove la “conservazione” del dato risulti funzionale all’accesso alla giustizia, come emerge chiaramente anche dalla disciplina introdotta dal regolamento UE n. 679/2016 che limita “il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo” (art. 17 reg. UE), “nella misura in cui il trattamento sia necessario…..e) per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria”, e che reciprocamente limita l’obbligo del titolare del trattamento di procedere immediatamente, ove non più necessari, alla eliminazione dei dati personali, rimettendo all’interessato il potere di richiedere la prosecuzione del trattamento, nella forma della conservazione, quando i dati risultino indispensabili allo stesso interessato “per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 18, paragr. 1, lett. c), reg. UE cit.).

Se è dunque da ritenere lecita la “conservazione” dei vetrini da parte delle strutture ospedaliere, risulta del tutto infondata anche la asserita violazione del divieto di “cessione” dei dati personali concernenti il T., atteso che, a fronte della richiesta dell’ausiliario nominato dal Giudice, formulata in conformità ai compiti ed alle attività a quello demandate, la consegna dei vetrini da parte delle Aziende ospedaliere costituiva atto di adempimento alle prescrizioni del provvedimento giudiziario di conferimento dell’incarico, con il quale il CTU veniva autorizzato anche ad acquisire “informazioni” presso terzi ex art. 194 c.p.c..

3.5.4. Del tutto inconferente ed inammissibile è poi la censura, formulata con il terzo motivo in esame, con la quale si afferma la violazione da parte del CTU dell’obbligo di trattamento dei dati nel rispetto dei principi di liceità e che riguardano la qualità dei dati (obbligo prescritto dalla Delib. 26 giugno 2008, n. 46, del Garante per la protezione dei dati personali, con la quale sono state approvate le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero”), difettando del tutto nella specie la descrizione del fatto violativo commesso dall’ausiliario.

p. 4. Anche il quarto motivo di ricorso per cassazione è infondato.

4.1 Assume il ricorrente che il CTU non avrebbe presenziato personalmente agli esami, indagini e rilievi tecnici, delegando l’espletamento della attività peritale a terzi privi di nomina e legittimazione (direttore del laboratorio Dott.ssa V. che demandava ad altri tecnici la esecuzione delle analisi di laboratorio) e senza che il proprio CTP fosse stato messo in grado di partecipare a tali attività.

4.2 Osserva il Collegio che le Linee guida dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali prescrivono, tra l’altro, che “Il consulente e il perito possono trattare lecitamente dati personali, nei limiti in cui ciò è necessario per il corretto adempimento dell’incarico ricevuto e solo nell’ambito dell’accertamento demandato dall’autorità giudiziaria sono tenuti ad acquisire, utilizzare e porre a fondamento delle proprie operazioni e valutazioni informazioni personali che, con riguardo all’oggetto dell’indagine da svolgere, siano idonee a fornire una rappresentazione (finanziaria, sanitaria, patrimoniale, relazionale, ecc.) corretta, completa e corrispondente ai dati di fatto… Ciò, non solo allo scopo di fornire un riscontro esauriente in relazione al compito assegnato, ma anche al fine di evitare che, da un quadro inesatto o comunque inidoneo di informazioni possa derivare nocumento all’interessato, anche nell’ottica di una non fedele rappresentazione della sua identità (art. 11, comma 1, lett. c))…. In ossequio al principio di pertinenza nel trattamento dei dati, le relazioni e le informative fornite al magistrato ed eventualmente alle parti non devono nè riportare dati, specie se di natura sensibile o di carattere giudiziario o comunque di particolare delicatezza, chiaramente non pertinenti all’oggetto dell’accertamento peritale, nè contenere ingiustificatamente informazioni personali relative a soggetti estranei al procedimento (art. 11, comma 1, lett. d)…..)”. Quanto all’utilizzo di esperti e specialisti, in conformità alla autorizzazione ricevuta dal Giudice, le Linee guida dispongono che “l’obbligo di preporre alla custodia e al trattamento dei dati personali raccolti nel corso dell’accertamento solo il personale specificamente incaricato per iscritto resta fermo anche nel caso in cui il consulente e il perito si avvalgano dell’opera di collaboratori, anche se addetti a compiti di collaborazione amministrativa (art. 30 del Codice). L’attività di tali incaricati deve essere oggetto di precise istruzioni oltre che sulle modalità e sull’ambito del trattamento consentito, anche in ordine alla scrupolosa osservanza della riservatezza relativamente ai dati di cui vengono a conoscenza”.

