Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8454 del 27/03/2019

Cassazione civile sez. III, 27/03/2019, (ud. 04/10/2018, dep. 27/03/2019), n.8455

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6459/2016 R.G. proposto da:

D.R.A., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Andrea Faraon e

Luciano Faraon, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Comano, n. 95;

– ricorrente –

contro

V.S.B., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Enrico

Ravaini e Stefano Bona, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via S. Pellico, n. 24;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia pubblicata il 2

febbraio 2015.

Udita la relazione svolta in Camera di consiglio dal Consigliere

Dott. Cosimo D’Arrigo;

letta la sentenza impugnata;

letto il ricorso e il controricorso.

Fatto

RITENUTO

D.R.A. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Treviso F.F., venditrice di un fondo rustico, e V.S.B., acquirente, deducendo di essere in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi per l’esercizio del diritto di prelazione previsto dalla L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8, comma 1 e che la venditrice aveva omesso la comunicazione prevista dal comma 4 del citato articolo, con conseguente facoltà di riscattare il fondo ai sensi del successivo comma 5. Chiedeva altresì il risarcimento dei danni asseritamente conseguenti all’inquinamento di una falda acquifera.

Nel contraddittorio con l’acquirente, il Tribunale di Treviso, con sentenza non definitiva, rilevava la tardività dell’esercizio del diritto di riscatto e la contemporanea assenza, nella comunicazione fatta

dall’attrice alla controparte, dei necessari requisiti di

determinatezza, completezza e serietà; conseguentemente rigettava la domanda principale. Successivamente, con sentenza definitiva, respingeva le residue domande della D.R. ed accoglieva quella riconvenzionale del convenuto di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., che liquidava in Euro 10.000,00; condannava l’attrice al pagamento delle spese processuali.

La D.R., che aveva formulato riserva di impugnazione avverso la sentenza non definitiva, con unico atto appellava le due statuizioni. La Corte d’appello di Venezia, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava il gravame e poneva a carico dell’appellante anche le spese del giudizio di secondo grado.

Tale decisione è stata fatta oggetto, da parte della D.R., di ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. Il V. ha resistito con controricorso.

Il pubblico ministero non ha rassegato conclusioni scritte.

Diritto

CONSIDERATO

In considerazione dei motivi dedotti e delle ragioni della decisione, la motivazione del presente provvedimento può essere redatta in forma semplificata.

Il ricorso è inammissibile.

2.1 La corte d’appello ha respinto la domanda dell’attrice sulla base di due autonome rationes decidendi.

La prima concerne la tardività dell’esercizio dell’azione di riscatto. I giudici di merito hanno ritenuto che la semplice istanza di conciliazione indirizzata all’Ispettorato dell’agricoltura non potesse considerarsi idonea a manifestare l’intendimento della D.R. di riscattare il fondo.

Questo profilo è censurato con il primo motivo di ricorso, nell’ambito del quale la ricorrente ripropone una considerazione già illustrata innanzi alla corte territoriale: la sottoscrizione, da parte del titolare del diritto di riscatto, della procura alle liti, vale a far proprio il contenuto negoziale dell’atto processuale e quindi ha l’effetto sostanziale di far salvo il termine annuale di decadenza previsto dalla L. n. 590 del 1965 art. 8, comma 5.

2.2 In iure occorre rilevare che la giurisprudenza di legittimità invocata dalla D.R. a sostegno della propria tesi costituisce specificazione, nel particolare caso del riscatto agrario, del principio generale secondo cui la parte privata che sottoscrive il mandato ad litem in calce o a margine dell’atto di citazione ne fa propri gli effetti negoziali. Ragionamento che, ovviamente, non può essere traslato sic et simpliciter sul piano della istanza di conciliazione innanzi all’Ispettorato dell’agricoltura, dal momento che tale istanza, a differenza dell’atto di citazione, non deve necessariamente contenere la specifica indicazione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto posti a fondamento della domanda. Perciò, per verificare la capacità di una simile istanza di rappresentare una valida comunicazione dell’intenzione di esercitare il diritto di riscatto, occorrerebbe esaminare il contenuto specifico della stessa.

Sotto tale profilo il ricorso è inammissibile per carenza di specificità, essendo stata del tutto omessa l’indicazione, diretta o indiretta, del contenuto di quell’istanza, che peraltro i giudici di merito hanno concordemente ritenuto generica e sprovvista dei necessari requisiti di determinatezza, completezza e serietà.

2.3 Non è, tuttavia, superfluo aggiungere che la corte d’appello ha posto seriamente in dubbio la circostanza che il difensore della D.R. fosse titolare, alla data di sottoscrizione dell’istanza di conciliazione, di un efficace mandato alle liti, rilevando che quello allegato all’istanza prodotta in atti è costituito, in modo manifesto. dalla fotocopia della stessa procura alle liti rilasciata per il giudizio di merito, con la sola differenza della artificiosa correzione manuale della data. Per tale condotta processuale, che la corte d’appello ha espressamente qualificato come un “espediente” deontologicamente scorretto, è stata disposta la segnalazione, per quanto di competenza, al Consiglio dell’ordine degli avvocati presso cui era iscritto il procuratore della parte appellante.

Rispetto a tali considerazioni, che rappresentano un argomento tranciante in ordine alla possibilità di considerare l’istanza di conciliazione come avente effetti equipollenti a quelli della dichiarazione diretta di esercizio del potere di riscatto, il ricorso è del tutto silente.

