Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 845 del 17/01/2020

Cassazione civile sez. III, 17/01/2020, (ud. 17/09/2019, dep. 17/01/2020), n.845

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6051-2018 proposto da:

F.A.G., domiciliata ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati

c.c. NUNZIATA TORRE, ANTONINO LI CAUSI;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO

CIVININI 48, presso lo studio dell’avvocato LARA LUNARI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO AMAGLIANI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1068/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 20/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/09/2019 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI.

Fatto

RILEVATO

che:

B.A. agì, in proprio e in qualità di procuratore speciale di C.S., per sentir accertare la cessazione di un contratto di affitto agrario relativo ad un fondo sito in (OMISSIS), contrada (OMISSIS), e per sentir condannare l’affittuario P.A.G. al rilascio del bene, dando atto che il tentativo di conciliazione aveva avuto esito negativo;

il P. resistette alla pretesa, eccependo – fra l’altro – la carenza di legittimazione attiva del ricorrente e la mancanza, in capo al medesimo, di poteri di rappresentanza sostanziale e processuale della C.;

il Tribunale di Barcellona P.G., Sez. Spec. Agraria, dichiarò il difetto di legittimazione attiva del B. e lo condannò al pagamento delle spese processuali;

provvedendo sul gravame proposto dal B., la Corte di Appello di Messina, Sez. Spec. Agraria ha riformato la sentenza dichiarando il rapporto agrario cessato alla data del 4.1.2010 e condannando il P. al rilascio del fondo per il 10.11.2017;

ha proposto ricorso per cassazione il P., affidandosi a quattro motivi; l’intimato ha resistito con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo (che denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 77 e 182 c.p.c., art. 374 c.c., n. 5) e L. n. 203 del 1982, art. 46) il ricorrente assume che:

le domande svolte dal B. non erano state precedute da valido tentativo di conciliazione, in quanto il tentativo era stato promosso dal predetto B. quale procuratore di S.N. e C.S., ma la S. non era più comproprietaria del fondo (avendone già donato la propria quota al B.) e la procura speciale a ministero del notaio R. rilasciatagli dalla ASL (OMISSIS) di Torino (tutrice della C.) non legittimava il B. a promuovere il tentativo di conciliazione;

il B., inoltre, non avrebbe potuto stare in giudizio per la C., in difetto di espresso conferimento per iscritto di tale facoltà, per l’esercizio della quale la ASL torinese avrebbe dovuto, peraltro, munirsi della necessaria autorizzazione del Giudice Tutelare;

sia lo stesso B. che la Corte di Appello avevano riconosciuto il difetto di valida procura per promuovere il giudizio in nome e per conto della C.;

il secondo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo (costituito dalla circostanza che il B. non era il tutore della C., ma solo il suo procuratore speciale) e la violazione o falsa applicazione dell’art. 374 c.c., n. 5), ribadendo che il B. non aveva mai avuto alcun mandato per promuovere il tentativo di conciliazione, nè tantomeno alcuna procura alle liti; che la circostanza che il B. non fosse tutore della C. comportava l’assoluta inapplicabilità dell’art. 374 c.c., n. 5); che l’azione promossa dal B. non rientrava in alcuno dei procedimenti speciali indicati dall’art. 374 c.c., n. 5), ma consisteva in un’azione ordinaria di cessazione degli effetti di un contratto agrario;

col terzo motivo (che denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 1105 c.c. e la “motivazione ingiusta e abnorme”), il ricorrente censura l’assunto della Corte di Appello secondo cui l’azione giudiziaria proposta dal B. in proprio “doveva sicuramente presumersi come esercitata con il consenso della comproprietaria”, evidenziando che non può ritenersi sussistente il consenso di un comproprietario in stato di interdizione senza che sia stato informato il suo tutore; ribadisce, inoltre, che il difetto di valida procura alle liti comporta la nullità dell’atto introduttivo del giudizio e dell’intero procedimento e che il giudizio promosso nell’interesse dell’incapace senza l’autorizzazione prescritta dall’art. 374 c.c., n. 5) è affetto da nullità radicale, rilevabile anche d’ufficio;

il quarto motivo deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. sul rilievo che la corretta lettura della vicenda avrebbe dovuto determinare la soccombenza del B.;

i primi tre motivi – che si prestano ad essere trattati congiuntamente – vanno rigettati, previa parziale correzione della motivazione della sentenza, tenuto conto che:

quale procuratore speciale della C., incaricato di provvedere alla gestione degli immobili siti in Comune di (OMISSIS) di cui l’interdetta era comproprietaria, il B. era legittimato a dare disdetta al contratto di affitto e a promuovere il tentativo di conciliazione avanti all’ispettorato provinciale agrario;

sebbene, infatti, la procura per notaio R. non contemplasse il potere di agire in giudizio in nome e per conto della C., non pare dubitabile che l’invio della disdetta e l’attivazione del procedimento di conciliazione, pur preordinate all’eventuale azione di rilascio, si ponessero all’esterno del perimetro giudiziale per il quale il B. difettava effettivamente di potere rappresentativo;

a ciò si aggiunga la considerazione che – per quanto emerge dalla sentenza (a pag. 7) – il B. aveva compiuto le medesime attività anche in qualità di procuratore dell’altra comproprietaria ( S.N.) e, successivamente, di comproprietario egli stesso; poco rileva, al riguardo, la circostanza (evidenziata a pag. 6 del ricorso, ma “nuova” rispetto al contenuto della sentenza) che, all’epoca, il B. potesse essere già divenuto comproprietario del bene, giacchè in tal caso la disdetta e l’istanza di tentativo di conciliazione sarebbero riferibili direttamente ad esso (anzichè alla S.);

a fronte di una disdetta efficace e di un tentativo di conciliazione (infruttuoso) ritualmente promosso, deve valutarsi se la circostanza che il B. abbia agito, oltrechè in proprio, anche in veste di procuratore della C., benchè difettasse di rappresentanza processuale, abbia inciso negativamente sulla possibilità di pronunciare la cessazione del contratto di affitto; deve valutarsi, in altri termini, se il principio – consolidato – secondo cui, in caso di pluralità di locatori, ciascuno di essi ha pari poteri gestori sulla cosa comune ed è legittimato ad agire per il rilascio, in base alla presunzione che ciascuno di essi operi con il consenso degli altri, possa valere anche nel caso in cui uno dei comproprietari sia incapace di intendere e di volere (il che escluderebbe – secondo l’assunto del ricorrente – la possibilità di presumerne il consenso all’azione di rilascio);

al riguardo, deve ritenersi che lo stato di interdizione della C., non abbia impedito al principio di operare poichè la presunzione di consenso prescinde da un’indagine sullo stato soggettivo degli altri comproprietari e va intesa – in senso oggettivo – quale mancanza di dissenso da parte degli stessi (che consente di presumerne il consenso);

deve dunque ritenersi che la sentenza meriti conferma per avere accolto la domanda proposta in proprio dal B., che era legittimato ad agire per la risoluzione in difetto di elementi idonei a superare la presunzione di consenso dell’altra comproprietaria all’esercizio dell’azione di rilascio;

il quarto motivo (già di per sè inammissibile in quanto non esprime una effettiva censura in diritto, ma auspica un ribaltamento della decisione e un consequenziale diverso riparto delle spese di lite) resta assorbito;

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 4.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020

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