4.3 Orbene alcuna specifica violazione inerente tali prescrizioni viene riferita puntualmente dal ricorrente che neppure trascrive, in violazione dei requisiti di ammissibilità del motivo di ricorso previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, il verbale di nomina del CTU e conferimento dell’incarico peritale, e la descrizione dello svolgimento delle operazioni peritali contenuta nella relazione depositata dall’ausiliario, impedendo, in conseguenza, a questa Corte qualsiasi verifica in ordine ad eventuali limiti della facoltà attribuita al CTU di avvalersi di collaboratori od esperti, nonchè in ordine alle attività di indagine specificamente commissionate. Quanto alla asserita delega di attività peritali, neppure è dato individuare, dalla carente esposizione del motivo, se e quali incontri si siano svolti tra le parti od i loro consulenti tecnici, non essendo verificabile se ed in quali omissioni sia incorso l’ausiliario (in relazione alla comunicazione della data di inizio delle operazioni od allo svolgimento di attività compiute in violazione del contraddittorio).

4.4 Solo “ad abundantiam” si rileva che dal verbale della udienza 23.3.2012 in cui sono stati formulati i quesiti al CTU (verbale riportato alla pag. 15 del controricorso) emerge in modo inequivoco che all’ausiliario era stato demandato il compito di prelevare il materiale istologico del T. conservato negli ospedali di (OMISSIS) e di (OMISSIS) al fine di effettuare i marcatori genetici. Trattasi di esame strumentale che non può che essere condotto in laboratorio, mediante l’impiego di macchinari sofisticati su cui opera personale altamente specializzato, risultando in conseguenza priva di fondamento la critica per cui il CTU non avrebbe svolto personalmente l’incarico, confondendo il ricorrente l’esame strumentale, da condurre con l’ausilio di mezzi o di dotazioni di istituti specializzati dei quali l’ausiliario può avvalersi per raccogliere dati, con l’attività epicritica dei dati così raccolti e delle informazioni acquisite, che si risolve nella rilevazione e disamina del significato scientifico da attribuire a quei dati, compito questo riservato esclusivamente all’ausiliario.

Orbene, alcuna contestazione in merito alla riferibilità al CTU delle valutazioni specialistiche espresse nella relazione peritale è stata formulata dal ricorrente, mentre, quanto alla correttezza degli adempimenti formali, la Corte d’appello ha evidenziato come il CTU avesse dato rituale avviso ai procuratori delle parti della richiesta dallo stesso inviata con missiva 21.5.2012 alla Direzione sanitaria dei nosocomi, ed avesse dato atto poi, nella relazione, delle diverse fasi delle operazioni cui il CTP dell’attuale ricorrente era stato messo in grado di partecipare.

La contraria allegazione di parte ricorrente è rimasta una mera ipotesi priva di qualsiasi concreto riscontro in assenza della descrizione dei fatti asserita mente lesivi del contraddittorio, ed il motivo di ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

p.5. Il quinto motivo (violazione degli artt. 112,113,155 – recte: art. 115 c.p.c., art. 2043 c.c.) è in parte infondato ed in parte inammissibile.

5.1 Il ricorrente si duole del rigetto della domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento del danno formulata “jure hereditatis” e fondata sull’illecito occultamento della esistenza di un figlio, condotta secondo il ricorrente da imputarsi in concorso allo stesso figlio naturale ed alla madre e che avrebbe pregiudicato il diritto alla genitorialità del padre naturale impedendogli di instaurare un rapporto educativo ed affettivo con la prole.

