Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8443 del 27/03/2019

Cassazione civile sez. III, 27/03/2019, (ud. 13/06/2018, dep. 27/03/2019), n.8443

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25454/2016 proposto da:

G.G., Z.M., F.M., G.A.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SIMONE DE SAINT BON, 89,

presso lo studio dell’avvocato MASSIMO TERRA, che li rappresenta e

difende unitamente agli avvocati MARIA LAURA VENEZIANI, GIANCARLO

GUERINI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ALLIANZ SPA, in persona del procuratore Dott. C.P.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO SPADAFORA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ANTONIO SPADAFORA giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

e contro

D.L., A.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 273/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 30/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/06/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. F.M., Z.M., G.G. ed A. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 273/16 del 30 marzo 2016, della Corte di Appello di Brescia, che nel pronunciarsi all’esito di giudizio di rinvio conseguente all’ordinanza di questa Corte n. 10924/13, del 9 maggio 2013, e riformando la sentenza n. 2603/06 del 7 luglio 2006 del Tribunale di Brescia – ha accertato nella misura del 25% il contributo di D.C.S. nella causazione del sinistro stradale in cui il medesimo perse la vita, rideterminando, per l’effetto, il risarcimento dovuto dalla società Allianz S.p.a., già Ras Assicurazioni S.p.a. (d’ora in poi, “Allianz”), nei confronti di F.M., anche quale esercente la potestà genitoriale sulla minore D.C.C. (rispettivamente, l’una compagna e l’altra figlia del deceduto), ovvero nei confronti di Z.M., nonchè di G.A. e G. (la prima, madre della vittima,,gli altri due fratello “ex madre” e patrigno dello stesso), in particolare, riducendo in Euro 69.571,00 la somma dovuta alla F. e ponendo, invece, a carico degli altri soggetti obblighi di restituzione di varia entità, in ragione di quanto precedentemente dagli stessi già percepito.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti che D.C.S., il (OMISSIS), perdeva la vita in un sinistro stradale avvenuto nei pressi di (OMISSIS), allorchè viaggiava in qualità di trasportato – lungo l’autostrada che collega a (OMISSIS) la città emiliana – a bordo di autovettura condotta da A.G., deceduto anch’esso nell’incidente (al pari del proprio figlio, pure trasportato nell’occasione). In particolare, l’ A., perso il controllo del veicolo, andava ad urtare violentemente, con lo spigolo anteriore destro della vettura, il guard-rail laterale, cagionando la morte, tra gli altri, del D.C., seduto sul sedile anteriore destro dell’auto.

Deducono, altresì, gli odierni ricorrenti di aver convenuto in giudizio – nelle già ricordate qualità – gli eredi dell’ A., D.L. ed A.E., nonchè la compagnia assicuratrice per la “r.c.a.”, società Ras (oggi Allianz), per conseguire il ristoro dei danni derivati dalla morte del loro congiunto D.C..

Costituitisi in giudizio i convenuti, gli stessi eccepivano – tra l’altro – che il D.C., al momento del sinistro, non indossava la cintura di sicurezza, chiedendo, di conseguenza, una riduzione del danno risarcibile.

Siffatta eccezione veniva, però, disattesa dall’adito Tribunale bresciano (e ciò sul presupposto che, avendo gli attori agito per conseguire danni patiti “iure proprio”, il contegno dell’ucciso non potesse rilevare ai fini dell’applicazione dell’art. 1227 c.c.), condannando i convenuti, in via solidale, a corrispondere a titolo risarcitorio Euro 475.000,00 a F.M., Euro 465.000,00 a D.C.C., Euro 100.000,00 a Z.M., nonchè Euro 70.000,00 ed Euro 30.000,00 a G.G. ed A..

Esperiva gravame la Ras, svolgendosi, peraltro, il giudizio di appello solo nel contraddittorio degli attori (e non pure di D.L. ed A.E.) e concludendosi con il riconoscimento del contributo del D.C., stimato nella misura del 30%, nella causazione dell’evento mortale a suo carico, dal quale erano poi derivati i danni patiti dagli attori/appellati.

Proposto ricorso per cassazione da questi ultimi (nonchè ricorso incidentale da Ras, divenuta “medio tempore” Allianz), questa Corte annullava la sentenza impugnata, rilevando il difetto di integrazione del contraddittorio nei confronti delle litisconsorti necessarie D. ed A..

