Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 844 del 16/01/2017

Cassazione civile, sez. VI, 16/01/2017, (ud. 21/10/2016, dep.16/01/2017),  n. 844

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2007/2016 proposto da:

P.G.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via Pilo

Albertelli n. 1, presso lo studio dell’Avvocato Lucia Camporeale,

rappresentato e difeso dall’Avvocato Salvatore Stara;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma, depositato il 14

luglio 2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

ottobre 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che la Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile la domanda di equa riparazione proposta, in data 29 aprile 2011, da P.G.P. in relazione ad un giudizio iniziato con citazione dell’aprile 1987 dinnanzi al Tribunale di Cagliari, proseguito in appello, in cassazione e, a seguito di rinvio, deciso dalla Corte d’appello di Sassari con sentenza depositata il 9 luglio 2004 e poi dalla Corte di cassazione, con il rigetto del ricorso pronunciato con sentenza depositata il 19 giugno 2009;

che la Corte d’appello ha ritenuto che il ricorso fosse tardivo, dovendosi individuare il dies a quo del termine di proposizione della domanda nella sentenza della Corte di cassazione che non era soggetta ad altre impugnazioni;

che per la cassazione di questo decreto il P. ha proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da successiva memoria;

che l’intimato Ministero non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2011, art. 4, dell’art. 6, par. 1, della CEDU, degli artt. 391-bis e 323 c.p.c., sostenendo che la Corte d’appello avrebbe errato nel non considerare che le sentenze della Corte di cassazione sono soggette al rimedio della revocazione ordinaria di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4 e che quindi il termine per la proposizione della domanda di equa riparazione poteva cominciare a decorrere solo dalla scadenza del termine per la proposizione della detta impugnazione;

che, d’altra parte, non potrebbe nemmeno argomentarsi dell’art. 391-bis c.p.c., comma 3, atteso che quella che passa in giudicato in pendenza del giudizio di revocazione è la sentenza di appello oggetto del giudizio di cassazione conclusosi con la sentenza soggetta a revocazione ordinaria;

che, in subordine, il ricorrente sollecita la rimessione della questione alle Sezioni Unite;

che con il secondo motivo il ricorrente sostiene che dovrebbe operare nella specie il principio dell’overruling, in quanto al momento della proposizione della domanda di equa riparazione non era affatto affermato il principio della decorrenza del termine dalla decisione adottata sul ricorso ordinario e solo dopo la introduzione della domanda di sarebbe affermato il diverso principio;

che il ricorso è infondato;

che, come questa Corte ha già avuto modo di rilevare (Cass. n. 1293 del 2011), ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., comma 5, “la pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione respinto”, il che evidentemente comporta che, ai fini della individuazione del termine di proposizione della domanda di equa riparazione è alla data della pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione che occorre avere riguardo;

che, sulla base di tale premessa, si è poi escluso (Cass. n. 21863 del 2012) che l’art. 324 c.p.c., a tenore del quale “s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta nè a regolamento di competenza, nè ad appello, nè a ricorso per cassazione, nè a revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5”, possa comportare che la sentenza di cassazione di rigetto possa essere considerata non definitiva perchè nei confronti della stessa è proponibile, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., il ricorso per revocazione, con la conseguenza che, almeno con riferimento ai casi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, occorrerebbe aspettare che si consumi il termine di impugnazione decorrente dalla notificazione della sentenza o, in mancanza, dal suo deposito;

che si è infatti osservato che, come reso evidente dal citato art. 391-bis c.p.c., comma 5, la pendenza del termine per la revocazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza della Corte di cassazione, il che comporta che, ai fini della decorrenza di un termine il cui dies a quo è costituito dalla definitività del provvedimento, occorre avere riguardo al momento del deposito della sentenza della Corte di cassazione che, nel caso di rigetto (o dichiarazione di inammissibilità) del ricorso, determina il passaggio in giudicato della stessa e quindi la sua definitività;

che, invero, “in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai fini dell’individuazione della data di decorrenza del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, la decisione conclusiva del procedimento, nel quale la violazione si assume verificata, diventa definitiva con il passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce” (Cass. n. 1225 del 2012; Cass. n. 24450 del 2006);

che, dunque, l’astratta possibilità di proporre anche nei confronti delle sentenze di questa Corte il rimedio della revocazione non comporta che, ai fini della proposizione della domanda di equa riparazione, le dette sentenze possano essere considerate “non definitive” sino allo spirare del termine di impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5;

che la Corte d’appello non è dunque incorsa nella denunciata violazione della L. n. 89 del 2001, art. 4;

che non può essere accolta la richiesta di sottoporre la questione alle Sezioni Unite, non ravvisandosi nè una situazione di contrasto nè una questione di massima di particolare importanza;

che le considerazioni sin qui svolte consentono anche di ritenere infondato il secondo motivo, non ravvisandosi alcuna modificazione di un orientamento giurisprudenziale che il ricorrente assume essere a sè favorevole, in quanto anche prima delle decisioni indicate in ricorso (n. 14970 del 2012; n. 843 del 2014) l’orientamento di questa Corte era invece nel senso che, ai fini della decorrenza del termine per la proposizione della domanda di equa riparazione doveva aversi riguardo alla data della sentenza della Corte di cassazione, sempre che, ovviamente, si tratti di sentenza che definisce il giudizio e che non dà luogo ad una fase di rinvio (vedi, in particolare, Cass. n. 24358 del 2006, secondo cui “in tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, il termine semestrale di decadenza per la proposizione della relativa domanda, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione che conclude il processo della cui durata si discute. Detto termine, una volta spirato, non può essere riaperto, ed a tempo indeterminato, per effetto del ricorso per revocazione della sentenza conclusiva del processo presupposto che, costituendo un mezzo di impugnazione straordinario, non è legato da “rapporto di unicità” con il precedente giudizio di cognizione concluso con sentenza passata in giudicato”);

che, in conclusione, il ricorso va respinto, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, come liquidate in dispositivo;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, della Corte Suprema di Cassazione, il 21 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio

2017

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