5.2 La Corte d’appello ha confermato sul punto la statuizione di rigetto del primo Giudice rilevando, da un lato, che la lesione del diritto alla genitorialità risultava incompatibile con il comportamento processuale tenuto dal T. che aveva sempre ostinatamente negato qualsiasi possibilità di una sua paternità rispetto al B., avendo costantemente negato di avere avuto rapporti intimi con B.M.P.; dall’altro che la domanda risarcitoria, inquadrata nello schema dell’illecito extracontrattuale, si palesava carente di supporto allegatorio ed inoltre difettava della prova della elevata probabilità di esistenza della occasione perduta.

5.3 La critica del ricorrente ha per oggetto:

– la insussistenza di preclusioni di legge nei confronti di colui che si oppone alla dichiarazione giudiziale di paternità a proporre in via riconvenzionale, qualora la paternità fosse accertata, domanda risarcitoria per la lesione del diritto in questione, tanto più che il T., dato il tempo trascorso, bene poteva non avere più memoria del rapporto intrattenuto con la B. la implicita prova della condotta dolosa o colposa imputabile a madre e figlio, nell’occultamento della nascita al T., fornita dalla rinuncia formulata dal B. alla udienza di precisazione in primo grado ed accettata dai difensori del F. – alla assunzione dei mezzi di prova (volti ad accertare che la B. aveva comunicato al T. di essere rimasta incinta e che era nato il figlio) già ammessi dal Giudice di primo grado, con la conseguenza che doveva ritenersi dimostrato che alcuna notizia del concepimento era stata data al T. il quale aveva sempre negato di avere ricevuto comunicazioni circa la nascita del figlio

la violazione del diritto andava ancorata all’art. 29 Cost., che, nella tutela dei rapporti familiari, riconosceva implicitamente anche i bisogni di ciascun genitore a sviluppare in tale contesto sociale la propria personalità attraverso il rapporto parentale con i propri figli, dovendo dedursi per via prognostica e presuntiva la prova del danno non patrimoniale della quale, peraltro, era stata offerta prova attraverso i mezzi istruttori dedotti con la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2.

5.4 Osserva il Collegio che la condotta illecita prospettata dal ricorrente presenta taluni aspetti peculiari che richiedono preliminarmente di procedere alla ricostruzione della struttura della fattispecie, inquadrata dai Giudici di merito nello schema dell’art. 2043 c.c..

Nel caso in esame, infatti, non vengono in questione i doveri tra coniugi, che trovano giuridica definizione nell’art. 143 c.c., comma 2, o tra conviventi “more uxorio” (questi ultimi non aventi titolo nel vincolo giuridico del matrimonio trovavano fondamento, al tempo dei fatti risalenti all’anno 1967, nella relazione interpersonale da cui scaturiscono situazioni giuridiche che obbligano al reciproco rispetto e legittimano l’affidamento nella realizzazione di obiettivi comuni riposto da ciascuno dei conviventi nell’altro: la stabilità del legame affettivo di coppia e di reciproca assistenza materiale e morale è elemento qualificante della convivenza di fatto giuridicamente rilevante della L. 20 maggio 2016, n. 76, ex art. 1, commi 36 e segg.), nè tanto meno vengono in questione gli obblighi derivanti dalla assunzione di responsabilità di ciascun genitore nei confronti del figlio nato in costanza di matrimonio (art. 147 c.c.) o legalmente riconosciuto (artt. 316 e 316 bis c.c.), atteso che dalla ricostruzione del fatto evincibile dagli atti regolamentari emerge che tra B.M.P. e T.A. vi fu un unico incontro senza che seguisse non solo una convivenza di fatto ma neppure una relazione di tipo sentimentale: la B., infatti, contrasse matrimonio con altra persona dalla quale ebbe prole e nell’ambito di detta famiglia è cresciuto B.C..