Riassunto il giudizio ex art. 392 c.p.c., innanzi alla Corte di Appello di Brescia, la stessa riconosceva nella misura del 50% il contributo che la condotta di guida dell’ A. aveva avuto nella causazione dell’evento mortale a carico del D.C., nonchè in un restante 25% la misura dell’ulteriore contributo esplicato dal fatto che il conducente non avesse impedito al passeggero di trasgredire la normativa relativa all’uso delle cinture di sicurezza, fissando, quindi, nella restante misura (pari al rimanente 25%) il contributo dello stesso D.C., rideterminando, per l’effetto, l’entità del risarcimento dovuto a ciascuno degli attori.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la F., la Z. e i G., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo si deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione, falsa od errata applicazione degli artt. 2927 e 2929, in riferimento all’art. 1227 c.c.”.

Si censura la sentenza impugnata, in sostanza, per aver violato il divieto della cd. “praesumptio de praesumpto”, in quanto essa, partendo dalla constatazione che il cadavere del D.C. venne ritrovato sulla carreggiata nei pressi del lato destro della vettura, attraverso una prima presunzione, ovvero che il medesimo non avesse utilizzato la cintura di sicurezza (in quanto tutte ritrovate “integre, tese e perfettamente alloggiate nei relativi contenitori”), ha ritenuto, in via ulteriormente presuntiva, che l’uso della stessa avrebbe, con elevata probabilità, trattenuto il trasportato all’interno dell’abitacolo, impedendogli di subire traumi letali.

Il ragionamento presuntivo risulterebbe, dunque, viziato, atteso che – assumono i ricorrenti – “le presunzioni semplici devono fondarsi su un fatto noto e non su un fatto la cui esistenza viene ricavata da un giudizio di sola probabilità o addirittura di possibilità” (è citata Cass. sez. Lav., sent. 5 aprile 2001, n. 5090).

Conclusione, questa, a maggior ragione da ribadire in un caso, come quello presente, in cui si tratta di valutare “se un’omissione cioè un comportamento che doveva essere posto in essere, ma che nella realtà fattuale, non lo è stato – possa non aver impedito l’evento”.

Ciò premesso, e ritenuto di per sè sufficiente ad inficiare la prova presuntiva, si sottolinea come il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza non concorra, nella specie, “con ulteriori elementi sufficientemente gravi, precisi e concordanti sul punto”, ovvero “tali da far apparire altamente probabile che il sistema di ritenzione avrebbe scongiurato la morte del D.C.”.

Infatti, la Corte bresciana ha valorizzato la circostanza per cui, all’esito del sinistro, l’abitacolo della vettura appariva “quasi” integro, ciò che – oltre a contrastare con le risultanze della documentazione fotografica in atti e con il verbale degli accertamenti tecnici eseguiti nell’immediatezza dell’incidente – appare “sintomo della superficialità e non prudente indagine svolta sulle cause” dello stesso.

Inoltre, il giudice di appello avrebbe omesso di considerare che l’autovettura condotta dall’ A. “era lanciata ad elevatissima velocità sull’autostrada”, e dunque l’incidenza di tale circostanza rispetto alla dinamica del sinistro, non spiegando la ragione – anche in relazione a tale fatto – per cui l’uso delle cinture avrebbe evitato le conseguenze mortali verificatesi.

3.2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – “violazione, falsa od errata applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 2697 c.c., quanto all’accertamento dei presupposti della fattispecie di cui dell’art. 1227 c.c., comma 1”.

Si assume che, avendo la sentenza di appello fondato l’applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, sostanzialmente su una (inammissibile) “doppia presunzione”, essa – in “assenza di ulteriore materiale probatorio degno di rilievo” – avrebbe dovuto “fare applicazione del principio “onus probandi incumbit ei qui dicit” codificato dall’art. 2697 c.c. e ritenere infondata la questione concernente il concorso colposo del danneggiato nella causazione dell’evento”.

Conclusione, questa, che si sarebbe imposta anche alla stregua di quella giurisprudenza di legittimità che attribuisce rilievo all’inosservanza dell’obbligo di indossare le cinture di sicurezza (e, più in generale, delle norme poste a tutela della sicurezza degli utenti della strada) solo quando essa si ponga “come elemento causale rispetto all’evento dannoso”, l’onere della cui prova grava sul debitore/danneggiante.

Vero è, peraltro, che questa Corte ha affermato che il concorso del fatto colposo del creditore/danneggiato può essere rilevato d’ufficio dal giudice, ma ciò pur sempre a condizione – assumono i ricorrenti – che siano stati “prospettati, dal debitore-danneggiante, gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa, sul piano causale, dello stesso danneggiato”.

3.3. Con il terzo motivo si ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – “violazione, falsa od errata applicazione dell’art. 2054 c.c.”.