3.1 con una seconda ed autonoma ratio decidendi, la corte d’appello perviene all’analogo risultato dell’infondatezza della domanda attorea, rilevando che la D.R. non ha fornito alcuna prova del possesso dei requisiti soggettivi legittimanti l’esercizio del diritto di riscatto agrario.

In particolare, ha osservato che l’attrice aveva omesso di esporre e di fornire la relativa prova di quale sarebbe stata la sua attività agricola e in che in cosa sarebbe consistita. Ha altresì rilevato che le prove testimoniali richieste sul punto erano del tutto generiche e, dunque, inammissibili, anche in considerazione della circostanza che la D.R. risultava stabilmente residente in Lussemburgo e titolare di un’autonoma attività lavorativa.

3.2 Questo capo della sentenza è impugnato con il secondo motivo di ricorso, nel quale la D.R. omette di indicare quali sarebbero le norme di legge che assume siano state violate.

Si limita a ribadire, in punto di fatto, di essere un’imprenditrice agricola, come dimostrerebbe il modulo dell’Agenzia delle entrate di dichiarazione di inizio attività; documento che, provenendo da un ente pubblico, godrebbe di fede privilegiata.

La censura è inammissibile in quanto essa è volta a sollecitare una rivisitazione della ricostruzione in punto di fatto, il cui apprezzamento rientra nella competenza esclusiva del giudice di merito; il tutto, peraltro, mediante affermazioni estremamente generiche ed indimostrate.

Del tutto inconducente, inoltre, risulta la considerazione relativa alla natura fidefaciente del documento proveniente dall’Agenzia delle entrate. Trattasi, infatti, di una certificazione rilasciata sulla base di una dichiarazione (di inizio attività) proveniente dalla stessa D.R.. Tale dichiarazione, peraltro, assume rilievo ai soli fini fiscali ed è comunque insufficiente a dimostrare il contemporaneo possesso, in capo alla riscattante, di tutti i requisiti soggettivi richiesti dalla legge agraria.

Com’è noto, l’istituto della prelazione agraria è uno strumento, di natura in parte pubblicistica, che va a comprimere l’autonomia negoziale delle parti e che, pertanto, può essere ammesso soltanto in presenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla legge (Sez. 3, Sentenza n. 4934 del 02/03/2010, Rv. 611748); è da escludere, pertanto, che la semplice autodichiarazione rilasciata ad un ufficio pubblico dell’inizio dell’attività di coltivatore diretto sia sufficiente a conseguire il risultato l’acquisizione in proprietà del bene, dovendo piuttosto essere analiticamente dimostrata la sussistenza di tutti i requisiti di legge, in assenza di uno solo dei quali dei quali l’accordo contrattuale non può essere caducato.

4. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione della direttiva CEE n. 676/91 e dell’art. 844 c.c., in relazione alla domanda di risarcimento danni per inquinamento di una falda acquifera.

Anche in questo caso, il ricorso si risolve in una serie di contestazioni in punto di fatto circa la sussistenza della prova del lamentato danno.

La corte d’appello ha ritenuto che l’appellante non avesse in alcun modo provato nè l’effettiva sussistenza degli scarichi e dell’inquinamento, nè la riferibilità di essi all’odierno appellato, il quale peraltro aveva solo di recente acquisito il fondo confinante.

La D.R. si limita ad affermare genericamente di aver fornito adeguata prova in ordine al primo aspetto, senza dedurre nulla quanto al secondo.

La censura, dunque, è inammissibile per carenza di specificità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), non avendo la ricorrente indicato quali elementi di prova sarebbero stati effettivamente addotti a sostegno della sua domanda.

Peraltro, con il motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione delle norme sostanziali. Laddove, semmai, si sarebbe dovuto denunciare l’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) ovvero la violazione dell’art. 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Il motivo, inoltre, non è sorretto da un effettivo interesse ad agire, in quanto, quand’anche fosse comprovato l’inquinamento subito dal fondo della attrice, difetta, come già rilevato dalla corte territoriale, ogni prova circa la riferibilità del danno all’appellato; profilo, questo, rispetto al quale il ricorso non osserva alcunchè.

5. Con il quarto motivo di ricorso la D.R. si duole della condanna per responsabilità processuale aggravata, sostenendo la fondatezza della sua domanda, quantomeno in relazione al danno alla salute derivante dall’inquinamento della falda acquifera.

In realtà, i danni ex art. 96 c.p.c., ravvisati dalla corte d’appello si riferiscono all’azione di riscatto agrario, essendo costituiti dalle limitazioni alla circolazione o alla vendita del fondo conseguenti alla trascrizione della domanda.

Rispetto a tale decisione, il motivo di ricorso risulta quindi del tutto eccentrico, in quanto interamente impostato sull’asserzione peraltro, come si è già visto, è infondata – della legittimità dell’azione proposta a tutela del danno alla salute derivante dall’inquinamento della falda acquifera.

6. Con un quinto motivo di ricorso (erroneamente numerato come quarto) la ricorrente si duole del rigetto dell’appello in ordine alla mancata ammissione delle prove richieste in primo grado.

La censura non è prospettata in termini di violazione di legge, risolvendosi nella sola generica riproposizione delle domande istruttorie che la corte d’appello, come si è già detto, aveva ritenuto manifestamente generiche e inconducenti.

Il motivo è quindi inammissibile.

Inoltre, il ricorso difetta dell’analitica indicazione delle richieste istruttorie che sono state rigettate e della dimostrazione della loro tempestiva proposizione, sicchè il motivo difetta anche di autosufficienza.

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, nella misura indicata nel dispositivo.

Ricorrono altresì i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, perciò va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lei proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2019

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