Tale situazione, quindi, diverge nettamente da quelle ipotesi in cui il coniuge ometta volutamente di comunicare il proprio stato di gravidanza, determinato dal concepimento con altra persona, ingannando l’altro coniuge sul suo rapporto di filiazione con il nascituro che entra così a far parte della famiglia in cui il padre

non è il genitore biologico. Nel caso sottoposto all’esame del Collegio la condotta omissiva informativa della donna gravida, non si inscrive, infatti, nella violazione di obblighi derivanti da un rapporto giuridico precostituito tra le parti. Nè, ai fini che ne occupa, viene in questione una lesione del prevalente interesse del minore a crescere nella comunanza di vita con entrambi i genitori: non è infatti in questione il danno subito dal minore (la originaria domanda di condanna “per il mancato mantenimento” proposta da B.C., oltre allo svolgimento dell’azione di stato di dichiarazione giudiziale di paternità, è stata rinunciata), ma quello subito dal genitore che non ha avuto notizia della paternità.

Soltanto di riflesso viene, peraltro, in rilievo la lesione del “diritto alla bigenitorialità” – cui fa riferimento il ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c. – trattandosi di diritto riferibile in via diretta al minore, nel superiore interesse del quale trova attuazione, essendo la “presenza comune dei genitori nella vita del figlio idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi” (cfr. Corte cass. Sez. 6-1, Sentenza n. 18817 del 23/09/2015; id, Sez. 1, Ordinanza n. 9764 del 08/04/2019) in funzione “dello sviluppo armonico della personalità del minore…influenzato dalla graduale costruzione di una precisa identità personale, di cui costituisce fattore determinante la genitorialità biologica”, come posto in rilievo, in particolare, dall’art. 7 paragr. 1 (“Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi.”) della Convenzione internazionale sui diritti della Infanzia approvata a New York il 20 novembre 1989, ratificata dall’Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176 (cfr. Corte Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 23913 del 27/12/2012).

5.5 Nella specie parrebbe venire, invece, in rilievo la “esigenza” della conoscenza, da parte del soggetto che ha partecipato al concepimento, che la gravidanza è a lui riferibile, consentendogli pertanto l’esercizio del diritto(-dovere) di riconoscimento del figlio naturale ex artt. 250 e 254 c.c., con la conseguente assunzione delle responsabilità genitoriali verso il nato. Così impostata la vicenda, si potrebbe, ad un primo approccio, qualificare illecita la condotta omissiva della donna, in quanto lesiva del “diritto alla autodeterminazione” dell’altro soggetto (padre naturale), qualora l’atto di riconoscimento venga inteso come esercizio dell’autonomia privata ossia di una scelta discrezionale rimessa alla libertà individuale del soggetto che la compie. Ad un più attento esame, tuttavia, tale ricostruzione non può essere seguita, dovendosi tenere conto della interpretazione della disciplina della filiazione, conforme al portato degli artt. 2 e 30 Cost., fornita da questa Corte, che ha anticipato fin dalla nascita l’insorgenza dei doveri genitoriali – e dei corrispondenti diritti del minore – in quanto ricollegati non all’effetto giuridico della istituzione della relazione parentale (presunta ex art. 231 c.c., accertata ex art. 236 c.c., comma 2, artt. 237,241 c.c., o dichiarata per atto volontario ex art. 250 e 254 c.c. o per sentenza ex artt. 269 e 277 c.c.), ma al mero fatto-giuridico della procreazione (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 7386 del 14/05/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 2328 del 02/02/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 26575 del 17/12/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 22506 del 04/11/2010; id. Sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013; id. Sez. 6-3, Sentenza n. 3079 del 16/02/2015; id. Sez. 3, Ordinanza n. 14382 del 27/05/2019): con la conseguenza che quella che appare astrattamente configurabile come situazione giuridica di diritto soggettivo assoluto e personalissimo (diritto a riconoscere lo status di figlio), altro non è invece che una mera manifestazione formale “confermativa” di una preesistente situazione giuridica da cui deriva il “dovere” di riconoscimento del figlio naturale, e cioè una condotta funzionale alla protezione dell’interesse del minore (che trova riscontro nella posizione di soggezione rivestita dal genitore naturale nell’azione di dichiarazione di paternità esercitata dal figlio ai sensi degli artt. 269 c.c. e segg.) e la cui violazione può dare luogo ad una autonoma fattispecie di illecito civile (non necessariamente “endofamiliare”, in difetto di costituzione di un nucleo familiare e di convivenza tra i genitori naturali) generatore di conseguenze dannose patrimoniali e non patrimoniali azionabili in via risarcitoria dal figlio o dal suo rappresentante durante la minore età (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012; id. Sez. 6-3, Sentenza n. 3079 del 16/02/2015).