Sul presupposto che il comma 1 del citato articolo trovi applicazione anche rispetto ai danni lamentati dal terzo trasportato, i ricorrenti assumono che la presunzione di responsabilità sancita da tale norma può essere vinta solo quando il conducente del veicolo “dimostri di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno”, prova che può essere raggiunta anche attraverso il ricorso a presunzioni.

Tuttavia, nella specie, il vizio che inficia il ragionamento presuntivo svolto dalla Corte bresciana impedisce di ritenere raggiunta siffatta prova liberatoria, dovendo, così, farsi applicazione del principio enunciato da questa Corte di legittimità e secondo cui, in assenza di “elementi per accertare l’esistenza di un apporto causale ad opera del comportamento colposo del creditore-danneggiato, ovviamente non rimane che l’incidenza causale del comportamento del danneggiante, tenuto conto che la posizione del passeggero è assistita dalla presunzione di colpa nella causazione dell’evento dannoso a carico del conducente a norma dell’art. 2054 c.c., comma 1 e, per l’effetto, solo questi va condannato al risarcimento” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 3 aprile 2014, n. 7777).

4. Ha resistito all’impugnazione solo la società Allianz, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o infondata.

Essa rileva, per un verso, come il ricorso tenda, inammissibilmente, sotto l’apparenza di denunciare violazioni di legge, a riproporre una diversa valutazione delle risultanze di causa, ciò che esula dal vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con il quale non è possibile censurare l’erronea ricognizione della fattispecie concreta.

D’altra parte, poichè è devoluta allo stesso giudice di merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove risulta sottratta al sindacato di legittimità.

Nella specie, poi, la Corte bresciana non ha fatto altro se non conformarsi a quel consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il danneggiato per lesioni è corresponsabile, ex art. 1227 c.c., dei danni subiti ove abbia omesso di indossare le cinture di sicurezza.

5. Hanno presentato memoria entrambe le parti, insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso va rigettato.

6.1. In via preliminare, peraltro, va osservato che i tre motivi in cui esso si articola si prestano ad una trattazione congiunta.

Difatti, il tema – su cui insiste il primo motivo di ricorso – del preteso vizio logico, integrante violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., che inficerebbe il ragionamento presuntivo svolto dalla Corte bresciana circa il contributo causale dello stesso D.C. all’evento costituito dal suo decesso, si “salda” con quelli (oggetto, rispettivamente, del secondo e del terzo) sia della “falsa applicazione” dell’art. 1227 c.c., comma 1, ovvero la norma sul concorso dello stesso danneggiato nella produzione del pregiudizio a proprio carico, sia del mancato superamento della presunzione “iuris tantum” di responsabilità del conducente, per i danni patiti dal trasportato, sancita dall’art. 2054 c.c., comma 1.

Ed invero, ove dovesse accertarsi che quel ragionamento sia esente da mende, la conseguenza automatica che se ne dovrebbe trarre sarebbe nel senso del corretto riconoscimento dell’ipotesi del concorso del fatto colposo del danneggiato e, quindi, pure del superamento della presunzione suddetta; in tal senso, dunque, può dirsi che le tre questioni “simul stabunt, simul cadent”.

Del resto, la sostanziale sovrapponibilità delle verifiche demandate a questa Corte, con i tre motivi di impugnazione, risulta confermata alla stregua del principio secondo cui, qualora “la messa in circolazione di un veicolo in condizioni di insicurezza” (nel presente caso, per il mancato uso delle cinture di sicurezza) risulta “ricollegabile all’azione o omissione non solo del conducente – il quale, prima di iniziare o proseguire la marcia, deve controllare che questa avvenga in conformità delle normali regole di prudenza e sicurezza – ma anche del trasportato, il quale ha accettato i rischi della circolazione, si verifica un’ipotesi di cooperazione colposa dei predetti nella condotta causativa dell’evento dannoso; pertanto, in caso di danni al trasportato medesimo, sebbene la condotta di quest’ultimo non sia idonea, di per sè, ad escludere la responsabilità del conducente, nè a costituire valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili, essa può tuttavia costituire un contributo colposo alla verificazione del danno, la cui quantificazione in misura percentuale è rimessa all’accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato” (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2017, n. 6481, Rv. 64340801).

Naturalmente, per concludere sul punto, del tutto irrilevante è, poi, la circostanza (come del resto non contestano neppure i ricorrenti) che il danno di cui si discute sia quello subito “iure proprio” dai congiunti della vittima primaria del sinistro, e ciò alla stregua del principio secondo cui, in “materia di responsabilità civile, in caso di mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte di un passeggero, poi deceduto, di un veicolo coinvolto in un incidente stradale, verificandosi un’ipotesi di cooperazione nel fatto colposo, cioè di cooperazione nell’azione produttiva dell’evento, è legittima la riduzione proporzionale del risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima” (Cass. Sez. 3, sent. 28 agosto 2007, n. 18177, Rv. 598971-01).

6.2. Ciò premesso, deve “in limine” ancora rilevarsi – a confutazione dell’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso, formulata dalla controricorrente sul rilievo che l’impugnazione tenderebbe ad una “rivisitazione” in fatto delle risultanze dei due giudizi di merito – come le censure proposte attraverso la presente impugnazione risultino, invece, correttamente formulate.

In particolare, per quanto concerne quella – come visto, assorbente – che investe il ragionamento presuntivo svolto dal giudice bresciano, deve qui confermarsi quanto ancora di recente ribadito da questa Corte, ovvero che “qualora il giudice di merito sussuma erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360 c.p.c., n. 3), (e non già alla stregua dello stesso art. 360, n. 5), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; in senso sostanzialmente analogo pure Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01 e Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto).

6.3. Nondimeno, sebbene ammissibili, i motivi di ricorso non sono fondati, non riscontrandosi vizi nel ragionamento presuntivo operato dalla Corte bresciana.

6.3.1. Sul punto non pare inutile rammentare – come premessa di carattere generale – che in relazione ai caratteri della gravità, precisione e concordanza che debbono connotare le presunzioni questa Corte ha chiarito quanto segue.

In particolare, essa ha affermato che “la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche “lex artis”)”, esprimendo nient’altro che “la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui, dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B”, non essendo, invece, “condivisibile invece l’idea che vorrebbe sotteso alla gravità che l’inferenza presuntiva sia “certa”” (così Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.). Difatti, “per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'”id quod plerumque accidit” (in virtù della regola dell’inferenza probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravita, precisione e concordanza”, dovendosi solo escludere “che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici” (Cass. Sez. 3, sent. n. 17457 del 2007, cit.).

Quanto, invece, alla precisione, essa “esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso” di esso, mentre “non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti”; infine, la concordanza individua un “requisito del ragionamento presuntivo, che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori, volendo esprimere l’idea che, intanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi” (così, nuovamente, Cass. sez. 3, sent. 19485 del 2017, cit.).

6.3.2. Questi criteri non sono stati disattesi dalla sentenza impugnata.

Essa, partendo dal fatto noto del ritrovamento del cadavere del D.C. sul selciato dell’autostrada, lo ha posto in correlazione con un altro fatto noto, ovvero il rinvenimento delle cinture anteriori di sicurezza “integre, tese e perfettamente alloggiate nei relativi contenitori”, per desumerne in via di inferenza probabilistica – con valutazione corroborata dal fatto che, in caso di utilizzazione, esse avrebbero dovuto presentare rotture o quantomeno strappi – che il mancato uso, in particolare, di quella posta in corrispondenza del lato passeggero avesse contribuito allo schianto mortale dello stesso sulla sede autostradale. Tale ragionamento, che individua nel mancato uso della cintura, non la causa, ma una concausa – tra l’altro, neppure preponderante, giacchè alla fine stimata nel 25% – dell’evento letale, è stato, poi, ulteriormente corroborato sulla base di un concordante elemento (esso, sì, non sindacabile in questa sede, per il noto principio secondo cui spetta al giudice di merito apprezzare le risultanze istruttorie, oltre che selezionare gli elementi posti a fondamento del proprio convincimento), ovvero che l’abitacolo della vettura, in corrispondenza del posto anteriore riservato al passeggero, si presentasse “quasi integra”. Da ciò si è tratta, pertanto, la conclusione, non che l’uso della cintura avrebbe scongiurato l’evento letale, e dunque che la colpevole omissione del precetto che ne impone l’utilizzazione sia stata causa di esso (come infondatamente i ricorrenti addebitano alla sentenza impugnata), ma che essa ha, quantomeno, contribuito alla sua verificazione.

Conseguentemente, la valutazione del giudice di appello si sottrae alle critiche ad esso rivolte, conformandosi ai principi enunciati da questa Corte già sopra ricordati, nonchè a quelli secondo cui “l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell'”id quod prelumque accidit”” risulta “immune da vizi logici o giuridici” allorchè si conformi “al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale” (cfr., Cass. Sez. 3, sent. 16 maggio 2017, n. 12002, Rv. 644300-01).

6.3.3. Infine, va rilevato che, operando tale ragionamento, la Corte territoriale non è neppure incorsa in violazione dell’art. 2697 c.c., se è vero che detta evenienza “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

7. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico dei ricorrenti e liquidate come da dispositivo.

8. A carico dei ricorrenti sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna F.M., Z.M., G.G. e G.A. a rifondere alla società Allianz S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2019

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