5.6 Vero è, piuttosto, che la situazione giuridica da riconoscere in capo al genitore naturale, che deve essere scissa rispetto alla posizione che lo stesso assume nel rapporto genitoriale, è quella del “diritto alla identità personale”, ancorato all’art. 2 Cost. ed all’art. 30 Cost., comma 4, venendo ad esprimersi l’esplicazione della personalità dell’essere umano, nelle formazioni sociali in cui opera, anche attraverso la filiazione, sia sotto il profilo della trasmissione del proprio patrimonio genetico, sia sotto l’aspetto maggiormente qualificante più propriamente relazionale, riguardato come scelta volontariamente assunta dal genitore di dedicare il proprio impegno ad assistere dalla nascita, ad aiutare a crescere ed a realizzare le aspirazioni del minore, nonchè in definitiva ad instaurare un rapporto conoscitivo ed affettivo con la persona generata, aspirazione che, peraltro, quanto al riconoscimento formale dello status di figlio, incontra il limite invalicabile del superiore interesse del minore (artt. 250 c.c., commi 3 e 4) e, ove questi abbia raggiunto la maggiore età, della sua previa autorizzazione (art. 250 c.c., comma 2).

5.7 Orbene in relazione alla indicata situazione giuridica, la omessa informazione dell’avvenuto concepimento, da parte della donna, consapevole della paternità, pure in assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di tale obbligo di condotta (non rinvenibile nelle norme che legittimano al riconoscimento il padre naturale od in quelle del D.P.R. n. 396 del 2000, che prescrivono l’obbligo di denuncia della nascita), può allora tradursi in una condotta “non jure” – ove non risulti giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro -, in quanto in astratto suscettibile di determinare un pregiudizio all’interesse del padre naturale ad affermare la propria identità genitoriale, qualificabile come “danno ingiusto”, e che viene ad integrare, nel ricorso dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, la fattispecie della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c..

5.8 La questione del danno risarcibile, non viene tuttavia posta nella presente controversia, con riferimento alla lesione del diritto alla identità genitoriale (ossia del ristabilimento della verità inerente il rapporto di filiazione e nell’acquisizione formale del relativo status), trattandosi di interesse in tesi soddisfatto dalla pronuncia giudiziale che ha accolto la domanda oggetto dell’azione di dichiarazione di paternità svolta da B.C., interesse peraltro costantemente deluso nel corso di tutto il processo dallo stesso T. e disconosciuto dal suo successore F. ancora con il tentativo di invalidare il risultato della indagine genetica. Il danno – non patrimoniale – viene, invece, ricondotto all’effetto pregiudizievole conseguente al “ritardato” accertamento dello status di figlio, avendo assunto il T. di non avere avuto la occasione di potere godere nel tempo anteriore della relazione affettiva e di esercitare i compiti genitoriali.

Se è così, non pare dubbio che in relazione allo schema dell’illecito extracontrattuale ed agli elementi costitutivi della fattispecie normativa astratta (condotta illecita; ingiusta lesione di interessi meritevoli di tutela; nesso di causalità materiale tra la condotta e l’evento lesivo; derivazione da detto evento delle conseguenze pregiudizievoli) deve essere verificata la legittimità della pronuncia resa dalla Corte d’appello, avendo questa, per un verso, ritenuto improduttivo di danno-conseguenza il comportamento omissivo della donna prima e del figlio poi, avuto riguardo alla resistenza opposta dal T. all’accertamento del rapporto di filiazione; per altro verso, con successiva statuizione ma da ritenere di valenza logica pregiudiziale, ha ritenuto del tutto carente la allegazione e la prova dei fatti costitutivi della pretesa “non supportata dalla deduzione di elementi specifici”; concludendo inoltre per la assenza di allegazione di “circostanza concrete e dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere in termini di certezza od elevata probabilità” la occasione perduta.

5.9 Orbene, quanto all’elemento soggettivo della condotta tenuta dalla B. al tempo del concepimento, alcun elemento di prova risulta essere stato fornito dal T. in ordine alle circostanze di fatto idonee a qualificare come riprovevole il comportamento della madre naturale: nella specie nulla viene dedotto circa l’insorgenza e la durata dei rapporti sentimentali o meno tra il T. e la B., nè in ordine al luogo ed al tempo in cui i due ebbero una relazione, se abbiano convissuto o meno, le ragioni che portarono all’allontanamento dei due partners; se vi siano stati o meno successivi contatti tra i due. Neppure emerge se la B. quando venne a constatare di essere rimasta incinta fosse certa o invece dubitasse di chi fosse il padre del nascituro e se in quello stesso periodo si sia o meno intrattenuta con altri uomini; nulla è dato altresì conoscere – per totale difetto di allegazione – circa il tempo e la modalità in cui B.C., che era cresciuto in una diversa famiglia, abbia appreso la notizia della diversa paternità.

5.10 La rinuncia dei B. alle prove ammesse (da cui sarebbe emersa la conoscenza della gravidanza o della nascita da parte del T.), diversamente da quanto ipotizzato dalla difesa del ricorrente, non si trasforma in automatica “non contestazione” della negata conoscenza della nascita del figlio naturale da parte del T.: i limiti dell’oggetto del “thema decidendum” vengono, infatti, definiti alla udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., e l’oggetto del “thema probandum” (ossia la individuazione dei fatti la cui verifica istruttoria è ritenuta necessaria ai fini dell’accertamento dei fatti costitutivi della pretesa o della eccezione) non viene a mutare nelle fasi processuali successive. Tanto comporta che la “rinuncia” alla assunzione delle prove che sono state ammesse dal Giudice, determina la mancata acquisizione della dimostrazione di quei fatti, senza che ciò immuti il riparto dell’onere probatorio tra le parti: sicchè la mancata dimostrazione della pregressa comunicazione al T. della nascita del figlio (dedotta dal B. in funzione accertativa della colpa del padre naturale per avere impedito al figlio la possibilità di poter fruire di una migliore condizione economico-sociale adeguata al diverso tenore di vita del padre), non si converte per ciò stesso nella prova opposta – od anche solo nella “non contestazione” del fatto negativo della omessa conoscenza, la cui dimostrazione è invece richiesta a fondamento della distinta domanda risarcitoria, proposta dal T..

p. 6. Avuto riguardo a tale incertezze e lacune allegatorie nella descrizione dei fatti rilevanti, la mera asserzione del T. di avere dovuto rinunciare a godere della relazione con il B. a causa del comportamento illecito della madre, si risolve tautologicamente nel mero vanto del diritto al risarcimento del danno, che fonda la condizione di ammissibilità dell’azione ma non assolve alla prova dei fatti costitutivi della pretesa.

La – pure sintetica – valutazione di merito espressa dalla Corte territoriale in ordine alla mancata allegazione delle circostanze indispensabili a consentire l’applicazione dello schema logico della prova presentiva in ordine alla effettiva consistenza della occasione perduta (ossia della possibilità di instaurare e sviluppare il rapporto genitoriale), non appare quindi inficiata dal vizio di legittimità denunciato, tanto in relazione alle norme di diritto processuale, quanto alla errata applicazione della norma di diritto sostanziale, tutte indicate in rubrica.

Ed infatti, inesplicata la censura di nullità processuale per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), avendo provveduto la Corte di appello sulla domanda risarcitoria, rigettandola nel merito, ed esclusa la supposta rilevanza “con effetto retroattivo” del principio di non contestazione in conseguenza della rinuncia del B. alla assunzione delle prove ammesse (art. 115 c.p.c., comma 1); del tutto priva di supporto argomentativo la censura riferita alla asserita violazione dell’art. 113 c.p.c., osserva il Collegio che neppure la dedotta violazione dell’art. 2043 c.c., appare correttamente formulata laddove:

la mera allegazione della violazione di un interesse di rilievo costituzionale non si traduce per ciò solo nel diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, atteso che per consolidata affermazione di questa Corte, al di fuori dei casi in cui l’illecito civile integri la fattispecie di reato, ovvero sussista una espressa previsione normativa, il danno non patrimoniale è risarcibile soltanto alla compresenza di tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 c.c., giacchè qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità. Tanto consegue che il soggetto leso è tenuto in ogni caso a fornire puntuale prova delle circostanze fattuali dimostrative della perdita del bene derivata dalla violazione del predetto interesse, non potendo assumersi la sussistenza del danno “in re ipsa” (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 20684 del 25/09/2009; id. Sez. 6-1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013; id. Sez. 3, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017; id. Sez. 3, Sentenza n. 11269 del 10/05/2018; id. Sez. 3, Sentenza n. 28985 del 11/11/2019; id. Sez. 6-L, Ordinanza n. 29206 del 12/11/2019; id. Sez. L, Sentenza n. 4886 del 24/02/2020; id. Sez. 3, Ordinanza n. 4005 del 18/02/2020).

qualora poi il riferimento all’art. 2043 c.c., dovesse essere, invece, riferito alla asserita errata valutazione compiuta dalla Corte d’appello in ordine alla sussistenza di elementi istruttori dimostrativi del danno risarcibile, e dunque debba intendersi come censura per “errore di fatto” riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ne segue la inammissibilità del motivo di ricorso in quanto difetta del tutto la indicazione del fatto storico decisivo che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare e che se correttamente esaminato avrebbe determinato una differente soluzione della controversia: al riguardo è appena il caso di osservare come la doglianza del ricorrente della mancata ammissione dei mezzi di prova originariamente richiesti a tal fine, non raggiunga i requisiti minimi di sindacabilità, tenuto conto che alcuna indicazione emerge dal ricorso per cassazione dei fatti oggetto delle richieste probatorie, implicitamente ritenute irrilevanti dalla Corte territoriale, e non essendo pertanto questa Corte in grado di verificare se ed in che modo tali fatti rivestissero il carattere della decisività richiesto dalla norma processuale. Il Giudice di merito, peraltro, non soltanto ha rilevato la mancata allegazione di indizi idonei a consentire il riconoscimento di una effettiva perdita di occasione, non essendo emersi dalla istruttoria elementi tali da presumere la ricerca e l’intenzione del T. di realizzare l’aspirazione alla genitorialità (la mancata allegazione dei comportamenti tenuti dal T. nel tempo immediatamente successivo al rapporto avuto con la B., viene ad assumere al proposito carattere significativo, alla stregua dei precedenti giurisprudenziali che onerano il soggetto, ove effettivamente interessato alla propria genitorialità, ad attivarsi per conoscere dal partner le possibili evoluzioni dell’atto sessuale: cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5652 del 10/04/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 26205 del 22/11/2013), ma ha ritenuto di rilevare la esistenza di elementi indiziari contrari, desunti dall’atteggiamento contestativo del riconoscimento del figlio naturale: trattasi di valutazione di merito che rimane sottratta al sindacato di legittimità di questa Corte.

p.7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2020

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